Come e perché Mussolini e le sue guerre ebbero tanta popolarità
Introduzione alla presentazione del libro “Vincere e Vinceremo”
di Massimo Taborri
Circolo Culturale Montesacro, 11 aprile 2015
- Prima di entrare nel merito della pagine del bel libro “Vincere e Vinceremo”, Gli italiani al fronte tra il ’40 e il ’43, ho pensato di aprire insolitamente questa mia introduzione con una breve notazione di carattere familiare che non mi pare stonata nel contesto delle cose di cui parleremo, perché se avessi saputo che Mario Avagliano e Marco Palmieri stavano lavorando ad un’opera così vasta e approfondita – come quella che presentiamo oggi – avrei volentieri messo a loro disposizione un piccolo archivio di famiglia, formato da 24 lettere scritte da un mio parente, uno zio che portava il mio stesso cognome Taborri, che ha concluso la sua esistenza in Russia durante la tragica ritirata dei primi mesi del ’43.
- Un ragazzo di 20 anni, Otello, chiamato subito a combattere sulle Alpi Occidentali, sul confine francese, poi in Grecia e quindi in Russia con la Divisione Tridentina
- Tra queste lettere ce n’è una spedita dal Moncenisio che porta la data del 20 giugno ’40. Sono dunque i giorni della guerra con la Francia, quelli della famosa pugnalata alla schiena (visto che – come è noto - l’esercito tedesco aveva già piegato l’Armata francese entrando il 14 giugno a Parigi), durante i quali l’esercito italiano arrivò a Mentone e in poche altre località delle prime valli francesi, appena al di là delle Alpi.
- La guerra dichiarata da Mussolini il 10 giugno del ’40 che, sul fronte francese, impegnò i reparti italiani solo per 4 o 5 giorni, visto che le operazioni militari praticamente presero avvio intorno al 20 giugno e appena cinque giorni dopo fu firmato dalla Francia, a Parigi, l’armistizio con le potenze dell’Asse.- “Cara mamma, non allarmarti se siamo vicini alla Francia - scrivevo mio zio a 2.500 metri di quota – noi restiamo sempre indietro (Otello era un radiotelegrafista addetto al Comando di Divisione che, in effetti, restava un po’ indietro dalle prime linee, ma può anche darsi che scrivesse questo per non impensierire a casa, n.d.r.) e poi ormai si può dire che la Francia è finita, infatti da più notti non si sente nemmanco un colpo d’Artiglieria.” E aggiungeva: “ avrei però da chiederti un favore, dovresti mandarmi un paio di calze pesanti, possibilmente nere o grigie verdi, che qui ai piedi si sente molto freddo, addosso no perché ho il maglione militare ma ai piedi non ho che calze fine, se puoi mandarmele al più presto possibile mi farai un gran piacere”.
- Sul Moncenisio, anche nel mese di giugno, la temperatura soprattutto di notte scende vari gradi sotto lo zero. Dunque indossare un paio di calze di lana sarebbe stata una gran fortuna, ma quelle calze dovevano essere rigorosamente nere o grigio verdi perché, in caso contrario, non avrebbe potuto utilizzarle.
- La guerra con la Francia, come dicevo, durò pochi giorni eppure costò tra soldati e ufficiali oltre 600 morti, oltre 600 dispersi e più di 2.600 tra feriti e congelati: naturalmente congelati… ai piedi. Il dato è conosciuto da storici e studiosi ed è richiamato nel libro di M. A. e M. P., ma non è forse poi così noto al grande pubblico.
- Per entrare ora nel merito del libro mi pare che il suo significato sia ben raccolto e spiegato nell’epigrafe che è stata scelta dagli autori a presentazione dell’opera. Si tratta di una lettera di Gaetano Salvemini dell’agosto ’46 scritta dagli USA e indirizzata a Ernesto Rossi e Leo Valiani.
- Salvemini fu un socialista un po’ atipico, un antifascista costretto all’esilio in Francia, un accademico che negli anni ’30 se ne andò poi negli Usa, per insegnare ad Harward. Per tornare in Italia solo nel lontano ’49:
- “Inutile andare in giro raccontando che la guerra fu voluta dal solo Mussolini e non dall’Italia. Certo il popolo italiano non volle la guerra se si intende tutto il popolo. Ma i generali, gli ammiragli, i grossi industriali, glia alti burocrati, i senatori, i deputati, i professori d’università, i vescovi, gli arcivescovi, i cardinali, tutto quel lerciume accettò la guerra, e parecchi altri la vollero finché cedettero che l’avrebbero vinta dato lo sfacelo militare che era già avvenuto in Francia e che si prevedeva imminente in Inghilterra (…). Anche se si parla delle classi medie e inferiori del popolo italiano, non bisogna dimenticare che una larga parte seguì Mussolini, e che fra esse Mussolini godé di una larga popolarità dopo la vittoria nella guerra in Etiopia ed al tempo dello squartamento cecoslovacco. E se le cose gli fossero andate bene nella guerra mondiale, Mussolini sarebbe per molta gente un grand’uomo. Questa è la verità (...). Bisogna, dunque, smetterla con questa balla che l’Italia non è responsabile”.
- E forse non è un caso che parole tanto esplicite siano state scritte da un uomo lontano dalle polemiche politiche che infiammarono gli anni del dopoguerra.
- L’obiettivo del libro è dunque questo: capire come e perché Mussolini e le sue guerre ebbero tanta popolarità e di quali elementi ideologici, emotivi e psicologici, questo consenso si alimentava. Un obbiettivo importante visto che nella pubblicistica e nella letteratura del dopoguerra vi è stata – come si spiega nell’introduzione – una sostanziale rimozione delle responsabilità nazionali rispetto alle guerre italiane, quasi sempre definite guerre fasciste, con un evidente intento di autoassoluzione da parte di tutti coloro, la grande maggioranza, che avevano accolta la guerra con esultanza e convinzione, senza essere necessariamente ed entusiasticamente fascisti.
- D’altra parte, come era in parte inevitabile, gli eventi successivi all’armistizio dell’8 settembre del ’43 e il riscatto rappresentato dall’epopea partigiana che da quella data cominciò a svilupparsi, hanno messo in ombra il grado di consenso popolare, lo slancio e l’entusiasmo con cui gli italiani, avevano, prima dell’8 settembre, preso parte alla mobilitazione e alla guerra.
- Il libro si incarica, quindi, di affrontare questa zona un po’ opaca della storia del popolo italiano, nel modo più efficace ed incontrovertibile: e cioè esaminando le migliaia di lettere da e per il fronte, i diari scritti da ufficiali e soldati, le relazioni indirizzate alle varie autorità, Duce compreso, dalle commissioni militari di censura che passavano al vaglio tali lettere, tutta quella che potremmo definire la letteratura coeva e proprio per questo più autentica e rappresentativa dei sentimenti diffusi.
- Ne emerge un mosaico piuttosto persuasivo della dimensione ampia e radicata delle motivazioni con cui con cui gli italiani guardarono alla guerra, sia da parte del cosiddetto fronte interno (le famiglie a casa) sia da parte del fronte esterno (coloro che combattevano in prima linea), con poche o nessuna differenza tra i vari quadri d’operazione: i Balcani e la Grecia, l’Africa e poi la Russia. Un consenso che - diversamente dai proclami mussoliniani sull’efficacia delle nostre armi – assunse, di fronte alla prime serie difficoltà operative, un andamento sinusoidale, sulla base dei successi o degli insuccessi della guerra, ma che iniziò seriamente a vacillare solo nei primi mesi del ’43, dopo Stalingrado e l’arretramento italiano in Tunisia, seguito alla sconfitta italo-tedesca di El Alamein.
- Un consenso alla guerra che nonfu però solamente frutto della propaganda del regime ormai ventennale, o della smisurata e fideistica ammirazione attribuita al suo capo, e neppure semplicemente frutto delle promesse imperiali del fascismo, che - come si sa - rivendicava all’Italia il diritto della nazione giovane ed emergente ad una diversa distribuzione delle risorse nel quadro internazionale, oltreché il suo naturale primato all’egemonia nei Balcani e nel Mediterraneo.
- Perché si trattò di un consenso ideologico derivato anche da motivi più atavici, legato per es. alla tradizione cattolica del Paese, che alimentava o perlomeno giustificava la guerra in Russia come crociata antibolscevica ed antislava. Non erano pochi alpini e fanti che scrivevano ad es. direttamente a parroci e curati delle località da cui provenivano, e da questi ricevevano risposte di incoraggiamento a continuare nella loro azione anche in nome di Dio. Per non parlare della questione della persecuzione e della deportazione razziale nelle zone occupate dall’esercito italiano su cui di certo si soffermeranno gli autori. O anche del capitolo riguardante la repressione contro partigiani e popolazione civile messa in opera dall’esercito italiano in Grecia o in Jugoslavia.
- Così come non mancò, nelle motivazioni che spinsero ufficiali e soldati ad operare in Russia, come in Africa o in Grecia – in condizioni davvero proibitive – il semplice amor di patria, la volontà di fare fino in fondo il proprio dovere, di dimostrare la propria coerenza, soprattutto dopo che si erano veduti via via morire centinaia di commilitoni, spesso amici con cui sui erano condivisi così tanti sacrifici. Proprio come era accaduto ai propri padri nella prima guerra mondiale, al cui esempio molti si richiamavano.
- Tutto questo consenso – come sentiremo – comincerà a declinare solo nei primi mesi del ’43 e soprattutto con l’occupazione anglo americana della Sicilia del luglio ’43. Il fattore fondamentale che – come si sa - determinò la caduta di Mussolini. Un evento, questo della caduta del Duce, che vide le piazze di tutta Italia riempirsi di una gran folla esultante ed eccitata, quando il peggio doveva ancora venire. Un entusiasmo straripante che aveva le sue legittime motivazioni, ma che non convinceva del tutto un uomo come Nuto Revelli, appena tornato dalla drammatica ritirata dalla Russia, che assiste, convalescente, dalle finestre della propria casa di Cuneo a queste manifestazioni di gioia e crede di vedere in tale generale esultanza, i segni della solita tendenza endemica al trasformismo, tipica del popolo italiano, di una inclinazione al conformismo e al gattopardismo, di una eccessiva facilità all’emozione piuttosto che alla riflessione. Caratteristiche senza considerare le quali – a mio giudizio – non si spiegherebbero neppure diversi passaggi, apparentemente incongruenti, che hanno caratterizzato la storia del nostro Paese anche nei decenni successivi. E scrive Revelli annotando sul suo diario in quei giorni:
- “è caduto il fascismo, viva l’esercito, viva Badoglio, hanno gridato stanotte in Via Roma. Ho risposto con un urlo, come se mi avessero ferito: Che confusione! Odio con tutte le mie forze i tedeschi, disprezzo i fascisti, i gerarchi imboscati, corrotti, vigliacchi. Ma i morti, i nostri poveri morti di Russia, non mi danno pace. Morti per nulla, proprio come se la Patria non esistesse più. Si grida abbasso il fascismo, viva l’esercito. Ma quale esercito! Quello dei morti per nulla,quello dei vivi che non sanno più per che combbattere. Volevo scendere stanotte. Forse mi sarei fatto picchiare. E più avanti:”Vedo i cortei, sento i discorsi: voglio vedere e sentire tutto. Riconosco troppi fascisti di ieri. Più fascisti erano ieri più oggi sono antifascisti e si agitano, spaccano, urlano”.
- Gli amici Mario Avagliano e Marco Palmieri lavorano insieme e con successo ormai da diversi anni. Giornalisti e storici entrambi hanno prodotto sempre col solito metodo del ricorso alla letteratura coeva, negli ultimi anni una serie di opere, a mio giudizio, preziose:
- 1) Di pura razza italiana, un libro che rappresenta un documento sulle reazioni degli italiani di fronte alle leggi razziali. Una storia di indifferenza, complicità e opportunismo, accanto ad episodici casi di solidarietà. Un libro che sarà presto tradotto e pubblicato in Germania.
- 2) Voci dal lager, un libro basato sulle lettere dei deportati politici dal lager (che abbiamo presentato con Marco Palmieri anche in questa sede).
- 3) Gli internati militari italiani, la vicenda, prima scarsamente conosciuta, degli oltre 600 mila militari italiani chiusi nei lager nazisti, che si rifiutarono di collaborare col nazismo e la RSI.
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