Mario Avagliano

Mario Avagliano

Shoah, ecco i disegni dell'orrore

di Mario Avagliano
 
Sulla difficoltà di raccontare l'orrore dei lager, si sono esercitati in passato diversi storici, qualificati sociologi e gli stessi ex deportati. C'è un confine delicato e invalicabile tra ciò che riesce ad esprimere la parola orale o scritta e ciò che invece è per sua natura "indicibile". Ma dove non arriva la parola, possono soccorrere i disegni di chi ha vissuto l'inferno dei campi di concentramento, che "hanno la forza cruda dell'occhio che ha visto e che trasmette la sua indignazione". 
Così scriveva nel 1981 Primo Levi nella prefazione al lavoro di ricerca di questa preziosa documentazione visiva sui lager nazisti condotto dal ragionier Arturo Benvenuti, originario di Oderzo, bancario di professione e per hobby poeta e pittore. Una raccolta straordinaria, rimasta praticamente inedita per trent'anni, e che solo ora, in occasione del settantesimo della liberazione di Auschwitz e alla vigilia della Giornata della Memoria, vede finalmente la luce in libreria, con il titolo "K.Z. Disegni degli internati nei campi di concentramento nazifascisti" (edizioni BeccoGiallo, pp. 272, euro 26), a cura di Roberto Costella. Una parte di questi disegni sarà esposta per un mese a Roma, in una mostra aperta al pubblico, presso la Libreria Fandango, dal 27 gennaio al 27 febbraio. 
 
Nel settembre 1979, il cinquantaseienne Benvenuti si mise in viaggio con la moglie a bordo di un camper per una sorta di via crucis, di pellegrinaggio laico e riparatore lungo le "stazioni" di Auschwitz, Terezín, Mauthausen-Gusen, Buchenwald, Dachau, Gonars, Monigo, Renicci, Banjica, Ravensbrück, Jasenovac, Belsen, Gürs, visitando archivi, musei, biblioteche del Vecchio continente, incontrando decine di sopravvissuti, recuperando testimonianze perdute e fotografando centinaia di disegni, per lo più realizzati dagli internati negli stessi lager con spezzoni di matita e su fogli di fortuna, qualcuno dipinto dai superstiti nell'immediato dopoguerra o da chi entrò nei campi come liberatore e volle fermare la memoria su carta. 
Ne nacque un volume concepito come un "frammento di memoria universale", al quale Primo Levi eccezionalmente concesse l'onore della prefazione. All'epoca Benvenuti lo stampò fuori commercio in poche centinaia di copie e meritoriamente oggi viene pubblicato e messo a disposizione di un pubblico più vasto. 
Dai bozzetti, le ombre, i chiaroscuri delle 250 opere in bianco e nero selezionate con cura e passione da Benvenuti, emerge il quadro grigio e desolante della vita, anzi della non vita di uomini e donne di tutte le nazionalità in quel particolare microcosmo, dominato dall'annullamento di ogni tratto di umanità e dall'incubo perenne e incombente della morte. 
Si resta colpiti soprattutto dal fatto che le figure dei deportati sembrano sospese nel nulla, in un'atmosfera irreale, quali fantasmi scheletrici indistinguibili, che vagano come ombre tra le baracche, non di rado con i lineamenti deformi o deformati o ancora coprendosi il volto con le mani. Un'umanità dolente e senza identità, accatastata nei campi, privata della libertà e della dignità, ridotta in schiavitù dalla terrificante macchina dello sterminio messa in piedi da Adolf Hitler, con il suo apparato di carcerieri delle SS e cani ringhianti. 
Benvenuti, che oggi ha 91 anni, nell'introduzione afferma che il libro costituisce "un contributo alla giusta 'rivolta' da parte di chi sente di non potersi rassegnare, nonostante tutto, ad una realtà mostruosa, terrificante". Quello dei prigionieri artisti fu insomma un tentativo di resistere all'orrore (i disegni venivano nascosti e gli autori rischiavano la vita) e anche di testimoniare a futura memoria ciò che è stato, senza "vuote parole, senza retorica". Contro chi avrebbe cercato, come poi purtroppo è avvenuto, di cancellare, negare, mistificare, minimizzare. Con la forza dell'arte e del documento visivo, di fronte al quale davvero viene da pensare e da chiedersi, citando l'opera più famosa di Primo Levi, "se questo è un uomo".
 
(Il Mattino, 25 gennaio 2015)

 

Quando eravamo fascisti

(Mario Avagliano – Marco Palmieri, Vincere e vinceremo!, Il Mulino, Bologna, 2014) 
 
di Andrea Rossi
 
Avagliano e Palmieri proseguono il lavoro di scavo nella storia dell’Italia fascista, e dopo aver illustrato nel loro precedente studio quanto fossero diffusi e radicati gli stereotipi razzisti nel nostro paese, gettano ora una luce sinistra sul “comune sentire” degli italiani durante il secondo conflitto mondiale, attraverso l’indagine della corrispondenza inviata da tutti i fronti di guerra dal 1940 al 1943. L’affresco che ne emerge è impietoso, fin dal titolo, quel “vincere e vinceremo” con cui decine di migliaia di italiani chiudevano le proprie missive dall’Africa come dalla Russia o dai Balcani; una locuzione che nessuno obbligava a inserire nella propria corrispondenza privata, e che rivela quanto gli italiani in larghissima parte fossero entusiasti dell’entrata in guerra del paese, mutuando spesso dalla propaganda fascista i temi e la retorica. 
 
Il mito del presunto e progressivo distacco dal regime mussoliniano fin dai primi rovesci sul fronte albanese e africano, è ampiamente smentito dall’accurata indagine degli autori: i nostri soldati combatterono, soffrirono e morirono non per un Italia qualsivoglia, ma per l’Italia fascista, come emerge da un numero impressionante di lettere; la fede nella vittoria restò inscalfibile almeno fino alla fine del 1942, così come l’adesione totale alle versioni di comodo della propaganda ufficiale: su tutto ci restano impressi gli scritti dei componenti del nostro corpo di spedizione in Unione sovietica, i quali, più che manifestare entusiasmo per sopravvissuti all’inverno russo, parevano realmente convinti di aver assestato durissimi colpi all’armata rossa, tanto da attendere nel giro di qualche mese il crollo del regime comunista. 
Se già in diversi studi dell’ultimo decennio si era ben compreso che la nostra occupazione nei Balcani era stata tutt’altro che “allegra”, impressionano le narrazioni delle operazioni contro i partigiani di Tito, da cui emerge un abbruttimento morale delle nostre truppe davvero sconcertante; così come lascia sgomenti l’insensibilità diffusa alla sofferenza delle popolazioni civili vittime della nostra brutalità. 
Se il 1943 è l’anno di svolta delle vicende belliche, i segnali di insofferenza diffusa iniziarono a comparire soltanto dopo la catastrofe nel teatro di guerra dell’Africa settentrionale e – soprattutto – dopo il rientro dei reduci dalla campagna di Russia; comunque, ancora dopo la caduta del regime, una consistente minoranza delle nostre forze armate restava convinta della necessità di proseguire a oltranza la guerra assieme ai nazisti, confermando come le motivazioni di molti dei futuri aderenti alla RSI fossero preesistenti all’armistizio dell’8 settembre. 
In conclusione, il lavoro di Avagliano e Palmieri si rivela fonte preziosa per arricchire il dibattito storico attorno alla guerra degli italiani, sfrondandolo da versioni oleografiche che, davvero, a settant’anni dalla fine del conflitto non hanno più ragione di esistere; fa riflettere semmai come il mito degli “italiani brava gente” è tuttora duro a morire. Evidentemente l’autoassoluzione collettiva è una delle scorciatoie per affrontare il passato. E anche il presente.
 
(Orientamenti Storici, 26 gennaio 2015)

Vincere e vinceremo, lo specchio dell'Italia fascista che fu

di Enrico Zuccaro

Con Vincere e Vinceremo, l’ormai collaudato binomio Avagliano-Palmieri prosegue nella sua opera di rigorosa revisione della nostra storia nazionale per troppo anni intrisa di tanta retorica e luoghi comuni.
Tra questi ultimi quello secondo cui  gli italiani non vollero  e sopportarono a malincuore la decisione del fascismo di entrare in guerra nel 1940 a fianco dell’allora Germania nazista.
In realtà le cose andarono diversamente, perché tanti italiani vollero la guerra, salvo poi pentirsene, come gli autori dimostrano non attraverso l’analisi dei documenti ufficiali, bensì tramite una lettura attenta, critica e ben contestualizzata di centinaia di lettere di combattenti, relazioni di polizia, carabinieri, spie e fiduciari dell’ occhiuto apparato repressivo del regime fascista.
La storia propostaci dagli autori è quindi una storia scritta più che mai dall’interno, una storia di  donne e uomini che combatterono e soffrirono tra il 1940 ed il 1943, UNA STORIA POTREMMO DIRE “EMOTIVA”, come  ci suggerisco gli autori nella loro introduzione,  ma che sin dalle prime pagine assume l’autorevolezza di un analitico saggio sull’opinione pubblica degli italiani di allora.
 
Va da sé che ciò che gli autori ci propongono è quanto risulta dall’esame di  posta accuratamente passata al vaglio della censura, come avveniva, per ovvi motivi di sicurezza, in tutti gli eserciti di allora.
Nondimeno il quadro che ne risulta spicca per originalità  di analisi e per veridicità.
In nove capitoli  per un totale di 313 pagine, gli autori ripercorrono i tre anni e tre mesi che intercorrono dal 10.06.1940 (entrata in guerra)  alle giornate del 25.07. ed  8.09.1943, che notoriamente segnano la caduta del fascismo e la firma dell’armistizio con gli Alleati.
Grazie alla lettura della corrispondenza inviata dai militari, gli autori scandagliano l’animo degli italiani che in 3 anni e tre mesi appunto passano dall’adesione entusiastica alla guerra, alla disillusione, al malcontento ed infine alla avversione ed all’ antifascismo.
E la posta- da sempre considerata forse in chiave troppo sentimentale solo come momento di malinconico sfogo e di struggente  nostalgia- diviene invece specchio di un intero paese, suggerendo al lettore numerose chiavi di lettura.
La prima, intorno a cui ruota un po’ tutto il libro, è quella dell’analisi dei molteplici aspetti del  consenso al regime,  e soprattutto al suo capo. Un consenso chiaramente indotto, diremmo fabbricato (come dalla nota monografia di Cannistraro; “La fabbrica del consenso”) da diciotto anni di propaganda martellante, attuata dal PNF, dal regime e dalle sue organizzazioni satelliti (dopolavoro ecc.) in una sorta di tentativo di controllo di ogni settore della vita degli italiani.
Un consenso in cui però non mancano note di sincera ammirazione, talvolta sconfinanti in un vero e proprio culto della personalità di Mussolini, DESTINATARIO DI MOLTE LETTERE DI SOLDATI e visto come il capo indiscusso e indiscutibile, che ha sempre ragione  che non sbaglia mai e che soprattutto, quando le cose vanno male su qualsiasi fronte, è ignaro di quanto sta accadendo perché incolpevole vittima degli inganni dei gerarchi e sottoposti.
Dall’esame delle lettere riprodotte nel testo scaturisce, ancora, con chiarezza cristallina, la periodizzazione del consenso al regime ed il suo progressivo deteriorarsi, il suo andamento ondivago perché connesso alle mutevoli sorti degli eventi bellici, sin dai primi mesi di guerra infauste per le armi italiane.
Gli umori che traspaiono da  quanto scrivono  i nostri soldati non sfuggono agli zelanti censori, né  ai Carabinieri, né alla polizia, né ai servizi segreti. Mai i loro rapporti, che pure giungono sino alle più alte sfere del regime fascista, pensiamo ai cosiddetti “Promemoria per il duce” nulla producono, all’ infuori della segnalazione  di questo o quel militare alle competenti autorità di polizia o al Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
Una seconda chiave di lettura- strettamente connessa alla prima -   è quella relativa alle opinioni che i nostri militari hanno dei loro nemici, così come le troviamo espresse nelle  loro lettere.
Smentendo, qualora ce ne fosse  ancora bisogno, l’adusato cliché dell’italiano buono contrapposto al tedesco cattivo, l’immagine del nostro soldato che traspare dalle lettere riportate nel testo è quello di un soldato razzista con il nemico, che talvolta ammira il crudele alleato tedesco, che è  antisemita e consapevole di tanti stragi perpetrate dai nazisti, anticomunista, o meglio antibolscevico e  feroce col nemico (lettera del lanciafiammista), specie  nella repressione anti partigiana.
(A dire il vero si era razzisti anche in altri eserciti; tra gli altri anche in quello americano, specie sul fronte del Pacifico, nei confronti dei giapponesi).
A questi due ultimi riguardi (anti bolscevismo e repressione anti partigiana) va riconosciuto al libro un elevato valore storico-documentale, specie  nei capitoli dedicati alla guerra in Russia ed ai crimini di guerra, non a caso forse tra i più estesi dello intero volume.  Sono pagine che ci hanno riportato alla memoria gli scritti  dolentissimi di “Italiani senza onore”  di Costantino Di Sante; di “Qui si ammazza troppo poco” di Gianni Oliva, e del più recente “L’Occupazione italiana dei Balcani”, di Davide Conti. Pagine dalle quali l’onore delle Armi italiane esce indelebilmente macchiato ma che aiutano a fare senza reticenza alcuna  i cosiddetti conti con il passato, cosa che noi italiani non abbiamo ancora fatto completamente.
 
Una terza chiave di lettura è quella relativa alle manipolazione delle coscienze che emerge chiaramente in tante lettere, talvolta con toni anche grotteschi ma che testimoniano del  lavaggio cerebrale subito da taluni nostri soldati.
E così capita di leggere di militi che credono alle bombe avvelenate lanciate dal nemico o che dopo la loro eventuale morte chiedono, dopo la cremazione, di caricare un proiettile con le loro ceneri e di utilizzarlo contro il nemico.
In quest’ottica vanno analizzate, in particolare, le lettere che arrivano dal fronte russo, dove tanti soldati credono di combattere una guerra santa, contro un nemico senza Dio e perciò barbaro e sacrilego (un po’ come il  “Dio lo vuole” delle crociate ed il Got mit uns tedesco).
 
Una ultima chiave è quella di carattere più spiccatamente sociologico.
L’ampio campione di scritti riportati dagli autori, conferma, purtroppo,  che il livello di istruzione media del fante italiano era la seconda elementare.
Da qui errori e strafalcioni di ortografia che caratterizzano tutte o quasi le lettere dei nostri soldati.
Soldati che continuano ad  indirizzare tante loro missive  ai parroci dei loro comuni di residenza, così come facevano venti anni prima, durante il primo conflitto mondiale i loro genitori, perché a casa nessun altro sapeva leggere.
E ciò suona a conferma del non innalzamento dei livelli di alfabetizzazione degli italiani, specie nelle zone rurali e nonostante i 20 anni di un regime, nelle parole molto vicino al suo popolo, nei fatti poco attento all’istruzione del medesimo.
A proposito delle lettere indirizzate ai parroci, c’è un ulteriore aspetto che merita di essere sottolineato: l’organicità di parte del clero al regime fascista, organicità tradotta spesso in incoraggiamenti rivolta ai soldati, specie a quelli attivi sul fronte russo.
La  lettura sociologica della posta dei nostri soldati si rivela particolarmente interessante, laddove si esamina il circuito di comunicazione Fronte di combattimento- Fronte interno. E qui paradossalmente si scopre che  in tantissimi  casi, non è dalle mura domestiche che giunge conforto ai nostri soldati, ma che sono piuttosto questi ultimi, talvolta con incrollabile fede nella vittoria finale, a dare sostegno a chi è rimasto a casa.
E ciò la dice lunga sulla qualità del consenso  al regime; una qualità che impallidisce, di fronte alla tenuta del fronte interno della Germania hitleriana, mantenutosi  granitico sino quasi alle ultime settimane di guerra.
 
Altro interessante spunto di riflessione, ancora  in chiave sociologica, è quello che si trae dai giudizi sugli americani e conseguentemente sul loro esercito, espressi nelle parole dei nostri soldati.
Benché timorosi della eventualità di scontrarsi con parenti od amici emigrati oltre oceano, i nostri militari  vedono nei loro coetanei statunitensi degli “sciampagnoni” ), infiacchiti dalla vita comoda (si vedano in proposito tanti brani del Diario  di Ciano), un po’ come gli omologhi inglesi, definiti con disprezzo  “popolo dei 5 pasti”. Si tratta , ovviamente di giudizi intrisi di sconsiderata superficialità.
Dolenti, ancora sul versante sociologico, i tanti accenni al malcostume della corruzione, presenti in tante missive di militari che lamentano la violazione a scopo di furto dei pacchi loro inviati.…  
 
Gli  ultimi  3 capitoli del libro sono i capitoli della disillusione, della sconfitta e della presa di coscienza del tradimento ordito dal fascismo contro l’Italia.
I terremoti indotti dalle sconfitte in terra d’Africa e tanto più in Russia, avevano già svelato a tutti l’inadeguatezza del nostro apparato militare dietro il quale, lo sappiamo tutti, c’è sempre un apparato politico. Tali inadeguatezze risaltano ancor più quando gli Alleati sbarcano i  Sicilia provocando in pochi giorni la caduta del regime.
Nonostante tutto, anche  dopo il 25 luglio ed il conseguente sbando, dalle lettere dei nostri militari traspare un sincero e commovente  amor di Patria, una fiducia ingenua, fino ad apparire quasi inquietante nella ripresa del nostro esercito sotto la guida del maresciallo Badoglio, successore di Mussolini dopo esserne stato complice.
Eppure  tale amor di Patria  non manca di suscitare  ammirazione e rispetto.
Giunti all’ ultima pagina del libro, chi vi parla ha più volte ripercorso le tante note a matita vergate e i tanti interrogativi suscitati da Avagliano e Palmieri, convincendosi che “Vincere  e vinceremo” è un libro che non può mancare nella biblioteca degli appassionati di storia. Un libro cui auguro tutta la fortuna che merita. 
 

(Relazione letta in occasione della  presentazione del volume svoltasi a Ceccano il 31 gennaio 2015)

Storie - I volenterosi carnefici di Mussolini

di Mario Avagliano

Nei due anni tragici di Salò e dell’occupazione tedesca del centro nord dell’Italia, numerosi italiani si prestarono ad essere “volenterosi” carnefici dei loro connazionali ebrei. La retata a Venezia del 5 dicembre 1943, ad esempio, fu condotta da poliziotti, carabinieri e volontari del ricostituito partito fascista. E almeno la metà degli arresti degli ebrei poi deportati ad Auschwitz e in altri Lager fu opera di italiani, senza ordini o diretta partecipazione dei tedeschi.

A ricordarcelo, con un agile e documentato saggio pubblicato da Feltrinelli, è Simon Levis Sullam, professore di Storia Contemporanea presso l'Università Ca' Foscari di Venezia, in I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945 (pp. 150), il cui titolo rimanda volutamente a quello del saggio di Goldhagen, "I volonterosi carnefici di Hitler", che ha riaperto la questione sulla responsabilità dei tedeschi (e non solo dei nazisti) nella Shoah.

Anche dopo l’armistizio, l’Italia non rimase “al di fuori del cono d’ombra dell’Olocausto” e accanto ai giusti e ai salvatori, vi furono purtroppo tanti persecutori. Nel libro, oltre che delle responsabilità degli apparati dello Stato e degli uomini di partito, ci si occupa fra l’altro del ruolo dei delatori, che non furono solo fascisti convinti ma anche semplici civili, quasi sempre per motivi di soldi. E perfino alcuni ebrei, come il triestino Mauro Grini, che tra Trieste, Venezia, Milano identificò e denunciò un migliaio di ebrei ("anche di più" - si vantava) dietro lauti pagamenti, e la romana Celeste Di Porto.

(L'Unione Informa e Moked.it del 24 febbraio 2015)

  • Pubblicato in Storie
  • 0
Sottoscrivi questo feed RSS