Canova, quelle urla dal buio trasformate in pittura

di Mario Avagliano

L’arte pittorica ha una forza evocativa di denuncia degli orrori della Storia che spesso travalica le altre forme artistiche, comprese la letteratura e il cinema. Guernica di Pablo Picasso resterà per sempre scolpito nella memoria della cultura occidentale come opera di condanna delle bombe sui civili. Una voce modernissima, eppure in questi suoi aspetti ancora misconosciuta, è quella del grande incisore e pittore Bruno Canova, classe 1925, bolognese di nascita e romano d’adozione (amava la periferia della capitale e aveva scelto di vivere a Centocelle), scomparso lo scorso anno. Al suo straordinario ciclo di opere sul fascismo, le leggi razziste del 1938, la Shoah e la seconda guerra mondiale, sarà dedicata una preziosa mostra nel museo romano del Casino dei Principi di Villa Torlonia, che sarà inaugurata il 14 dicembre fino al 26 gennaio 2014, dal titolo Bruno Canova. La memoria di chi non dimentica (aperta tutti i giorni, dalle ore 9 alle 19).

La mostra, promossa dall’Assessorato alla Cultura del Comune e dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e curata da Maurizio Calvesi, uno dei massimi storici dell’arte viventi, cade significativamente nel 70° anniversario della Resistenza e nel 75° delle leggi razziali. Essa raccoglie una selezione di disegni, quadri e bassorilievi di Canova, che fu uno degli esponenti più apprezzati della cosiddetta Scuola Romana tra gli anni Sessanta e Settanta, frequentando, tra gli altri, Mario Mafai, Alberto Ziveri, Renato Guttuso, Renzo Vespignani, Ugo Attardi, Pier Paolo Pasolini. Arrestato nel 1944 per avere tentato di organizzare un nucleo partigiano a La Spezia e internato in un campo di lavoro tedesco nei Sudeti, Bruno Canova, dopo essere stato testimone in prima persona degli orrori delle dittature e della guerra, adoperò il linguaggio delle arti visive affinché le generazioni future non corressero il rischio di perderne la memoria. Nel lavoro dell’artista hanno dunque importanza particolare le opere dedicate alle leggi razziste del 1938, alla persecuzione degli ebrei e alla Shoah, di intensa forza espressiva e dolente partecipazione, in cui i simboli non sono fredde evocazioni ma testimonianza drammatica di una sofferta capacità di evocare fatti talmente spaventosi da giungere alla soglia dell’indicibile. Come scrive Calvesi nell’introduzione del catalogo, “questo è evidente soprattutto nelle emozionanti tavole trattate a collage e tecnica mista, grandi anche di misura, come urlate da una voce che viene dal buio mai dimenticato, un buio che sa farsi pittura, straordinariamente efficaci nell'uso non formalistico ma anche documentario del collage: degne assolutamente di costituire il nucleo artistico (insieme a pochissimi altri esempi) di un museo dedicato alla memoria della Shoah e agli orrori della guerra”. A questo scopo sono previsti, durante tutto il periodo di apertura, incontri didattici con gli studenti delle scuole della capitale dedicati alle questioni storiche affrontate dalle opere esposte. Il ciclo di opere presentato nella mostra, raccolto e ordinato dal figlio Lorenzo Canova, docente all’Università del Molise, fu eseguito in prevalenza tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta ed è stato portato avanti dall’artista fino al termine della sua vita, dando vita a un libro del 1972 e a una mostra itinerante in moltissime città italiane. In questi lavori Canova unisce la sua formazione di avanguardia, legata alla grafica di Albe Steiner, Max Huber e alla fotografia di Luigi Veronesi, a una personale rielaborazione del collage futurista e dadaista e alla sua vocazione iconica di disegnatore e pittore. Dopo lunghe ricerche storiche, Canova utilizzò manifesti, ritagli di giornale e documenti originali inseriti nel corpo dell’opera, elementi verbali e visivi, campiture quasi informali, disegni e parti dipinte. Dimostrando di essere non solo un artista innovativo ma un pioniere della denuncia delle responsabilità italiane nella vicenda della persecuzione degli ebrei. Una pagina nera della nostra storia ancora dimenticata, che questa eccezionale mostra ci sbatte in faccia con la forza, i colori e l’energia della pittura e dei documenti.

(Il Messaggero, 14 dicembre 2013)

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Storie – Zi’ Mario Limentani, il testimone di Mauthausen

di Mario Avagliano

Lo chiamano ancora oggi «il Veneziano», anche se vive ininterrottamente a Roma dai primi anni Trenta, a parte la drammatica parentesi dei due anni di deportazione. Mario Limentani, detto Zi’ Mario, a 90 anni di età è uno dei pochi sopravvissuti di quei circa 1.700 ebrei della comunità più popolosa d’Italia che, durante i nove mesi di occupazione tedesca della capitale, tra il settembre del 1943 e il giugno del 1944, vennero estirpati a forza dalle loro case e tradotti nell’inferno dei Lager del Reich. La sua storia, per tanti aspetti unica ed esemplare, è stata per la prima volta raccontata in modo organico e completo nel libro intitolato “La scala della morte. Mario Limentani da Venezia a Roma, via Mauthausen” (Marlin editore), scritto da Grazia Di Veroli, che con delicatezza e rispetto della sfera privata dell’interlocutore, ha sapientemente collazionato i suoi ricordi di oggi con le interviste rilasciate dallo stesso Limentani negli ultimi venti anni, a partire da quelle al Cdec e alla Shoah Foundation di Spielberg. Il saggio sarà presentato dal Centro di Cultura Ebraica, l’Aned di Roma e la Libreria Ebraica “Kiryat Sefer” giovedì 9 gennaio 2014, alle 20.30, presso il Museo Ebraico di Roma (via Catalana/Largo 16 ottobre). Intervengono, oltre al sottoscritto, Anna Foa e Marcello Pezzetti. Saranno presenti l’autrice e Mario Limentani.

Nel libro-intervista, che esce significativamente nel 70° anniversario della deportazione da Roma del 4 gennaio 1944 (ricordato domenica scorsa dall’Aned a Regina Coeli), scorrono le immagini dell’infanzia di Limentani, originario di Venezia ma trasferitosi nella capitale giovanissimo - par di sentirlo, nella sua classica parlata in romanesco verace impastata di inflessioni venete - fino all’impatto scioccante con le leggi razziste del 1938. E poi la guerra, la fame, i bombardamenti, la caduta del fascismo, l’occupazione tedesca, la raccolta dell’oro e la tragica alba del 16 ottobre del 1943, con la retata degli ebrei in tutta Roma, durante la quale i Limentani si nascondono in uno scantinato e si sottraggono alla cattura da parte delle SS di Herbert Kappler. Purtroppo il ventenne Mario Limentani, come centinaia di altri ebrei romani, finirà comunque tra le grinfie dei nazisti, qualche settimana dopo, a fine dicembre del 1943, nei pressi della Stazione Termini, forse a causa di una delazione della celebre spia ebrea Celeste Di Porto, detta la Pantera Nera. E ad arrestarlo e a consegnarlo ai tedeschi saranno alcuni fascisti, a testimonianza di quanto pesò il collaborazionismo italiano nella vicenda della Shoah. Incarcerato a Regina Coeli, il 4 gennaio del 1944 Mario viene condotto al binario n. 1 della Stazione Tiburtina e caricato su un vagone piombato in partenza per il Reich, assieme a circa 300 deportati. I suoi compagni di viaggio sono in maggioranza politici, dai nipoti di Badoglio, Pietro e Luigi Valenzano, al gruppo dei comunisti, tra i quali spicca la figura di Filippo D’Agostino, uno dei fondatori del partito comunista d’Italia. Ma vi sono anche una decina di ebrei. All’arrivo a Mauthausen, a Limentani, che pure viene registrato come ebreo, viene cucita sulla tuta a righe «una stella fatta con due triangoli: uno rosso con IT nero perché ero italiano e m’avevano portato con i politici e uno giallo perché ero ebreo». Quasi ad attestare il destino in parte comune che toccava a chi si era opposto al nazifascismo e a chi era perseguitato per il solo fatto di essere ebreo. La particolarità dell’esperienza di Limentani (come quella degli altri del suo gruppo) trae origine proprio da qui. Egli infatti, a differenza della maggior parte degli ebrei italiani, non viene deportato ad Auschwitz, ma a Mauthausen, uno dei Lager simbolo della deportazione politica, più avanti trasferito nel sottocampo di Melk, poi di nuovo a Mauthausen e infine nell’altro sottocampo di Ebensee. Nell’immaginario collettivo, quando si pensa alla Shoah, soprattutto per quanto riguarda gli ebrei italiani, il pensiero va subito al Lager di Auschwitz, dove furono deportati oltre 6mila di loro (su un totale di poco più di 6.800). Forse anche per questo motivo le vicende dei circa 800 ebrei che furono deportati in altri Lager, hanno avuto – ingiustamente – un’attenzione minore da parte della storiografia e dell’opinione pubblica. Il racconto dei due anni nei Lager nazisti è commovente, ma – come è nello stile asciutto e privo di retorica di Limentani – non indulge mai al pietismo e non insiste sui dettagli più crudi, mantenendo sempre un certo pudore e lasciando confinato ciò che è indicibile nella sfera dell’inesprimibile. Tra le pagine più toccanti delle memorie di Limentani, raccolte e verificate dalla Di Veroli, ci sono quelle sulla famosa «scala della morte» di Mauthausen, dalla quale prende il titolo questo libro: i 186 gradini, ripidi e scivolosi, che portano alla cava e che i deportati sono costretti a salire e scendere più volte al giorno, con un pesante carico di massi di granito.Molti di loro muoiono su quella scala, privi di forze, rotolando sui gradini oppure facendo un tragico volo nel burrone sul quale la scala si protende. Limentani sarà uno dei pochi ebrei romani a sopravvivere alla soluzione finale e a tornare a casa. E nel dopoguerra, diventerà una delle colonne portanti dell’Aned capitolino e uno dei principali testimoni italiani della deportazione razziale e politica.

(L'Unione Informa e Moked.it del 7 gennaio 2014)

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Storie - Via Gaetano Azzariti

di Mario Avagliano

Nel dopoguerra molti dei protagonisti delle leggi razziste del 1938 e dell’apparato di propaganda e di applicazione delle misure discriminatorie nei confronti degli ebrei sono rimasti al loro posto o addirittura hanno fatto carriera, senza alcuna abiura del loro passato scomodo.

Uno dei casi più clamorosi è quello del giurista napoletano Gaetano Azzariti, nominato dal regime fascista presidente del Tribunale della Razza. Dopo la liberazione, Azzariti non solo attraversò indenne il cambio di guardia, diventando ministro della Giustizia del governo Badoglio e addirittura riciclandosi come consigliere dei ministri Togliatti e Parri nella commissione di epurazione, ma fu anche insignito della gran croce al merito della Repubblica italiana, fu nominato presidente della Corte Costituzionale e, dopo la morte, si vide intitolare nel 1970 una strada nella sua città natale e dedicare un busto bronzeo nell’anticamera della stessa Consulta.

Una decina di giorni fa lo studioso e scrittore Nico Pirozzi, autore di vari libri sulla Shoah, ha chiesto dalle colonne de “Il Mattino” al sindaco di Napoli il cambio del nome della strada, considerando tale intitolazione offensiva nei confronti della «città delle Quattro Giornate, la città che per prima imbracciò le armi contro l’occupazione nazista, la città che con la sua insurrezione impedì che fosse portata a termine la prima retata contro gli ebrei in Italia». La sua richiesta, subito fatta propria da cittadini, intellettuali, studiosi e giornalisti (tra i quali Gian Antonio Stella, che ne ha scritto sul Corriere della Sera, e Daniele Coppin, dell’Associazione Italia-Israele, che ha subito lanciato una petizione on line), è stata accolta dal comune di Napoli, come ha dichiarato l’assessore Nino Daniele. L’amara considerazione è che ci si accorge di tutto questo solo a distanza di 75 anni e solo grazie alla meritoria iniziativa di singoli. Basta digitare su google alcuni nomi di persone che in quegli anni tristi si dichiararono “di pura razza italiana” e contribuirono fattivamente alla persecuzione degli ebrei, per rendersi conto che l’Italia continua ad avere strade dedicate agli estensori del manifesto della razza (via Nicola Pende a Bari e via Arturo Donaggio a Roma) e al fondatore e direttore del settimanale "La difesa della razza" (via Telesio Interlandi a Castellammare del Golfo). A quando il cambio di nome di queste strade? E quando faremo i conti con la nostra storia rimossa?

 (L'Unione Informa e Moked.it del 4 febbraio 2014)

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Storie – Piero Terracina, foto di una vita

di Mario Avagliano

Uno dei Testimoni più straordinari della Shoah italiana è il romano Piero Terracina. Fino al 7 marzo 2014 è in corso al Goethe-Institut di Roma una mostra a lui dedicata, con foto del tedesco Georg Pöhlein e una audio-documentario intitolato “Perché Piero Terracina ha rotto il suo silenzio” a cura di Andrea Pomplun e dello stesso Georg Pöhlein.

Piero Terracina, classe 1928, subì, come tutti gli ebrei italiani, l’infamia delle leggi razziste. Il 15 novembre del 1938, quando entrò in classe e si diresse verso il suo banco, si sentì addosso gli occhi di tutti i suoi compagni. L'insegnante lo bloccò e gli disse: "Esci, che tu non puoi stare qui". Dopo l’armistizio, Piero Terracina sfuggì alla retata del 16 ottobre 1943. Arrestato il 7 aprile 1944, fu deportato, assieme agli otto componenti della sua famiglia, ad Auschwitz, da dove solo lui tornò vivo. Terracina, come altri deportati, si chiuse in un lungo silenzio ed iniziò a parlare della sua vicenda solo a partire dal 1992. 

I ritratti del fotografo tedesco Georg Pöhlein ci raccontano il personaggio Piero Terracina, con la sua passione e la sua umanità. L'audio documentario di Andrea Pomplun è invece dedicato alla storia della cattura, della deportazione e della morte della famiglia di Piero Terracina ad Auschwitz. La mostra è arricchita da altre testimonianze: le lettere dei ragazzi delle scuole in cui Terracina è stato ospite, i ricordi di Walter Veltroni, di Riccardo Di Segni e le riflessioni di chi ha curato la mostra e collaborato con Terracina. 

(L'Unione Informa e Moked.it del 18 febbraio 2014)

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Storie - Il censimento del 1938

di Mario Avagliano

Anche nel Novecento, in estate la burocrazia andava in vacanza. Ma in quell’agosto del 1938 il regime fascista di Benito Mussolini richiamò in servizio prefetti, uffici comunali, carabinieri, responsabili del partito e via dicendo, per affidare loro il delicato compito del censimento degli ebrei in Italia. L’operazione fu ordinata con priorità assoluta, con la richiesta ai funzionari di mantenere massima segretezza sulla procedura (nei telegrammi la parola ebreo era in cifra e corrispondeva a 24535).
«Avverto – scrisse prima di Ferragosto il Prefetto di Firenze al podestà, fotografando bene lo spirito dell’iniziativa – che il lavoro di rilevazione dovrà essere compiuto fascisticamente, con celerità ed assoluta precisione, sotto la Vostra personale direzione e responsabilità».
Il censimento doveva rispecchiare la situazione alla mezzanotte del 22 agosto. E così in quei giorni centinaia di incaricati comunali si presentarono in qualche decina di migliaia di abitazioni sparse nella penisola per consegnare il foglio di rilevazione, andando a scovare gli ebrei anche nelle case per la villeggiatura.
Un’attività che venne svolta con scrupolo. I funzionari si diedero un gran da fare per contribuire al censimento, spesso andando a controllare lo status razziale di cittadini ignari dai cognomi inusuali o esotici per indagare se per caso fossero ebrei. Né mancarono privati cittadini che collaborarono all’operazione con segnalazioni alle autorità competenti, quasi sempre anonime, come ho raccontato assieme a Marco Palmieri nel libro “Di pura razza italiana”.
Nonostante la complessità dell’operazione i dati vennero raccolti e consegnati entro i tempi previsti. Gli ebrei presenti in Italia risultarono 58.412 (aventi per lo meno un genitore ebreo o ex ebreo). Vennero classificati come «ebrei effettivi» 46.656, di cui 9.415 stranieri, pari all’1 per mille della popolazione complessiva.
Il censimento fu il primo test per misurare la tenuta della pubblica amministrazione e delle diramazioni locali del partito di fronte all’imminente persecuzione. Test fascisticamente superato. L’Italia era pronta alle leggi razziali. Anzi, razziste.

(L'Unione Informa e Moked.it del 26 agosto 2014)

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Storie – Colorni e il sogno europeo

di Mario Avagliano

Tra le figure meno conosciute della Resistenza e dell’antifascismo italiano c’è quella di Eugenio Colorni, filosofo brillantissimo, confinato politico, partigiano, uno dei tre coautori del Manifesto di Ventotene precursore dell’Unione Europea (gli altri due erano Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi). A fare luce su di lui è un’accurata biografia di Antonio Tedesco, “Il partigiano Colorni e il grande sogno europeo” (Editori Riuniti, pp. 205), patrocinata dalla Biblioteca della Fondazione Nenni, con prefazione di Giorgio Benvenuto, che sarà presentata venerdì 10 ottobre al Circolo "Giustizia e Libertà" di Roma (via Andrea Doria 79).
Eugenio Colorni, appartenente a una famiglia della medio borghesia ebraica milanese, secondogenito di Alberto Colorni e Clara Pontecorvo, è antifascista precoce, già a sedici anni, dopo l’omicidio Matteotti, e prosegue il suo percorso politico all’università, militando nei gruppo Goliardici per la libertà e poi aderendo a GL e al Psi.
In questi anni, anche grazie alla frequentazione con i cugini Sereni (Enrico, Emilio e in particolare Enzo) nelle estati a Forte dei Marmi, aderisce con fervore al movimento sionista, entrando nel 1928 nel comitato di segreteria del terzo congresso nazionale della Federazione Sionistica Italiana e partecipando nel luglio del 1929 al Congresso Sionista Internazionale di Zurigo.
Si allontanerà dal sionismo qualche anno dopo, pur conservando sempre vivo il sentimento di appartenenza alla comunità ebraica, per dedicarsi alla lotta in Italia contro il fascismo.
Iscritto al casellario politico già nel 1930 quale sospetto antifascista, diventa in poco tempo dirigente del Centro Interno Socialista. Il suo arresto il 5 settembre 1938, nel pieno della campagna razzista del regime fascista, farà clamore e sarà additato come esempio dell’antifascismo congenito negli ebrei. Il Corriere della Sera titola: “La trama giudaico-antifascista stroncata dalla vigile azione della polizia”.
Confinato a Ventotene, dove porterà a maturazione il suo ideale europeista a contatto con Spinelli e Rossi, e poi in Basilicata, nell’aprile 1943 si darà alla fuga, raggiungendo Roma ed iniziando un’attività politica clandestina. Nel settembre del 1943 sarà tra i promotori a Roma della Brigate partigiane Matteotti. Ferito gravemente il 28 maggio 1944 durante uno scontro a fuoco con due militi della Banda Koch a Piazza Bologna, morirà il 30 maggio all’Ospedale San Giovanni, dovendo così abbandonare la battaglia per realizzare il suo grande sogno: gli Stati Uniti d’Europa. Pietro Nenni scriverà nel suo diario: “La sua perdita è per noi irreparabile ed è dolorosa per la cultura italiana ed europea”.
In tempi come questi, in cui l’Europa è latitante, smarrita com’è nelle regole ferree dell’economicismo e del rigore dei conti, la figura e il pensiero di Eugenio Colorni, che prospettava un’unione federale di tipo politico e ideale, rappresentano – come ci spiega il libro di Antonio Tedesco - dei punti fermi dai quali ripartire e ritrovare passione ed entusiasmo.

(L'Unione Informa e Moked.it del 7 ottobre 2014)

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Storie – A lezione di razzismo nell’Italia fascista

di Mario Avagliano 
 
“Ma fra i nuovi conquistatori si era mescolata la razza giudaica, disseminata lungo le rive del Golfo Persico e sulle coste dell’Arabia, dispersa poi lontano dalla patria d’origine, quasi per maledizione di Dio, e astutamente infiltratasi nelle patrie degli Ariani, Essa aveva inoculato nei popoli nordici uno spirito nuovo fatto di mercantilismo e sete di guadagno, uno spirito che mirava unicamente ad accaparrarsi le maggiori ricchezze della terra. L’Italia di Mussolini, erede della gloriosa civiltà romana, non poteva rimanere inerte davanti a questa associazione di interessi affaristici, seminatrice di discordia, nemica di ogni idealità”. 
 
Così si leggeva ne "Il libro della quinta classe elementare: letture" di Luigi Rinaldi, edizione 1941, nel capitolo "Le razze", per giustificare le misure razziste adottate dal regime a partire dal 1938 nei confronti degli ebrei. È uno dei documenti presentati nella mostra "A lezione di razzismo - Scuola e libri durante la persecuzione antisemita", allestita a Bologna in occasione della Giornata della Memoria, presso il Museo Ebraico, e aperta al pubblico fino all’8 marzo. 
 
Il sistema dell’istruzione scolastica fu il primo ad essere colpito dai provvedimenti razzisti, con l’espulsione dei docenti e degli studenti ebrei dalle scuole, e fu uno degli strumenti principali del regime fascista per inoculare il veleno razzista nella popolazione italiana, in particolare nelle nuove generazioni, attraverso i libri di testo, i temi scolastici e le lezioni degli insegnanti, prendendo di mira prima le popolazioni colonizzate dell’Africa e poi gli ebrei. 
 
Lo attestano i materiali della mostra, provenienti dall’Indire, l’Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa, istituito nel 1925 con l'obiettivo di ospitare un'esposizione permanente della "scuola nuova", frutto della riforma Gentile. Libri, quaderni, diari, oltre a diverse fotografie dell'epoca, che illustrano il clima in cui crebbe la gioventù in quegli anni, fondato sul mito della superiorità della razza latina, sulla rigida divisione tra "civilizzati" e "non civilizzati", a partire dagli abitanti autoctoni delle colonie dell’Impero, e sull’esaltazione dei ragazzi bianchi e fascisti. E contribuiscono a spiegare il forte consenso alle leggi razziste degli italiani dell’epoca. Un film in bianco e nero che non fa onore all’Italia, ma che bisogna ricordare. 
 
(L'Unione Informa e Moked.it del 3 febbraio 2015)
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Storie - I volenterosi carnefici di Mussolini

di Mario Avagliano

Nei due anni tragici di Salò e dell’occupazione tedesca del centro nord dell’Italia, numerosi italiani si prestarono ad essere “volenterosi” carnefici dei loro connazionali ebrei. La retata a Venezia del 5 dicembre 1943, ad esempio, fu condotta da poliziotti, carabinieri e volontari del ricostituito partito fascista. E almeno la metà degli arresti degli ebrei poi deportati ad Auschwitz e in altri Lager fu opera di italiani, senza ordini o diretta partecipazione dei tedeschi.

A ricordarcelo, con un agile e documentato saggio pubblicato da Feltrinelli, è Simon Levis Sullam, professore di Storia Contemporanea presso l'Università Ca' Foscari di Venezia, in I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945 (pp. 150), il cui titolo rimanda volutamente a quello del saggio di Goldhagen, "I volonterosi carnefici di Hitler", che ha riaperto la questione sulla responsabilità dei tedeschi (e non solo dei nazisti) nella Shoah.

Anche dopo l’armistizio, l’Italia non rimase “al di fuori del cono d’ombra dell’Olocausto” e accanto ai giusti e ai salvatori, vi furono purtroppo tanti persecutori. Nel libro, oltre che delle responsabilità degli apparati dello Stato e degli uomini di partito, ci si occupa fra l’altro del ruolo dei delatori, che non furono solo fascisti convinti ma anche semplici civili, quasi sempre per motivi di soldi. E perfino alcuni ebrei, come il triestino Mauro Grini, che tra Trieste, Venezia, Milano identificò e denunciò un migliaio di ebrei ("anche di più" - si vantava) dietro lauti pagamenti, e la romana Celeste Di Porto.

(L'Unione Informa e Moked.it del 24 febbraio 2015)

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