Intervista a Fulco Ruffo di Calabria: "Il suo orologio biologico era fermo al 1799"

di Mario Avagliano

   «Gerardo Marotta era un mio grande amico. Sono davvero dispiaciuto». Fulco Ruffo di Calabria, da qualcuno definito l’ultimo dei sanfedisti (lui si schermisce: «non sono sanfedista, perché sarebbe anacronistico, non sono neppure borbonico»), nell’ultimo ventennio ha frequentato abbastanza assiduamente l’Avvocato e ne ha parlato con particolare affetto anche nel suo libro pubblicato di recente da Mondadori, dal titolo «Ricordo quasi tutto».

Come vi siete conosciuti?

Nel 1999 ho realizzato un programma su Rai Uno condotto da mia moglie Melba Ruffo, intitolato «I colori di Napoli». Trasmettevamo da Piazza del Plebiscito. Era il bicentenario della Repubblica Napoletana del 1799 e a un certo punto Marotta mi ha fatto sapere che voleva conoscermi. Allora l’ho invitato al programma e dopo la registrazione ci siamo fermati a chiacchierare amabilmente di storia.

L’ultimo dei giacobini e l’ultimo dei sanfedisti…

Esatto. Mi ha rubato le parole. È stato amore a prima vista. Lui era un uomo di rarissima simpatia. E già il fatto che indossasse in pieno luglio, con un caldo atroce, un completo di lana spessa tre centimetri, senza sudare, me lo rese ancora più empatico.

Che cosa le disse?

Il suo orologio biologico si era chiaramente fermato al 1799. Parlammo quindi di quei fatti storici, ognuno col suo punto di vista. Lui ha speso tutta la sua esistenza per vivificare il ricordo di quei martiri che gli palpitavano nel cuore. Io gli regalai un soldatino di piombo del Cardinale Ruffo a cavallo, un pezzo della mia collezione, con l’obbligo “morale” di tenerlo sulla scrivania. Lui in cambio mi chiese di far partecipare mia moglie Melba, avvolta nel tricolore della Repubblica Napoletana, alla commemorazione del bicentenario che era in programma presso i resti del forte di Vigliena, al porto di Napoli, dove il 13 giugno del 1799 ci fu l’ultimo scontro tra giacobini e sanfedisti.

L’amicizia continuò anche dopo le celebrazione del bicentenario.

Sì, ho rivisto Gerardo tutte le volte che venivo a Napoli, città che amo molto. C’era un grosso feeling tra di noi. È stato un personaggio straordinario. Cosa non ha fatto per la cultura! La sua passione per i libri e l’opera che ha svolto all’Istituto storico di studi filosofici per portare in Italia i grandi filosofi contemporanei, sono stati encomiabili. Ho molto apprezzato anche la sua ultima battaglia per salvare il grande patrimonio librario del suo Istituto.

E l’Avvocato che pensava del suo antenato, il cardinale Ruffo?

Marotta ha saputo riconoscere che il cardinale Ruffo ha combattuto sull’altro fronte in buona fede, pensando che fosse il bene del proprio Paese. D’altronde anche Benedetto Croce, che certo non era sospettabile di essere sanfedista o borbonico, ha scritto che il Cardinale Ruffo fu un uomo di straordinaria mediazione e cercò di evitare le stragi dei giacobini e di salvare le vite, tra cui anche quella dell’ammiraglio Francesco Caracciolo.

Qual è la sua opinione sul cardinale Ruffo?

Io ho grande ammirazione per lui. Penso che - grazie alla sua tenacia e alla sua volontà - abbia compiuto un’impresa straordinaria, alla quale neppure i Borbone credevano, costruendo dal nulla un’armata di 60 mila uomini e liberando Napoli dai francesi, che lui riteneva fossero degli invasori. Firmò la capitolazione e cercò di salvare la vita di tutti i giacobini. La mattanza di piazza Mercato non fu opera sua. Furono i Borbone, e in particolare la regina Carolina, dietro impulso dell’ammiraglio Nelson e del ministro Acton, a stracciare l’accordo e a ordinare il massacro.

L’ultimo incontro con Marotta?

Poco più di un anno fa. Lo trovai molto affaticato e triste, come un altro eccezionale napoletano mio amico, il regista Francesco Rosi. Purtroppo sono scomparsi entrambi ed è stata una grossa perdita non solo per Napoli ma per l’Italia. Ma la cultura è eterna e l’opera di Gerardo Marotta resta. Mi inchino di fronte alla sua figura. 

(Il Messaggero, 27 gennaio 2017)

Garibaldi “El Libertador”, un’anima latina

di Mario Avagliano

   Domenica 23 luglio 1882, Montevideo, Uruguay. Un corteo di 20-25 mila cittadini sfila per le strade della capitale per porgere l’ultimo saluto a un morto che non c’è. Giuseppe “José” Garibaldi è scomparso nella sua Caprera, in Italia, il 2 giugno precedente. Ma nessuno ha dimenticato i sette anni dal 1841 al 1848 che ha dedicato all’Uruguay, contribuendo a salvarne l’indipendenza, a rischio della vita.
Alla notizia della sua morte, a Montevideo era stato proclamato un lutto nazionale di tre giorni, dopo che il Parlamento uruguaiano s’era mosso in precedenza per dare una pensione “al generale Garibaldi”, poiché s’era sparsa la voce che in Italia l’eroe dei due mondi se la passasse male.

 Ma come si spiegano la selva di bandiere, uruguaiane e italiane, che accompagnava quel corteo funebre senza feretro, e i tanti fiori che la gente lanciava dai balconi? E il monumento a lui innalzato, di fronte al porto dal quale era sbarcato a Montevideo, eretto ai primi del Novecento con una sottoscrizione popolare? E l’avenida Giuseppe Garibaldi che attraversa tutta la capitale?
Per capire il rapporto d’amore tra Garibaldi e l’America latina, è utile raccontare la sua storia oltreoceano, come fa - con leggerezza narrativa e passione storica - un libro appena pubblicato, «Garibaldi “El Libertador”» (pp. 128, Collana Parco Esposizioni Novegro), opera del giornalista e saggista Federico Guiglia, classe 1959, italo-uruguaiano, nato a Montevideo da padre di Mantova e madre dell’Uruguay.
Garibaldi, costretto alla fine del 1835 all’esilio in Brasile, dopo la fallita insurrezione popolare in Piemonte, la latitanza e la successiva condanna da parte dei Savoia alla «pena di morte ignominiosa in contumacia in quanto nemico della Patria e dello Stato», tra il 1837 e il 1840 partecipa con la sua nave corsara alla rivolta del governo della Repubblica Riograndense (l’attuale Rio Grande do Sul) contro l’Impero del Brasile guidato da Pedro II. Dal libro di Guiglia, apprendiamo che l’indomito rivoluzionario italiano in Brasile, quando nelle sue imprese catturava degli schiavi dei nemici, senza esitazione li liberava.

 A Laguna, nel 1839, Garibaldi conosce e s’innamora della bella Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, passata alla storia con il vezzeggiativo di "Anita", all’epoca diciottenne, che poi lo seguirà in Italia, partecipando al Risorgimento.
Trasferitosi in Uruguay nel giugno del 1841, Garibaldi all’inizio per campare s’improvvisa commerciante di cuoio, poi trova lavoro in un collegio come insegnante di matematica, geografia e calligrafia. Ben presto però torna al primo amore: il mare. Ed entra nella marina nazionale con il grado di colonnello, distinguendosi per il coraggio e l’intraprendenza e partecipando alla guerra civile (la cosiddetta Guerra Grande), che vede contrapposte la fazione degli unitarios di Fructuoso Rivera con le divise rosse (i “Colorados”), di tendenza liberale, e la fazione dei federales di Manuel Oribe con le divise bianche (i “Blancos”), appoggiati dal dittatore argentino, Juan Manuel de Rosas.

Il ruolo di Garibaldi è fondamentale. Difende Montevideo sotto assedio e il 6 febbraio 1846, guidando la Legione Italiana a Salto nella battaglia di San Antonio, salva l’indipendenza dell’allora conteso Uruguay dalle mire del dittatore de Rosas. Per inciso, la bandiera della Legione italiana di Montevideo è oggi conservata al Museo centrale del Risorgimento italiano a Roma.
Quando le autorità uruguaiane gli offrono campi e beni in segno di ringraziamento, lui li restituisce al mittente: “Mi basta l’onore di condividere il pane e i pericoli coi figli di questa terra”. E pur nominato già nel 1842 comandante delle Forze Navali di Montevideo e nel 1848 per qualche mese membro dell’organo legislativo nazionale (come ricostruito da Guiglia sulla base di fonti documentali inedite), continua ad abitare con Anita e i figli Menotti, Rosita, Teresita e Ricciotti in una casa modesta e senza lumi, nella parte più antica della capitale, la Ciudad Vieja, oggi diventata un museo.

È a Montevideo che, ricorda Guiglia nel suo libro, Garibaldi s’inventa la camicia rossa della futura spedizione dei Mille. Ed è qui che il marinaio che indossa il poncho e porta la barba lunga bionda sposa la sua Anita, fa le prove generali per le guerre d’indipendenza italiane e conquista sul campo l’appellativo di Eroe dei due Mondi. Fino a quando l’irresistibile richiamo della patria non lo conduce di nuovo in Italia, nel 1848. Ma questa è un’altra storia.

(Il Messaggero e Il Mattino, 30 giugno 2016)

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Massoneria. Il Museo delle sorprese

di Mario Avagliano

   Odiati. Perseguitati. Temuti. Accusati già a partire dal Settecento di essere i burattinai occulti del potere politico ed economico e gli autori dei più terribili complotti, magari in combutta con i “perfidi giudei”. I papi cattolici li scomunicarono. Il fascismo li bandì dalla società civile, assaltando e distruggendo le loro sedi, anche se diversi gerarchi e uomini di rilievo del regime (da Achille Starace ad Alberto Beneduce) erano massoni. È la storia della massoneria italiana, che nel 2017 compierà tre secoli di vita. Una storia che però vide i massoni anche protagonisti del Risorgimento, primo fra tutti Giuseppe Garibaldi, che quando nel luglio del 1862 sbarcò in Sicilia per allestire la fase decisiva della spedizione che ebbe come motto “Roma o morte”, fece iniziare in loggia il suo stato maggiore, compreso il figlio Menotti.
E non è il solo fiore all’occhiello della massoneria made in Italy. Cosa sarebbe la letteratura italiana senza i “fratelli” Giovanni Pascoli, Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo, Salvatore Quasimodo e Giosuè Carducci, al quale si deve anche la fondazione nel 1889 della società Dante Alighieri, che nei programmi massonici doveva promuovere la diffusione della cultura italiana nel mondo? E come dimenticare che fu il “libero muratore” Giuseppe Zanardelli, ministro della Giustizia del governo Crispi (altro influente massone), a varare quello stesso anno la riforma del codice penale, che prevedeva fra l’altro la cancellazione della pena di morte, ripristinata nel 1926 dal regime fascista?
Per saperne di più sulla vicenda controversa della massoneria e quella parallela dell’antimassoneria, a partire dalla primavera del 2013 a Roma, in via S. Nicolò dé Cesarini 3, sarà possibile visitare (anche per le scuole) il primo Museo pubblico massonico italiano, allestito dalla Gran Loggia d’Italia, la maggiore organizzazione nazionale di massoni (520 logge e circa 10 mila affiliati), assieme al Grande Oriente d’Italia. L’iniziativa è stata presentata ieri dal “gran maestro” Luigi Pruneti, dallo storico Aldo Alessandro Mola, uno dei massimi esperti del tema, autore del saggio Massoneria, appena uscito in libreria per i tipi della Giunti (pp. 127, euro 5,90), e da Annalisa Santini, curatrice dell’esposizione. I giornalisti hanno potuto visitare in anteprima il Museo e gli archivi, che custodiscono documenti inediti di particolare interesse storico.
Tra questi, figurano la bolla di scomunica del 1751 di Papa Benedetto XIV, esemplare unico al mondo; il proclama originale del 9 febbraio 1849 della Repubblica Romana e altri documenti del triumvirato; i paramenti di loggia (la sciarpa e il gioiello con squadra e compasso intrecciato di “gran maestro”) di Ernesto Nathan, mitico sindaco di Roma, insieme a riviste originali di inizio ‘900 con articoli e vignette satiriche contro di lui; alcuni ritratti di Giuseppe Mazzini in età giovanile e nel periodo londinese; il testo del Canto di guerra di Goffredo Mameli, inviato da Mazzini a Giuseppe Verdi; lettere di Giovanni Giolitti (1907) per la commemorazione in Campidoglio di Giosuè Carducci; bolle ed editti antimassonici di Napoleone, di vari pontefici, dei Savoia e dei Borbone; lettere autografe di Pietro Nenni, Carlo Rosselli e Filippo Turati, che nel periodo dell’esilio a Parigi ebbero come collaboratore il massone e antifascista Giuseppe Leti.
Tra i documenti del dopoguerra, ne vengono presentati due davvero straordinari: l’elenco degli iscritti alla loggia degli artisti di Largo Brancaccio (dove è locato l’omonimo teatro), risalente al 21 aprile 1949, nel quale spiccano tra gli altri i nomi del principe Antonio de Curtis, in arte Totò, e degli attori Gino Cervi e Paolo Stoppa, e il giuramento massonico firmato dal fumettista Hugo Pratt, l'autore di Corto Maltese, iniziato alla Gran Loggia d’Italia nel 1976. Pratt descrisse la sua cerimonia di iniziazione in alcune tavole della sua opera Favola di Venezia, che proprio in questi giorni sono esposte al Musée de la Franc – Maçonnerie del Grand Orient de France a Parigi, assieme al suo grembiule e alla spada di venerabile, che era appartenuta al padre Rolando, che negli anni Venti l’aveva sottratta al saccheggio della Gran Loggia di Piazza del Gesù a Roma da parte delle squadre fasciste.
Ci sarà materia di studio anche per gli storici. Infatti Pruneti ha annunciato che, entro il 2003, sarà possibile accedere agli archivi della Gran Loggia, che arrivano fino agli anni Ottanta e sono in fase di restauro e di catalogazione. Tra i documenti più importanti da consultare, vi sono i 42 volumi dei registri matricola originali, rinvenuti di recente e contenenti 20.414 “schede” di affiliati della Serenissima Gran Loggia d’Italia tra il 1916 e il 1925.
Da questi registri, balza evidente la forte compenetrazione tra la massoneria e lo Stato, poiché erano iscritti ufficiali delle diverse armi, anche di grado elevato; magistrati; alti funzionari pubblici; politici; scrittori e giornalisti; imprenditori; banchieri; dirigenti d’industria e degli apparati pubblici; professionisti; docenti e studenti universitari. Tra i nomi più famosi, spiccano Vittorio Valletta, direttore centrale della FIAT di Torino, l’ammiraglio Luigi Mascherpa, poi medaglia d’oro al valor militare, il maresciallo d’Italia Ugo Cavallero, il diplomatico Serafino Mazzolini, poi ministro della Repubblica Sociale di Mussolini, il sindacalista Edmondo Rossoni, il prefetto Angelo Annaratone, uomo di fiducia di Giovanni Giolitti, e lo scrittore Curzio Malaparte.
Nel repertorio vi sono anche diversi nomi “coperti da segreto” che, come spiega il professor Mola, in futuro grazie a meticolose ricerche sarà possibile svelare. Un’operazione di apertura degli archivi che la dirigenza della Gran Loggia d’Italia ha già avviato da tempo e che è culminata con la partecipazione quest’anno al Salone del Libro di Torino con uno stand completamente trasparente, a testimonianza, sostiene Pruneti, “che la massoneria italiana, da considerare cosa ben diversa dalla P2 e organizzazioni simili, non ha nulla da vergognarsi e anzi ha dato un prezioso contributo culturale alla storia italiana”.

(Il Messaggero, 11 luglio 2012)

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"L'Italia s'è ridesta", le pagine di Aldo Cazzullo su Mario Avagliano e il Mezzogiorno

di Aldo Cazzullo

I migliori tra i libri recenti sulla Resistenza, sui militari internati durante la seconda guerra mondiale, sugli ebrei, sul colonnello Montezemolo – il monarchico piemontese divenuto a Roma capo dell’opposizione in armi all’invasore nazista –, li ha scritti uno studioso di Cava dei Tirreni, Mario Avagliano. Il suo primogenito, Alessandro, è cresciuto a Roma. Una volta gli chiesi se si sentisse romano. Lui, che non ha ancora sedici anni, rispose fiero: «Io sono del Sud».

Guardai suo padre, che distolse lo sguardo, per nascondere la commozione. Ricordo quando in un circolo di Cava, dopo che un neoborbonico aveva fatto la sua tirata contro il Nord invasore e persecutore, Mario Avagliano rispose di non sentirsi meno orgoglioso di lui di essere meridionale, ma l’orgoglio non significa prendersela con Garibaldi; significa non rassegnarsi ad abitare case abusive, a lavorare in nero, a dare il voto in cambio di un’elemosina.
Antimeridionali sono i neoborbonici. Termine ormai riduttivo, per definire un movimento assai più vasto, molto attivo sul web, che ha già dato vita a partiti sicilianisti e presto germinerà una Lega del Sud, per la gioia di Borghezio e degli altri leghisti che disprezzano i meridionali e non vedono l’ora di separarsi da loro. Questo movimento si basa su una leggenda di cui gli storici meridionali seri come Rosario Villari ridono – il Regno delle Due Sicilie presentato come il più ricco e avanzato d’Europa –, costruita assemblando fandonie e pezzi di verità, per formulare una tesi consolatoria e per questo affascinante, ma nefasta e controproducente: il Sud è Sud a causa del Nord; la responsabilità dei mali della nostra terra non è nostra, ma di altri italiani. Per cui, non avendo colpe, non ci possiamo fare nulla.
Intendiamoci: è vero che per troppo tempo si è parlato troppo poco della guerra civile che ha insanguinato il Sud dopo il Risorgimento, con atrocità da entrambe le parti. È vero che Napoli prima dell’unificazione era di gran lunga la più grande città italiana, e dopo non lo è più stata. È vero che la politica dell’Italia liberale nei confronti del Sud – spesso condotta da meridionali come Crispi, Di Rudinì, lo stesso Pica – può e dev’essere criticata. Ma ai leghisti del Sud non importa nulla del revisionismo. Altrimenti racconterebbero, accanto all’esecuzione comandata da Nino Bixio, anche il primo e più sanguinoso eccidio di Bronte, la caccia all’uomo in cui venne bruciato mezzo paese e furono linciati sedici tra ufficiali, possidenti, civili. Altrimenti non presenterebbero come una guerra del Nord contro il Sud quella che in realtà vide come prime vittime i patrioti meridionali della Guardia nazionale, che venivano massacrati da quella strana alleanza tra briganti in senso tecnico, partigiani dei Borboni e nostalgici del potere temporale del clero: non esattamente un’alleanza per il progresso.
Ma è inutile dilungarsi nella confutazione. Non è la storia che interessa ai leghisti del Sud. Interessa soffiare sul fuoco del rancore verso il Nord che già esisteva e che vent’anni di invettive bossiane hanno rinfocolato, costruire il mito della grandezza perduta, inasprire le divisioni tra italiani. In perfetta sintonia, anzi complicità, con i nordisti, per cui il Nord non è la Germania a causa del Sud. La colpa è sempre degli altri.
In realtà il Sud è stato, ed è, grande. Ma non certo per i Borbone, dinastia di origine straniera, accanita avversaria del liberalismo e delle Costituzioni e sostenitrice dell’Antico Regime: monarchia assoluta, forca, tortura, Inquisizione, censura, ghetti; e molto oro, certo, che però non era dello Stato e tantomeno del popolo, ma del re. Il Sud è stato, ed è, grande per Vico e Croce, per Falcone e Borsellino (e Chinnici, Cassarà, Mattarella, La Torre, Livatino, Siani, Beppe Alfano, Peppino Impastato…), per la letteratura siciliana che è la più importante del Novecento italiano, per il contributo che i meridionali hanno dato con il loro lavoro alla ricostruzione del paese e al boom economico. Il Sud è la nostra identità, è un’Italia elevata all’ennesima potenza, rappresenta i nostri vizi peggiori e le nostre doti migliori, il familismo e la solidarietà, la spregiudicatezza e la lealtà, la violenza e il coraggio.

(da "L'Italia s'è ridesta" di Aldo Cazzullo, Mondadori, pp. 185-187)

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Cava città borbonica? Ma fateci il piacere…

di Mario Avagliano

   L’immagine dei portici di Cava de' Tirreni imbandierati con i vessilli dei Borbone, in occasione della visita del principe Carlo, ha inferto una ferita profonda nel cuore dei cavesi che amano l’Italia e la nostra giovane Repubblica, malandata e incerottata a causa della crisi economica internazionale e degli scandali politici, ma dalla storia gloriosa, costruita col sangue di tanti martiri, uno per tutti il nostro concittadino generale Sabato Martelli Castaldi, ucciso alle Fosse Ardeatine, medaglia d’oro della Resistenza.

Sorprende e amareggia non poco che il sindaco Marco Galdi abbia dato il via libera e anzi abbia partecipato in prima persona (con la fascia tricolore!!!!) a uno “spettacolo” del genere, che ha chiamato a raccolta i neoborbonici da tutto il Mezzogiorno, con un corteo d’onore, il present’armi, grida entusiaste di «Viva il Re», la Fanfara dei Civici Pompieri di Napoli in Alta Uniforme Borbonica scortati dai Real Tiragliatori “Milites luci”, la consegna simbolica al principe delle chiavi del Santuario di S. Francesco e addirittura l’esecuzione dell’Inno al Re.
Non a caso il Movimento Neoborbonico, ha esaltato la «storica visita» sul suo sito, sottolineando la «continuità dei rapporti tra la dinastia borbonica e la "fedelissima Cava"», mentre sul web e sui social network i nostalgici dei Borbone festeggiavano a loro volta l’avvenimento.
Siamo tornati indietro di centocinquant’anni, in barba alle celebrazioni dell’Unità d’Italia nella nostra città, culminate il 17 marzo 2011 con l’alzabandiera in Piazza Abbro, la Santa Messa alla Cattedrale, il corteo della banda musicale per le vie del centro e la convocazione di una seduta straordinaria del consiglio comunale.
Non era lo stesso sindaco Galdi ad aver promosso quelle celebrazioni? E non era la stessa Chiesa cavese ad avervi partecipato, con l’appuntamento solenne della Santa Messa?
Se da allora qualcosa è mutato e il sindaco si è convertito improvvisamente al Movimento Neoborbonico, ne tragga le conseguenze.
La storia patria non si può cancellare.
Come dimenticare che alcuni dei maggiori teorici del sogno di un'Italia unita e tanti uomini d'azione che lottarono per la causa italiana furono meridionali? Basti citare i napoletani Vincenzo Cuoco, Luigi Settembrini, Alessandro Poerio e Carlo Pisacane, il calabrese Benedetto Musolino, i siciliani Rosolino Pilo, Francesco Crispi e Michele Amari, il pugliese Giuseppe Fanelli.
Questo sogno era allora un progetto di modernità. Significava richiesta di costituzione, di autogoverno, di giustizia e di diritti civili. Ecco perché i patrioti meridionali, molti dei quali aderivano alla Carboneria, nei decenni precedenti si erano rivoltati più volte contro i Borbone, anche nel salernitano (vi furono scontri tra i carbonari e le forze dell'ordine pure a Cava) e tanti di loro marcirono nelle carceri borboniche.
Quando nel 1849 Roma si sollevò, proclamando la Repubblica, da Napoli partirono moltissimi patrioti campani per aiutare i rivoluzionari romani.
Anche tra i Mille di Garibaldi vi fu una notevole presenza di meridionali, circa cento, principalmente siciliani, campani (tra cui nove della provincia di Salerno) e calabresi. Nel corso della spedizione tanti altri meridionali si arruolarono nelle file dei garibaldini e ovunque il Generale fu accolto da una folla festante. Le donne di Cava lo attesero lungo il corso e vollero baciarlo sulle guance. In quei giorni, come ha ricordato opportunamente Massimo Buchicchio, il garibaldino frate francescano Giovanni Pantaleo, siciliano, di passaggio a Cava con il Generale, non mancò di visitare il nostro santuario di S. Francesco.
Nelle ultime fasi della seconda guerra mondiale Brindisi e Salerno furono capitali d'Italia, i napoletani si ribellarono ai tedeschi per la libertà del Paese e migliaia di meridionali entrarono nella Resistenza, combattendo sulle montagne o nelle città del Centro Nord e finendo spesso davanti a un plotone di esecuzione o nei campi di concentramento per contrastare il nazifascismo.
Non c'è dubbio che nel processo unitario vi furono delle pagine nere, come l'assedio di Gaeta, le deportazioni dei meridionali ed alcuni violenti eccidi di cui si macchiò l'esercito sabaudo, a partire dalla strage di Pontelandolfo, nel Beneventano, del 14 agosto 1861. Dopo l'Unità, il processo di pacificazione e di omologazione venne condotto in modo maldestro e disomogeneo sotto il profilo economico e fiscale e nella realizzazione dei servizi e dei trasporti (diverso è il giudizio per quanto riguarda l'aspetto culturale e dell'istruzione), e i governi succedutisi alla guida del Paese fecero davvero poco per risolvere la cosiddetta questione meridionale, a parte l'esperienza della prima Cassa del Mezzogiorno.
Ma il destino del Meridione è nelle nostre mani. La rinascita delle popolazioni meridionali richiede uno Stato più efficiente, più moderno e più equo, e Regioni, amministrazioni locali, cittadini del Sud capaci di rimboccarsi le maniche, mettendo a frutto l'incredibile patrimonio di cultura, di storia e di bellezze naturali, artistiche ed archeologiche lasciatoci in eredità dai nostri padri.
Dobbiamo essere orgogliosi di essere cavesi e meridionali. Ma consapevoli che le scorciatoie di un revisionismo storico a senso unico e le nostalgie politiche di un partito del Sud o neoborbonico non ci porterebbero lontano, rischiando di minare pericolosamente la vita culturale, sociale ed economica del nostro Paese.

(CavaNotizie.it, ottobre 2012)

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Da Teano alla tv, luci e ombre dei Savoia

di Mario Avagliano

Dall’incontro di Vittorio Emanuele II a Teano con il generalissimo Giuseppe Garibaldi per celebrare l’unità d’Italia, a quello di Emanuele Filiberto a Sanremo col sempreverde Pupo per il Festival dei fiori e delle canzonette. Come rilevò beffardo Roberto Benigni nella sua patriottica performance del 17 febbraio 2011 (che aprì di fatto il centocinquantenario), l’ascesa e il declino della più antica dinastia europea, come recita il sottotitolo del saggio «Casa Savoia» di Enrico Mannucci (Dalai editore, pp. 510, euro 18,50), si può racchiudere in questa immagine.

Indietro Savoia! Quasi assenti nelle celebrazioni del 150°, anche i manuali scolastici dedicano poche righe ai re d’Italia. Guardando a testi più autorevoli, invano si cercherebbe un Lytton Strachey nazionale che abbia dedicato una biografia di successo a un rampollo della casa sabauda. Figure trascurate pure dalla cinematografia.
Eppure la casata dei Savoia è antica di quasi mille anni ed è stata protagonista delle guerre d’indipendenza. Per circa metà del Novecento il nostro Paese è stato una monarchia. Nel secolo "breve" sul trono d’Italia sono passati tre re e la galleria di personaggi della corte reale ha annoverato figure come la bionda regina Margherita, famosa in tutta Europa per il suo stile, o l’avvenente (e antifascista) principessa belga Maria José.
Nell’Italietta della seconda metà dell’Ottocento l’identificazione della popolazione con la monarchia è stata macchinosa e incerta. E i Savoia ci hanno messo del loro, alimentando le chiacchiere, come ci racconta Mannucci, con un ritmo narrativo piacevole, ricco di aneddoti. La monarchia italiana non ha mai goduto di un’aura sacrale come altre case regnanti europee.
Il tempo di Umberto I, il re col cilindro, gli enormi baffoni e i sigari puzzolenti, amante delle donne e della caccia, fu turbolento, affannoso e bruscamente interrotto da un assassinio all’alba del Novecento. Le gazzette del tempo lo sbeffeggiavano per i suoi amori clandestini (celebre quello con la duchessa Litta).
Vittorio Emanuele III, principe di Napoli (tra i suoi cinque nomi c’è anche Gennaro), nato nella reggia di Capodimonte, passava per il «re soldato» in omaggio al suo impegno contro gli austro-ungarici nella Grande Guerra, ma anche come «re sciaboletta» per la statura (era alto appena 1 metro e 53 centimetri). Quando si sposò con la gigantesca principessa montenegrina Elena, Edoardo Scarfoglio sul «Mattino», in un articolo dal titolo Le nozze coi fichi secchi, lo definì un «tenentino» con il «pentolino in capo».
Nessun Savoia fu davvero re a lungo. Vittorio Emanuele III subì presto la diarchia con Mussolini, e il gaudente Umberto II (al quale vennero attribuite liasion con l’attore Jean Marais, il pugile Primo Carnera e Luchino Visconti) è stato il «re di maggio». Gioca a loro sfavore, poi, un’irrefrenabile inclinazione al cambio di campo, manifestata all’ingresso nella prima guerra mondiale col repentino ribaltamento di alleanze. Che ha oscurato il fatto che l’armistizio del 1943 fu una scelta obbligata per riscattare il Paese dal ventennio dittatoriale.
Per ironia della sorte, la dinastia sabauda è balzata agli onori della cronaca (rosa e nera) di più dopo l'esilio, con gli ultimi eredi che hanno occupato per decenni le pagine dei settimanali popolari, compresi i periodici più colti, come «L’Europeo» degli anni Cinquanta.
Né la voga si è esaurita con gli anni, rinfocolata da episodi scabrosi, procedimenti giudiziari (come quello che vide coinvolto Vittorio Emanuele, con l’accusa di omicidio volontario da cui fu prosciolto), scandalose avventure sentimentali con attori del cinema (note le storie di Maria Gabriella con Walter Chiari e di Maria Beatrice con Maurizio Arena). Fino alle imprese cine-televisive del più giovane rappresentante di casa Savoia, Emanuele Filiberto, star di trasmissioni Rai come Ballando con le stelle, cantante al Festival e perfino interprete di se stesso in un cinepanettone.
Tanto oblio è meritato? Di "peccati" i Savoia ne hanno diversi da farsi perdonare: dalla truculenta repressione dei moti sociali di fine secolo (leggi Bava Beccaris) alla pavida resa alla marcia su Roma delle camicie nere di Mussolini, fino all'improvvida firma sulle vergognose leggi razziali del 1938 e alla fuga precipitosa a Brindisi dopo l'armistizio.
Ma vi sono anche dei meriti: le guerre d'indipendenza e il Risorgimento, l'unificazione del Paese, l'apertura dei ghetti e l'emancipazione degli ebrei, la laicità dello Stato (poi messa in naftalina dall'ex mangiapreti Mussolini), un certo rigore piemontese nei costi della corte reale (oggi si direbbe della politica), la partecipazione in prima persona ai drammi nazionali, dal terremoto di Messina del 1908 a Caporetto.
È giusto, quindi, come fa Mannucci, proporre un ritratto in chiaroscuro di questa dinastia, che nel bene e nel male, citando Sergio Romano, «ci appartiene, fa parte della nostra storia nazionale, è indissolubilmente legata alla nostra vicenda risorgimentale». Ai lettori, direbbe il Manzoni, l'ardua sentenza.

(Il Mattino, 21 gennaio 2013)

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Quei massacri ordinati dai Borbone

di Mario Avagliano

Il patriota Luigi Settembrini così descriveva nel 1847 il Regno delle Due Sicilie: «nel paese che è detto giardino d’Europa, la gente muore di vera fame e in istato peggiore delle bestie, sola legge è il capriccio». E Carlo Pisacane, in una lettera a Giuseppe Fanelli, uno dei pugliesi dei Mille, affermò che anche il Sud aveva dei doveri tremendi perché “ha sul collo una di quelle tirannidi che degradano chi le sopporta”.

Gianni Oliva nel suo recente saggio Napoli e la Sicilia: un regno che è stato grande (Mondadori), ha invece sostenuto che dal 1734 al 1861 il Mezzogiorno visse un grande fervore intellettuale e di rinnovamento sociale, non negando però che il regime borbonico si distinse per la sua opera di repressione dei patrioti.
Ma chi furono davvero i Borbone? Sovrani illuminati, mecenati del progresso, costruttori di un Mezzogiorno moderno e avanzato, oppure regnanti dispotici e illiberali, pronti a sopprimere ogni anelito o aspirazione alla democrazia e alle riforme, anche ricorrendo a mercenari e banditi?
Un nuovo lavoro di Antonella Orefice, Termoli e Casacalenda nel 1799. Stragi dimenticate (Arte Tipografica Editrice, pp. 101, euro 12), appena pubblicato, fornisce nuovi elementi a chi propende per la seconda tesi, proponendo la ristampa anastatica di due manoscritti dell’epoca che parlano delle stragi avvenute nel febbraio di quell’anno in due città del Molise che, durante i mesi della nascente Repubblica Napoletana, furono devastate dalle orde sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo di Calabria, al quale i Borbone, per tentare di arginare il fenomeno rivoluzionario, avevano affidato il duro compito della repressione.
L’esercito del cardinale, sbarcato il 7 febbraio in Calabria, si macchiò di efferati delitti nella sua avanzata verso Napoli (che occupò nel mese di giugno). Gli omicidi in primo piano in questo libro sono quelli dei fratelli Brigida, due giovani patrioti che furono trucidati, assieme ad altri compagni, a Termoli, e quello di Domenico De Gennaro, un giudice di Casacalenda che aveva sostenuto le idee repubblicane.
Le storie sono narrate nei dettagli: la strage di Termoli, da un testimone oculare dei fatti, Teodosio Campolieti, e quella di Casacalenda, da padre Giuseppe La Macchia, il parroco del paese, che fu anche protagonista dei fatti.
Gli elementi che accomunano i due memoriali sono essenzialmente tre: i patrioti vittime di tradimenti ed inganni, la devastazione dei luoghi, e la pietas cristiana invocata sia per i vincitori che per i vinti, nel memoriale su Termoli, dalla madre dei fratelli Brigida, ed in quello su Casacalenda, dal sacerdote La Macchia.
Si tratta, insomma, di due testimonianze forti delle atrocità commesse in Calabria, Puglia, Molise e Basilicata dall'esercito dei sanfedisti, costituito da mercenari albanesi, contadini del luogo ed avanzi di galera liberati per l'occasione dal cardinale Ruffo con la promessa di un lauto bottino di guerra.
Altamura, ad esempio, venne sottoposta ad assedio e a causa dell’intenso cannoneggiamento, dovette soccombere. Non vennero risparmiati vecchi, donne e bambini; alcuni conventi di suore furono profanati e la città venne data alle fiamme e saccheggiata dalle truppe sanfediste. Le stesse stragi si ripeterono ad Andria e a Trani e Gravina venne saccheggiata e data in premio ai mercenari.
Altre stragi o fucilazioni sommarie si registrarono nei decenni successivi. Un caso esemplare: nel Cilento, definito dalla polizia borbonica la “culla del ribellismo meridionale”, nel 1829 i fratelli Patrizio, Domenico e Donato Capozzoli, tutti e tre patrioti, catturati, furono fucilati a Palinuro e le loro teste mozze portate in giro nei paesi vicini per servire da monito alle popolazioni.
Il libro della Orefice segue quello precedente, Il Pantheon dei Martiri del 1799, e i manoscritti proposti nel libro provengono dallo stesso fondo archivistico di Mariano D'Ayala, con annessa trascrizione e note introduttive della Orefice, dello storico fiorentino Luigi Pruneti e dell'avvocato Mario Zarrelli.
I fratelli Brigida e Il giudice Domenico De Gennaro sono tre dei tanti patrioti oscuri e sconosciuti del Mezzogiorno che tra la fine del Settecento e la seconda metà dell’Ottocento animarono le lotte riformiste contro i Borbone e il Risorgimento italiano. Spiega la Orefice: “La mia vuole essere una risposta a chi, negli ultimi tempi, sta tentando un revisionismo storico sul Risorgimento, santificando i briganti e considerando traditori del regno i nostri martiri del 1799. Dai memoriali traspare la vera natura di quanti combatterono per il Borbone, perché lo fecero e da quanto vero "amore per la terra" furono mossi. Come sempre ho lasciato parlare i documenti, quelli veri, quelli scomodi”.

(Il Mattino, 14 giugno 2013)

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Roma. La Repubblica degli stranieri

Roma. La Repubblica degli stranieri

 
di Mario Avagliano
 
 
Roma, 3 luglio 1849. Ultime ore della Repubblica. Mentre il triumviro Giuseppe Mazzini verga un ultimo commosso proclama ai romani, l’esercito francese del generale Oudinot avanza lentamente da piazza del Popolo lungo via del Corso, in un silenzio tombale. “L’entrata dei francesi somigliò piuttosto a un corteo funebre che a un trionfo. Essi non riuscirono a trovare una persona che gli indicasse le caserme che gli erano state assegnate. I quattro primi individui che si rassegnarono a servirgli da guida caddero sotto i colpi dei pugnali dei loro compatrioti. Queste scene provano il patriottismo esaltato dei Romani. Un simile popolo è degno che si versi il sangue per lui”.
La cronaca dal vivo è dell’anziano colonnello Fijalkowski, che guida i duecento soldati della legione polacca, accorsi in difesa dell’esercito di straccioni in blusa rossa guidato da Giuseppe Garibaldi, sventolando fieramente la bandiera polacca e la sciarpa tricolore italiana. L’epopea della Repubblica romana, proclamata il 9 febbraio 1849 e durata neppure cinque mesi, è stata scritta anche da quel pugno di polacchi senza più patria, e da centinaia di francesi, belgi, bulgari, tedeschi, spagnoli, olandesi, ungheresi, americani, svizzeri, inglesi, perfino un finlandese, innamorati degli ideali di libertà, uguaglianza, fraternità della rivoluzione francese. Una brigata internazionale di volontari che, circa un secolo prima della guerra di Spagna, si mobilitò da ogni angolo d’Europa per contribuire alla disperata resistenza di Roma.
 
Di questa pagina del Risorgimento, definita dallo storico G. M. Trevelyan “il più commovente di tutti gli episodi della storia moderna”, si è parlato molto nell’anno delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità. Brunella Diddi e Stella Sofri, in Roma 1849. Gli stranieri nei giorni della Repubblica (Sellerio, pp. 219, euro 16), hanno scelto un inedito punto di vista per raccontarla, quello delle coraggiose donne e degli impavidi uomini stranieri che parteciparono all’esperienza repubblicana,.
Un piccolo esercito cosmopolita costituito da soldati, intellettuali, artisti, antiquari, professionisti e nobili, che in quei giorni imbracciò i moschetti al comando degli italianissimi Luciano  Manara, Carlo Pisacane, Enrico Dandolo, concludendo le giornate di guerra a cena in osteria, per festeggiare lo scampato pericolo. Una generazione romantica e appassionata, imbevuta del mito classico di Roma, che nei giorni della Repubblica sparò e si ubriacò, s’innamorò, scrisse versi e articoli infiammati, raccolse fondi e dipinse quadri, lasciando poi diari, memoriali, raccolte di lettere, biografie, per documentare quella breve stagione di speranze.
Tra le figure che affollano questo bel saggio, spicca Margaret Fuller, giornalista del New York Tribune, amica di Hawthorne, Thoreau e Emerson. Amante di un nobile italiano decaduto, Giovanni Angelo Ossoli, Margaret all’epoca della proclamazione della Repubblica si trovava già a Roma. Ebbe la ventura di assistere all’assassinio del ministro pontificio Pellegrino Rossi e diventò fin dall’inizio la cronista (di parte) della rivoluzione romana per il suo giornale. In seguito fu tra i responsabili al Fatebenefratelli del servizio di cura dei feriti di guerra diretto dalla principessa Cristina di Belgiojoso, assieme ad Enrichetta Di Lorenzo, compagna di Pisacane.
In una lettera a Waldo Emerson del 10 giugno Margaret racconterà la sua drammatica ma al tempo stesso esaltante esperienza accanto ai feriti: “Ho ricevuto la tua lettera tra il tuono della cannonate e dei moschetti. C’è stata una terribile battaglia qui dall’alba alle ultime luci del giorno. (…) Gli italiani si battono come leoni”. La Fuller sarà anche testimone diretta dell’eroismo delle donne sulle barricate che “raccolgono le palle dei cannoni nemici e le portano ai nostri”.
Anche il pittore olandese Philip Koelman risiedeva a Roma da alcuni anni. Nel 1849 interruppe la sua esistenza di artista bohémien, frequentatore di atelier e caffè, e conquistato dal fiammeggiante Garibaldi, acclamato dalla folla al grido di “evviva il brigante” (come scrive nelle sue memorie), si schierò con i repubblicani assieme agli amici più cari, il fiammingo Victor e il giovane Perequillo, proveniente da L’Avana.
Altri stranieri invece giunsero nell’Urbe in quei giorni di rivoluzione, irrequieti Che Guevara dell’Ottocento che vagavano per l’Europa seguendo la mappa delle rivolte politiche, come lo svizzero Gustav de Hoffstetter, che nel suo diario sui giorni della Repubblica ci regala deliziose descrizioni di Garibaldi, che sedeva sul cavallo “come se vi fosse nato sopra”, e di Anita, che “vestiva all’amazzone” e “portava il cappello alla calabrese con una penna di struzzo”.
Molti volontari stranieri persero la vita sul campo di battaglia, come il polacco Alexander Podulak, l’americano Manuelito e il francese Gabriel Laviron, e ancora ungheresi, belgi, svizzeri. Quanto alle donne, caduta la Repubblica, furono additate dalla Chiesa come “prostitute”. Di questi romantici eroi oggi resta poco, a parte il tempietto fatto edificare da Garibaldi sul Granicolo, dove furono traslate le salme. Ricordare i loro nomi dimenticati, le loro gesta e i loro sogni di libertà, come fanno Brunella Diddi e Stella Sofri, romane del quartiere Monteverde, è un atto meritorio che va rimarcato.
 
(Il Messaggero, 28 febbraio 2012)
 
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