Massoneria. Il Museo delle sorprese

di Mario Avagliano

   Odiati. Perseguitati. Temuti. Accusati già a partire dal Settecento di essere i burattinai occulti del potere politico ed economico e gli autori dei più terribili complotti, magari in combutta con i “perfidi giudei”. I papi cattolici li scomunicarono. Il fascismo li bandì dalla società civile, assaltando e distruggendo le loro sedi, anche se diversi gerarchi e uomini di rilievo del regime (da Achille Starace ad Alberto Beneduce) erano massoni. È la storia della massoneria italiana, che nel 2017 compierà tre secoli di vita. Una storia che però vide i massoni anche protagonisti del Risorgimento, primo fra tutti Giuseppe Garibaldi, che quando nel luglio del 1862 sbarcò in Sicilia per allestire la fase decisiva della spedizione che ebbe come motto “Roma o morte”, fece iniziare in loggia il suo stato maggiore, compreso il figlio Menotti.
E non è il solo fiore all’occhiello della massoneria made in Italy. Cosa sarebbe la letteratura italiana senza i “fratelli” Giovanni Pascoli, Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo, Salvatore Quasimodo e Giosuè Carducci, al quale si deve anche la fondazione nel 1889 della società Dante Alighieri, che nei programmi massonici doveva promuovere la diffusione della cultura italiana nel mondo? E come dimenticare che fu il “libero muratore” Giuseppe Zanardelli, ministro della Giustizia del governo Crispi (altro influente massone), a varare quello stesso anno la riforma del codice penale, che prevedeva fra l’altro la cancellazione della pena di morte, ripristinata nel 1926 dal regime fascista?
Per saperne di più sulla vicenda controversa della massoneria e quella parallela dell’antimassoneria, a partire dalla primavera del 2013 a Roma, in via S. Nicolò dé Cesarini 3, sarà possibile visitare (anche per le scuole) il primo Museo pubblico massonico italiano, allestito dalla Gran Loggia d’Italia, la maggiore organizzazione nazionale di massoni (520 logge e circa 10 mila affiliati), assieme al Grande Oriente d’Italia. L’iniziativa è stata presentata ieri dal “gran maestro” Luigi Pruneti, dallo storico Aldo Alessandro Mola, uno dei massimi esperti del tema, autore del saggio Massoneria, appena uscito in libreria per i tipi della Giunti (pp. 127, euro 5,90), e da Annalisa Santini, curatrice dell’esposizione. I giornalisti hanno potuto visitare in anteprima il Museo e gli archivi, che custodiscono documenti inediti di particolare interesse storico.
Tra questi, figurano la bolla di scomunica del 1751 di Papa Benedetto XIV, esemplare unico al mondo; il proclama originale del 9 febbraio 1849 della Repubblica Romana e altri documenti del triumvirato; i paramenti di loggia (la sciarpa e il gioiello con squadra e compasso intrecciato di “gran maestro”) di Ernesto Nathan, mitico sindaco di Roma, insieme a riviste originali di inizio ‘900 con articoli e vignette satiriche contro di lui; alcuni ritratti di Giuseppe Mazzini in età giovanile e nel periodo londinese; il testo del Canto di guerra di Goffredo Mameli, inviato da Mazzini a Giuseppe Verdi; lettere di Giovanni Giolitti (1907) per la commemorazione in Campidoglio di Giosuè Carducci; bolle ed editti antimassonici di Napoleone, di vari pontefici, dei Savoia e dei Borbone; lettere autografe di Pietro Nenni, Carlo Rosselli e Filippo Turati, che nel periodo dell’esilio a Parigi ebbero come collaboratore il massone e antifascista Giuseppe Leti.
Tra i documenti del dopoguerra, ne vengono presentati due davvero straordinari: l’elenco degli iscritti alla loggia degli artisti di Largo Brancaccio (dove è locato l’omonimo teatro), risalente al 21 aprile 1949, nel quale spiccano tra gli altri i nomi del principe Antonio de Curtis, in arte Totò, e degli attori Gino Cervi e Paolo Stoppa, e il giuramento massonico firmato dal fumettista Hugo Pratt, l'autore di Corto Maltese, iniziato alla Gran Loggia d’Italia nel 1976. Pratt descrisse la sua cerimonia di iniziazione in alcune tavole della sua opera Favola di Venezia, che proprio in questi giorni sono esposte al Musée de la Franc – Maçonnerie del Grand Orient de France a Parigi, assieme al suo grembiule e alla spada di venerabile, che era appartenuta al padre Rolando, che negli anni Venti l’aveva sottratta al saccheggio della Gran Loggia di Piazza del Gesù a Roma da parte delle squadre fasciste.
Ci sarà materia di studio anche per gli storici. Infatti Pruneti ha annunciato che, entro il 2003, sarà possibile accedere agli archivi della Gran Loggia, che arrivano fino agli anni Ottanta e sono in fase di restauro e di catalogazione. Tra i documenti più importanti da consultare, vi sono i 42 volumi dei registri matricola originali, rinvenuti di recente e contenenti 20.414 “schede” di affiliati della Serenissima Gran Loggia d’Italia tra il 1916 e il 1925.
Da questi registri, balza evidente la forte compenetrazione tra la massoneria e lo Stato, poiché erano iscritti ufficiali delle diverse armi, anche di grado elevato; magistrati; alti funzionari pubblici; politici; scrittori e giornalisti; imprenditori; banchieri; dirigenti d’industria e degli apparati pubblici; professionisti; docenti e studenti universitari. Tra i nomi più famosi, spiccano Vittorio Valletta, direttore centrale della FIAT di Torino, l’ammiraglio Luigi Mascherpa, poi medaglia d’oro al valor militare, il maresciallo d’Italia Ugo Cavallero, il diplomatico Serafino Mazzolini, poi ministro della Repubblica Sociale di Mussolini, il sindacalista Edmondo Rossoni, il prefetto Angelo Annaratone, uomo di fiducia di Giovanni Giolitti, e lo scrittore Curzio Malaparte.
Nel repertorio vi sono anche diversi nomi “coperti da segreto” che, come spiega il professor Mola, in futuro grazie a meticolose ricerche sarà possibile svelare. Un’operazione di apertura degli archivi che la dirigenza della Gran Loggia d’Italia ha già avviato da tempo e che è culminata con la partecipazione quest’anno al Salone del Libro di Torino con uno stand completamente trasparente, a testimonianza, sostiene Pruneti, “che la massoneria italiana, da considerare cosa ben diversa dalla P2 e organizzazioni simili, non ha nulla da vergognarsi e anzi ha dato un prezioso contributo culturale alla storia italiana”.

(Il Messaggero, 11 luglio 2012)

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Gemellare Roma e Napoli. Un sogno che si rifà al passato

Nel nostro percorso di scrittori della Memoria, non manchiamo di seguire le vicende delle nostre squadre del «cuore»: la Roma e il Napoli.

In questo frangente, al dolore per la morte di Ciro Esposito ci accompagnano la tristezza e la rabbia perché essa rischia, come in altre occasioni, di essere dimenticata. Nessuno di noi potrà dirsi innocente, se non faremo fino in fondo la nostra parte per eliminare ogni forma di violenza dalle manifestazioni calcistiche e tornare alla sana passione di una volta.

Felice, che è più in età, ricorda le sue consegne pomeridiane del pane con il triciclo per poter acquistare il biglietto della partita e quei Roma-Napoli degli anni cinquanta, quando i tifosi della città partenopea percorrevano la Via Appia (non c’era l’autostrada) e arrivati a piazza dei Re di Roma venivano accolti dai romanisti con sberleffi, lazzi, folclore e tric trac. I ricordi di Mario sono legati ai riccioli e al genio di Diego Armando Maradona e a quei coloratissimi derby del Sole degli anni Ottanta in cui romanisti e napoletani, uniti da un gemellaggio, da buoni cugini fraternizzavano e sognavano insieme di porre fine allo strapotere calcistico delle squadre del nord.

Le partite tra Roma e Napoli entravano nei film, come supporto di svago ed allegria e non di violenza. Nei luoghi pubblici di Roma e Napoli ci si poteva dichiarare tifosi di una delle due squadre, senza incorrere in aggressioni verbali e fisiche.

Poteva accadere che un pullman dei napoletani si guastasse e i romanisti presenti si dessero da fare per riparare il guasto. Negli stadi non esistevano curve riservate o settori per gli ospiti.

Questa storia è purtroppo acqua passata. Il presente è triste e le curve degli stadi si sono riempite di estremisti e di violenti e di cori infami e razzisti, come quelli che per esempio si possono leggere sui forum di alcuni «tifosi» della Roma: «Senti che puzza scappano li cani /stanno arrivando i napoletani / o colerosi, terremotati, / con il sapone non vi siete mai lavati…../ Napoli merda, Napoli colera / sei la vergogna dell’Italia intera». Dall’altra parte: «Tevere affogali tutti romanisti bastardi».

Come molti altri settori delle istituzioni, chi ha diretto il calcio non si è dimostrato all’altezza, visti i risultati: da quelli agonistici a livello internazionale alle condizioni delle società sportive e al problema della violenza. Lo stadio è uno degli specchi del Paese, un catino del bene e del male ove si consumano le passioni, troppe volte in modo irrefrenabile.

Dopo i tragici fatti della finale di Coppa Italia e l’agguato ai tifosi napoletani nei pressi dell’Olimpico, nelle settimane scorse abbiamo provato ad avviare un percorso che portasse al ripudio della violenza e dell’intolleranza, consapevoli di percorrere una strada irta di difficoltà, fatta di disinteresse e diffidenza. Ma sorretti dalla forte preoccupazione che il solco tra romanisti e napoletani scavato da questo episodio e dal razzismo crescente verso Napoli e il Sud che si diffonde come un virus nelle curve e nelle scuole, generi altri drammi, altre divisioni, altre violenze.

 
Abbiamo interessato gli speaker dell’Olimpico e dello Stadio S. Paolo, uno dei capi delle tifoserie organizzate romaniste, una radio locale romanista e nei mesi scorsi il Presidente del Coni e l’ex presidente del Pavia Calcio che all’inizio anni novanta intraprese l’iniziativa di «Uno Stadio per Amico».

Ci hanno dato attenzione e disponibilità il Presidente del Coni, del Pavia Calcio e lo speaker dello Stadio San Paolo. Questa è la situazione. Prevale più la preoccupazione di ricevere probabilmente critiche del tifosi più esagitati e di impegnare parte del loro tempo in un’iniziativa buonista che forse non paga.

È nata allora l’idea di lanciare un gruppo su Facebook (https://www.facebook.com/#!/groups/580927008693509/) che unisse tutti coloro che vogliono ripristinare un ideale gemellaggio tra le squadre di Roma e Napoli, due città bellissime, legate da un rapporto plurisecolare e da storie patriottiche comuni, come la Repubblica romana e la Repubblica napoletana, rivolgendo un appello a mobilitarsi anche ai personaggi napoletani e romani del mondo della cultura, della letteratura e dello spettacolo. Le prime adesioni sono state molte e convinte. La speranza è che la goccia nel mare di questo gruppo diventi onda e travolga i violenti e i razzisti dell’una e dell’altra parte.

Dimostrando che i veri romanisti e napoletani non si riconoscono né nell’estremista Daniele De Santis né nell’arruffapopolo Genny la carogna. Perché la morte di Ciro, come ci ha ricordato la sua generosa mamma, non sia vana.

Mario Avagliano
Scrittore della Memoria e tifoso del Napoli

Felice Cipriani
Scrittore della Memoria e tifoso della Roma

(Corriere della Sera, 30 giugno 2014)

Roma. La Repubblica degli stranieri

Roma. La Repubblica degli stranieri

 
di Mario Avagliano
 
 
Roma, 3 luglio 1849. Ultime ore della Repubblica. Mentre il triumviro Giuseppe Mazzini verga un ultimo commosso proclama ai romani, l’esercito francese del generale Oudinot avanza lentamente da piazza del Popolo lungo via del Corso, in un silenzio tombale. “L’entrata dei francesi somigliò piuttosto a un corteo funebre che a un trionfo. Essi non riuscirono a trovare una persona che gli indicasse le caserme che gli erano state assegnate. I quattro primi individui che si rassegnarono a servirgli da guida caddero sotto i colpi dei pugnali dei loro compatrioti. Queste scene provano il patriottismo esaltato dei Romani. Un simile popolo è degno che si versi il sangue per lui”.
La cronaca dal vivo è dell’anziano colonnello Fijalkowski, che guida i duecento soldati della legione polacca, accorsi in difesa dell’esercito di straccioni in blusa rossa guidato da Giuseppe Garibaldi, sventolando fieramente la bandiera polacca e la sciarpa tricolore italiana. L’epopea della Repubblica romana, proclamata il 9 febbraio 1849 e durata neppure cinque mesi, è stata scritta anche da quel pugno di polacchi senza più patria, e da centinaia di francesi, belgi, bulgari, tedeschi, spagnoli, olandesi, ungheresi, americani, svizzeri, inglesi, perfino un finlandese, innamorati degli ideali di libertà, uguaglianza, fraternità della rivoluzione francese. Una brigata internazionale di volontari che, circa un secolo prima della guerra di Spagna, si mobilitò da ogni angolo d’Europa per contribuire alla disperata resistenza di Roma.
 
Di questa pagina del Risorgimento, definita dallo storico G. M. Trevelyan “il più commovente di tutti gli episodi della storia moderna”, si è parlato molto nell’anno delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità. Brunella Diddi e Stella Sofri, in Roma 1849. Gli stranieri nei giorni della Repubblica (Sellerio, pp. 219, euro 16), hanno scelto un inedito punto di vista per raccontarla, quello delle coraggiose donne e degli impavidi uomini stranieri che parteciparono all’esperienza repubblicana,.
Un piccolo esercito cosmopolita costituito da soldati, intellettuali, artisti, antiquari, professionisti e nobili, che in quei giorni imbracciò i moschetti al comando degli italianissimi Luciano  Manara, Carlo Pisacane, Enrico Dandolo, concludendo le giornate di guerra a cena in osteria, per festeggiare lo scampato pericolo. Una generazione romantica e appassionata, imbevuta del mito classico di Roma, che nei giorni della Repubblica sparò e si ubriacò, s’innamorò, scrisse versi e articoli infiammati, raccolse fondi e dipinse quadri, lasciando poi diari, memoriali, raccolte di lettere, biografie, per documentare quella breve stagione di speranze.
Tra le figure che affollano questo bel saggio, spicca Margaret Fuller, giornalista del New York Tribune, amica di Hawthorne, Thoreau e Emerson. Amante di un nobile italiano decaduto, Giovanni Angelo Ossoli, Margaret all’epoca della proclamazione della Repubblica si trovava già a Roma. Ebbe la ventura di assistere all’assassinio del ministro pontificio Pellegrino Rossi e diventò fin dall’inizio la cronista (di parte) della rivoluzione romana per il suo giornale. In seguito fu tra i responsabili al Fatebenefratelli del servizio di cura dei feriti di guerra diretto dalla principessa Cristina di Belgiojoso, assieme ad Enrichetta Di Lorenzo, compagna di Pisacane.
In una lettera a Waldo Emerson del 10 giugno Margaret racconterà la sua drammatica ma al tempo stesso esaltante esperienza accanto ai feriti: “Ho ricevuto la tua lettera tra il tuono della cannonate e dei moschetti. C’è stata una terribile battaglia qui dall’alba alle ultime luci del giorno. (…) Gli italiani si battono come leoni”. La Fuller sarà anche testimone diretta dell’eroismo delle donne sulle barricate che “raccolgono le palle dei cannoni nemici e le portano ai nostri”.
Anche il pittore olandese Philip Koelman risiedeva a Roma da alcuni anni. Nel 1849 interruppe la sua esistenza di artista bohémien, frequentatore di atelier e caffè, e conquistato dal fiammeggiante Garibaldi, acclamato dalla folla al grido di “evviva il brigante” (come scrive nelle sue memorie), si schierò con i repubblicani assieme agli amici più cari, il fiammingo Victor e il giovane Perequillo, proveniente da L’Avana.
Altri stranieri invece giunsero nell’Urbe in quei giorni di rivoluzione, irrequieti Che Guevara dell’Ottocento che vagavano per l’Europa seguendo la mappa delle rivolte politiche, come lo svizzero Gustav de Hoffstetter, che nel suo diario sui giorni della Repubblica ci regala deliziose descrizioni di Garibaldi, che sedeva sul cavallo “come se vi fosse nato sopra”, e di Anita, che “vestiva all’amazzone” e “portava il cappello alla calabrese con una penna di struzzo”.
Molti volontari stranieri persero la vita sul campo di battaglia, come il polacco Alexander Podulak, l’americano Manuelito e il francese Gabriel Laviron, e ancora ungheresi, belgi, svizzeri. Quanto alle donne, caduta la Repubblica, furono additate dalla Chiesa come “prostitute”. Di questi romantici eroi oggi resta poco, a parte il tempietto fatto edificare da Garibaldi sul Granicolo, dove furono traslate le salme. Ricordare i loro nomi dimenticati, le loro gesta e i loro sogni di libertà, come fanno Brunella Diddi e Stella Sofri, romane del quartiere Monteverde, è un atto meritorio che va rimarcato.
 
(Il Messaggero, 28 febbraio 2012)
 
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