Intervista a Fulco Ruffo di Calabria: "Il suo orologio biologico era fermo al 1799"
di Mario Avagliano
«Gerardo Marotta era un mio grande amico. Sono davvero dispiaciuto». Fulco Ruffo di Calabria, da qualcuno definito l’ultimo dei sanfedisti (lui si schermisce: «non sono sanfedista, perché sarebbe anacronistico, non sono neppure borbonico»), nell’ultimo ventennio ha frequentato abbastanza assiduamente l’Avvocato e ne ha parlato con particolare affetto anche nel suo libro pubblicato di recente da Mondadori, dal titolo «Ricordo quasi tutto».
Come vi siete conosciuti?
Nel 1999 ho realizzato un programma su Rai Uno condotto da mia moglie Melba Ruffo, intitolato «I colori di Napoli». Trasmettevamo da Piazza del Plebiscito. Era il bicentenario della Repubblica Napoletana del 1799 e a un certo punto Marotta mi ha fatto sapere che voleva conoscermi. Allora l’ho invitato al programma e dopo la registrazione ci siamo fermati a chiacchierare amabilmente di storia.
L’ultimo dei giacobini e l’ultimo dei sanfedisti…
Esatto. Mi ha rubato le parole. È stato amore a prima vista. Lui era un uomo di rarissima simpatia. E già il fatto che indossasse in pieno luglio, con un caldo atroce, un completo di lana spessa tre centimetri, senza sudare, me lo rese ancora più empatico.
Che cosa le disse?
Il suo orologio biologico si era chiaramente fermato al 1799. Parlammo quindi di quei fatti storici, ognuno col suo punto di vista. Lui ha speso tutta la sua esistenza per vivificare il ricordo di quei martiri che gli palpitavano nel cuore. Io gli regalai un soldatino di piombo del Cardinale Ruffo a cavallo, un pezzo della mia collezione, con l’obbligo “morale” di tenerlo sulla scrivania. Lui in cambio mi chiese di far partecipare mia moglie Melba, avvolta nel tricolore della Repubblica Napoletana, alla commemorazione del bicentenario che era in programma presso i resti del forte di Vigliena, al porto di Napoli, dove il 13 giugno del 1799 ci fu l’ultimo scontro tra giacobini e sanfedisti.
L’amicizia continuò anche dopo le celebrazione del bicentenario.
Sì, ho rivisto Gerardo tutte le volte che venivo a Napoli, città che amo molto. C’era un grosso feeling tra di noi. È stato un personaggio straordinario. Cosa non ha fatto per la cultura! La sua passione per i libri e l’opera che ha svolto all’Istituto storico di studi filosofici per portare in Italia i grandi filosofi contemporanei, sono stati encomiabili. Ho molto apprezzato anche la sua ultima battaglia per salvare il grande patrimonio librario del suo Istituto.
E l’Avvocato che pensava del suo antenato, il cardinale Ruffo?
Marotta ha saputo riconoscere che il cardinale Ruffo ha combattuto sull’altro fronte in buona fede, pensando che fosse il bene del proprio Paese. D’altronde anche Benedetto Croce, che certo non era sospettabile di essere sanfedista o borbonico, ha scritto che il Cardinale Ruffo fu un uomo di straordinaria mediazione e cercò di evitare le stragi dei giacobini e di salvare le vite, tra cui anche quella dell’ammiraglio Francesco Caracciolo.
Qual è la sua opinione sul cardinale Ruffo?
Io ho grande ammirazione per lui. Penso che - grazie alla sua tenacia e alla sua volontà - abbia compiuto un’impresa straordinaria, alla quale neppure i Borbone credevano, costruendo dal nulla un’armata di 60 mila uomini e liberando Napoli dai francesi, che lui riteneva fossero degli invasori. Firmò la capitolazione e cercò di salvare la vita di tutti i giacobini. La mattanza di piazza Mercato non fu opera sua. Furono i Borbone, e in particolare la regina Carolina, dietro impulso dell’ammiraglio Nelson e del ministro Acton, a stracciare l’accordo e a ordinare il massacro.
L’ultimo incontro con Marotta?
Poco più di un anno fa. Lo trovai molto affaticato e triste, come un altro eccezionale napoletano mio amico, il regista Francesco Rosi. Purtroppo sono scomparsi entrambi ed è stata una grossa perdita non solo per Napoli ma per l’Italia. Ma la cultura è eterna e l’opera di Gerardo Marotta resta. Mi inchino di fronte alla sua figura.
(Il Messaggero, 27 gennaio 2017)
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