Achille Bonito Oliva - "Dai favolosi '70 un rinascimento tutto salernitano"

di Mario Avagliano
 
"Salerno sta vivendo un periodo di ‘rinascimento’, grazie a una classe politica che si è formata negli anni Settanta quando all’Università salernitana, oltre al sottoscritto, c’erano personaggi come Filiberto Menna, Giacomo Marramao, Edoardo Sanguineti, Pino Cantillo e Paola Fimiani". In quel periodo ricco di fermenti culturali e sociali, Achille Bonito Oliva, il più importante critico italiano dell’arte contemporanea, coautore con Giulio Carlo Argan della Storia dell’arte moderna recentemente ripubblicata da Sansoni, e originario di Caggiano, un paesino sulle montagne che dominano il Vallo di Diano, aveva una folta chioma, le basette lunghe e il viso incorniciato da un bel paio di baffi ("era d’obbligo allora", sorride). Da allora Salerno è entrata nel suo cuore, anche per motivi familiari, avendo sposato Annamaria D’Agostino, esponente di un’antica famiglia salernitana. Bonito Oliva torna sulle sponde nostrane in tutte le feste comandate ("Natale, Pasqua e d’estate") e segue da vicino l’evoluzione della città, non facendo mancare, quando può, il suo contributo.
 
Lei ha trascorso gli anni della sua infanzia tra Caggiano, Polla, Sant’Arsenio e Sala Consilina. Quali sono i suoi ricordi?
Le mie radici sono nel Vallo di Diano. Io ero il primo di nove figli, i primi sei nati a Caggiano, dove abbiamo ancora il palazzo di famiglia. Caggiano si trova a 875 metri sul mare, al confine con la Lucania. E’ un paese tipicamente legato alla rendita agraria e all’emigrazione. L’economia è basata sulla produzione di olio, grano e noci, visto che non è possibile uno sfruttamento intensivo della terra. A Sala Consilina c’è la tomba degli Oliva, nobili di origini secolari. Ho vissuto in quei posti fino ai dieci anni di età, e anche quando ci siamo trasferiti a Napoli, ho passato molte lunghe e arrovellate estati "deportato" a Caggiano.
Deportato?
Mi sentivo spaesato e avevo una terribile nostalgia del mare di Napoli e dei miei amici. Erano tre mesi di isolamento, intriso di silenzi, in questa piccola torre eburnea. Mi trovavo di fronte a un’eternità estiva. Però quella solitudine forzata è stata prolifica per me. Pescavo libri a caso nella biblioteca di mio padre e li leggevo tutto d’un fiato: il teatro di Eugene O’Neill (Il lutto si addice ad Elettra), Lord Jim di Conrad, i libri di Kafka (Il processo, Il castello). Frequentavo il medico condotto Luigi Coronato, che mi ha fatto scoprire Balzac, Faulkner. Era quasi una sfida con la luce del sole, fino a quando arrivava il tramonto in questo palazzo di famiglia con grandi stanze e mobili antichi. Insomma, sono diventato intellettuale per disperazione…
Le sue radici l’hanno influenzata?
Dico sempre che sono un critico agrario, perché le mie origini sono di aristocrazia di campagna da parte di mio padre e di borghesia agraria da parte di mia madre. La famiglia di mia madre, che fa di cognome Morone, discendeva da Celestino V, il papa del "gran rifiuto". La famiglia di mio padre aveva anche uno stemma nobiliare: delle balze con sopra una colomba con un ramoscello d’ulivo. Mi dicono che esercitasse anche lo ius primae noctis, non so quando e come, spero con gentilezza e non tanto intensivamente. Comunque questa doppia origine ha determinato in me un corto circuito positivo.
Cioè?
Beh, la famiglia di mio padre aveva una mentalità cosmopolita, viaggiava per l’Europa, manteneva musicisti a Napoli, all’Istituto Beethoven. La famiglia di mia madre era impregnata dell’etica del lavoro e dello studio. Mio nonno Prospero Morone era medico condotto a Caggiano. Erano tutti laureati, chi a Torino, chi a Napoli, chi a Roma, e una volta conseguita la laurea, tornavano in paese ad amministrare le proprietà e ad esercitare la professione. Se ci aggiunge lo sciacquo dei panni nel golfo di Napoli, quest’impasto ha prodotto la mia personalità.
E’ vero che da piccolo era irrequieto?
Ero molto turbolento, soprattutto nei due anni passati in collegio a Sant’Arsenio. Sentivo un senso di soffocamento, e anche di abbandono. Le insegnanti me le ricordo ancora: Suor Vittorina, che era severa e mi dava i pizzicotti quando non studiavo il solfeggio; suor Benigna che governava la cucina; e suor Celina, grassa e dolce, il simbolo dell’accoglienza. L’unica cosa che mi alleviava la vita era che si trattava di un collegio misto. Corteggiavo tutte le bambine, in questo sono stato un enfant prodige. Un mio amico era Rocco Curcio, della famiglia che gestisce una delle più importanti autolinee del salernitano. Una notte, avevo otto anni, entrai nella camerata delle bambine, dove c’era la mia fidanzatina, Lucilla, e fui sorpreso in flagrante. Mi accusarono di aver oltraggiato il pudore di fanciulle in fiore.
A Sant’Arsenio c’era anche Rino Mele…
Suo padre e mia madre erano cugini. La domenica la passavo insieme a Rino, a casa di zio Mario Mele, nel suo giardino, che per me era un luogo di liberazione. Poi, molti anni più tardi, ci siamo ritrovati a Salerno e siamo diventati anche amici.
Il suo interesse per la letteratura e l’arte si sviluppa a Napoli, dopo aver frequentato la scuola dei Padri Barnabiti.
Sì, partecipavo alle conferenze che organizzava la Libreria Guida, con intellettuali del rango di Pier Paolo Pasolini e Giulio Carlo Argan. Io mi producevo in lunghi e oscurissimi interventi che duravano anche venti minuti, e che spesso riflettevano frammenti, stimoli, pensieri che avevo intercettato mesi prima con la lettura.
Scriveva anche poesie.
Ero un poeta visivo. Uno dei pochissimi a livello mondiale, tanto che l’editore Sanpietro di Bologna m’inserì nell’Antologia mondiale di poesia visiva. Con il mio primo libro di poesie, Made in Mater, partecipai a Fano al raduno del Gruppo ’63, con Alfredo Giuliani, Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Giorgio Celli. Ero anche uno degli animatori del Gruppo Operativo Sud ’64, che raccoglieva pittori, scultori, scrittori napoletani, tra cui Dentale, Diodato, Carlini.
E come "scivolò" dalla poesia all’arte?
Merito di Mario Guida, che mi chiamò ad organizzare le mostre nella "saletta rossa" a Port’Alba. Ricordo che la prima mostra che ebbi la fortuna e il privilegio di presentare fu quella di Pino Pascali e Renato Mambor, che erano allora degli artisti emergenti di Roma.
Fu alla Libreria Guida che conobbe Argan?
Mi notò e qualche tempo dopo mi segnalò a Filiberto Menna. Era il ’64, e Filiberto fu nominato ordinario di storia dell’arte all’Università di Salerno. Nel frattempo era stato assunto come critico d’arte dal Mattino. Prima che partisse per Napoli, Argan gli disse: "Devi conoscere Oliva. E’ un giovane critico molto particolare, che coltiva interessi poliedrici. E’ molto veloce, si chiama Achille, e un giorno ci scavalcherà tutti…". Nacque un sodalizio molto forte, che coinvolse da subito anche Angelo Trimarco, primo assistente di Filiberto.
Menna la portò a Salerno…
Mi chiamò all’Università di Salerno, ma senza rapporti di gerarchia. Grazie a lui, e anche a Trimarco, ho avuto una carriera universitaria facile e, lo scriva pure, sono stato un po’ viziato. Menna mi aiutò anche successivamente, quando nel ’76 ho avuto l’incarico di storia dell’arte medievale e moderna alla facoltà di Lettere a Salerno, e poi quando nel ’78 sono passato all’Università di Roma.
Eravate molto amici?
Tra noi c’era un rapporto profondo, quasi arcaico, che ci faceva riconoscere anche fisicamente. Filiberto mi vedeva come una nuvola nera sospesa sul suo capo e che si spostava insieme a lui. Abbiamo avuto anche momenti di tensione, forse dovuti alla mia immaturità, forse alla mia crescita veloce, precoce come critico. Ma la nostra amicizia era saldissima. Ricordo ancora con commozione la sera prima che si ricoverasse, a cena a casa sua, a colloquiare mano nella mano. Gli debbo molto personalmente, come credo gli debba molto tutta la città di Salerno.
Che influenza ha avuto Filiberto Menna sulla cultura salernitana e meridionale?
Filiberto era una figura socratica che portò tanti giovani intellettuali a gravitare intorno all’Università e lanciò nella società salernitana stimoli fecondi, legati all’arte, al teatro e, più in genere, alla cultura. Penso al Festival del Teatro che organizzò con Giuseppe Bartolucci, e alle straordinarie rassegne d’arte ad Amalfi con Marcello Rumma. Ad Amalfi si svolse la prima mostra dell’Arte Povera, con Pistoletto e Boetti.
E il suo rapporto con Trimarco?
Io e Angelo ci completavamo. Io ero la velocità e Angelo la riflessione. Io la frontalità, Angelo il riserbo. Io il narcisismo, Angelo l’umiltà. Eravamo complementari, una sorta di soggetto bifronte.
Com’era Salerno allora?
Era una città ricca di fermenti, con uno sbocco al mare: una specie di porta sulla costiera. La popolazione era meno turbolenta di quella napoletana e aveva un profilo caratteriale più "collettivo", aperto agli incontri. C’erano gallerie vivaci come Il Catalogo e la Taide. Artisti emergenti come Pietro Lista. Era un’enclave di bellezze naturali e di speranze culturali.
Un’enclave animata da una comunità di intellettuali…
La nostra era una controcomunità artistica che si formava per alcuni giorni della settimana a Salerno e poi di nuovo defluiva a Napoli, a Roma e in altre città d’Italia. Una fisarmonica che si apriva e accoglieva altri personaggi e poi si richiudeva di nuovo. C’erano anche diverse donne, come Lia Rumma, moglie di Marcello, che dopo la tragica scomparsa del marito ha continuato la sua attività aprendo importanti gallerie internazionali a Napoli e a Milano, e come la filosofa Paola Fimiani (moglie di Trimarco, ndr).
Il trasferimento a Roma nel ’78 coincide con la sua ascesa a livello internazionale, ma anche con il suo distacco da Salerno.
Ero in incubazione per la Transavanguardia. Già nel ’73 avevo organizzato la mostra "Contemporanea" a Villa Borghese. Ma da Salerno non mi sono mai veramente allontanato. Ci torno spesso, anche perché sono molto legato alla famiglia di mia moglie, i D’Agostino.
Salerno è cambiata profondamente negli ultimi anni. Che ne pensa della nuova città?
Ho visto Salerno trasformarsi, come altre città, con le periferie che premevano sul centro, fino a una sorta di meticciato rumoroso, anche se ricco di energie. Negli ultimi anni, invece, c’è stata una vera e propria rinascita, grazie al sindaco De Luca che ha bonificato il centro storico, ha restaurato alcuni elementi, ha permesso a tanti locali di aprire. Con l’aiuto di Bohigas è stato dato un volto architettonico e progettuale alla città… Il segno di uno sviluppo che passa attraverso la politica e la programmazione, e non è frutto della casualità.
Un contributo lo sta dando anche lei…
De Luca mi ha chiamato a presiedere la commissione di concorso per la cittadella giudiziaria, incarico che mi è stato confermato dal sindaco De Biase. Ho ritenuto giusto rispondere a queste chiamate istituzionali.
A proposito di incarichi, a settembre Bassolino l’ha nominata consulente della Regione Campania in materia di beni culturali. Ha progetti in serbo anche a Salerno?
Mi sto occupando di vivificare quello splendido monumento che è la Certosa di San Lorenzo, a Padula. Ogni anno, nel mese di settembre nelle celle dei monaci, trasformate in ateliers, una ventina di artisti vivranno e lavoreranno individualmente o interagendo tra loro, producendo opere singole, o a più mani, frutto della contaminazione di differenti linguaggi. L'edizione di quest'anno, sfociata nella mostra "Le Opere e i Giorni", è stata filmata da Pappi Corsicato, in un video che ha vinto un premio al festival del Corto Circuito a Napoli.
Com’è nata l’idea di utilizzare la Certosa?
E’ stato un ritorno sentimentale nella mia terra. La chiamata è venuta proprio attraverso una donna di Salerno, la dottoressa Giovanna Sessa, direttrice della Certosa, e attraverso il Soprintendente di Salerno ai Beni Architettonici Prosperetti. Ma soprattutto devo ringraziare il Presidente della Provincia Alfonso Andria, che ha capito subito l’importanza di questo progetto e l’ha sposato con i fondi della sua amministrazione e con la sua presenza attiva. Credo che questo sia un altro segno della crescita di Salerno dovuta all’opera di Filiberto Menna.
Che cosa vuol dire?
Voglio dire che la capacità amministrativa dell’attuale classe dirigente di Salerno ha beneficiato di quel clima culturale animato negli anni Settanta da Menna e dalla nostra controcomunità artistica.
L’eredità di Menna è stata raccolta a Salerno dalla Fondazione Filiberto Menna e da Trimarco.
E’ vero. E spero che la Fondazione possa sempre più essere presente sul territorio con attività capaci di stimolare i giovani salernitani verso l’arte e la cultura, accompagnando il "rinascimento" della città.
 
(La Città di Salerno, 15 dicembre 2002)
 
 
Scheda biografica
 
Achille Bonito Oliva nasce a Caggiano (Salerno) il 4 novembre del 1939. Negli anni Sessanta è uno degli animatori del Gruppo ’63 e pubblica due raccolte di poesie: nel 1967 Made in mater, nel 1968 Fiction poems. In seguito si dedica alla critica d'arte. E' autore di saggi sul manierismo, le avanguardie storiche e le neoavanguardie, e fondatore del movimento artistico Transavanguardia. Nel 1980 scrive l'opera La Transavanguardia Italiana. Ha curato mostre tematiche e interdisciplinari sia in Italia che all'estero, tra cui "Contemporanea" (1973), "Aperto 80" (1980), "Avanguardia transavanguardia 68-77" (1982), "XIII Biennale di Parigi" (1985), "Biennale di Dakar" (1998). Ha curato e diretto la 45esima edizione della Biennale di Venezia, "Punti Cardinali dell'Arte" (1993). Ha ricevuto numerosi premi internazionali per la critica d'arte, tra cui "Flash Art International", "Valentino d'oro" nonché il Cavalierato per l'ordine delle Arti e Lettere della Repubblica Francese (1992). Attualmente insegna Storia dell'arte contemporanea all'Università "La Sapienza" di Roma. Nel settembre scorso è stato nominato consulente della Regione Campania in materia di beni culturali.
 

Giuliana De Sio - Struscio e brioche tra Cava e la Divina

di Mario Avagliano
 
ROMA - "La mia prima volta sul palcoscenico? Fu nel 1962, al Teatro Verdi di Salerno. Avevo cinque anni…". Quarant’anni dopo, Giuliana De Sio, l’affascinante attrice originaria di Cava dei Tirreni, dalla chioma rossa fluente, ha il volto liscio come all’epoca di quel suo lontano debutto. "Facevo la parte di una gallinella ingenua. I cuochi volevano spennarmi e mettermi nel pentolone. Chi sa… forse il presagio di quello che sarebbe accaduto dopo", racconta seduta sul divano della sua bella casa nel quartiere Prati di Roma. Attraversa un momento felice della sua vita e si abbandona volentieri ai ricordi, sfatando la fama di donna forte e di carattere: "Mi sento anche molto fragile".
 
Lei è nata a Salerno ma ha vissuto a Cava.
Sì, sono cavese. Abitavo all’inizio dei portici, in via Andrea Sorrentino. Avevo il cinema Capitol sotto casa, e mia madre mi ci portava quasi ogni giorno.
Le piaceva il cinema?
Da morire. Da piccola leggevo molto e soprattutto ero onnivora di film. Ci andavo da sola. Vedevo di tutto, dalle pellicole leggere con Albano e Romina Power, a quelle impegnate di Fellini e Bergman. Un film che mi colpì molto fu "Amarcord".
Fu in quella piccola sala di Cava che cominciò a sognare di diventare una star?
Avevo voglia di vivere una vita alternativa, fuori dall’ordinario. In questo io e Teresa eravamo stimolate anche dall’ambiente familiare. Mia madre mi aveva iscritto alla scuola di danza classica di Valeria Lombardi, a Salerno. Mio padre mi portava a teatro a Pompei, a vedere le tragedie greche. Mio zio Gianni era un artistoide, mi parlava di letteratura, mi consigliava libri, spettacoli, film.
A Cava frequentava il liceo classico "Marco Galdi", negli anni successivi alla contestazione. Sua sorella Teresa era una leader del movimento. Lei era più tranquilla?
Molto più tranquilla, almeno politicamente… Quattro anni di differenza erano un salto di generazione.
C’erano ideali forti…
Teresa e il suo gruppo ci credevano davvero. Nella nostra classe si viveva il periodo della contestazione in modo più leggero. Le occupazioni erano un’occasione per far casino.
Il primo amore risale a quel periodo?
Avevo un fidanzatino che si chiamava Silvano. Era un campione di karatè, spaccava le mattonelle a mani nude. Noi eravamo di sinistra, e il karatè era considerato un po’ di destra, ma mi piaceva che fosse così forte…
Lei che tipo era?
Non so perché, nell’immaginario ordinario della gente io incarnavo lo straordinario, nel bene e nel male. Forse perché ero carina, ero un tipo vispo, insofferente a tutto. Una di quelle persone da cui ci aspetta sempre qualcosa, che attraggono e respingono. Una storia che peraltro continua ancora oggi!
Com’era la Cava della sua giovinezza?
Triste. Ero legata ai portici, alla città, ma l’ambiente mi sembrava un po’ bigotto. Non mi divertivo tanto. A parte le tre-quattro amiche del cuore, non mi riconoscevo nel contesto sociale. La struttura sociale era un po’ povera, un po’ asfittica. Non ho ricordi molto lieti.
Sicura?
Beh, una cosa mi è rimasta impressa nella memoria: le passeggiate avanti e indietro sotto i portici. Facevamo lo struscio. Era meraviglioso. A proposito c’è ancora questa usanza tra i giovani?
Sì, c’è ancora. Altri bei ricordi?
Le brioche e i cornetti del bar Liberti, i più buoni che abbia mangiato in vita mia. E poi le soste e le chiacchierate davanti al bar Lyoid, in sella ai motorini. Amavo molto anche la costiera amalfitana: appena le giornate diventavano più calde, per me e il mio Ciao era un luogo di pellegrinaggio. Facevo la spola tra Vietri e Positano anche due volte al giorno. Andavo e venivo sul mio motorino come una pazza…
Chi frequentava?
Avevo tre compagne del cuore: Rita Apicella, Alessandra Agrusta e Patrizia Macario. Con le prime due abbiamo frequentato tutte le scuole insieme, dalla I elementare al III liceo. Con loro c’è un rapporto "fraterno" che dura tuttora, siamo quasi parenti. Ci sentiamo al telefono. A settembre, quando sono stata a Cava per un festival, ci siamo viste. E’ stato bello.
E amici maschi?
Frequentavo Alessandro Ferro, un ragazzo che poi si è suicidato. Era il rampollo di una famiglia di industriali, quelli della Pasta Ferro. Era un tipo alternativo, un hippy, e per questo la sua famiglia lo aveva emarginato. Lo ricordo ancora con commozione.
A Salerno ci andava mai?
Certo. Salerno era più movimentata di Cava. Si andava ai bar al Lungomare Trieste, a fare shopping, al cinema e al teatro. Poi a Salerno io ho anche vissuto, a partire dai 15-16 anni, quando mia madre, che era separata da mio padre, si è risposata.
Nel 1976, a 18 anni, dopo la licenza liceale, lei lascia Cava e Salerno. Cosa si porta dietro delle sue origini, delle sue radici?
Tutto, tutto. Sono, mi sento campana, meridionale, anche se a partire dai 18 anni la mia testa e il mio corpo hanno viaggiato.
Come fu l’impatto con Roma?
Incredibile. Anche se ora mi pento. Il viaggio doveva essere più lungo. Dovevo emigrare, magari in Francia o negli Stati Uniti.
Arriva nella capitale e va subito in tv…
Nel ’77 Gianni Boncompagni mi chiama a interpretare Sibilla Aleramo, una femminista ante litteram, in "Una donna", uno sceneggiato televisivo in 8 puntate sulla Rai che va in onda tutte le domeniche. Ero la protagonista assoluta.
Venti milioni di telespettatori…
Un successo straordinario. Il libro della Aleramo fu ristampato in centinaia di migliaia di copie, con la mia foto sulla copertina. E io, che ero una ragazzina di Cava dei Tirreni, da un giorno all’altro fui conosciuta in tutta l’Italia. Fu l’inizio di un lavoro che non mi avrebbe lasciato più scampo.
Dalla tv al teatro, fino all’incontro nel 1982 con Massimo Troisi, che la vuole al suo fianco in "Scusate il ritardo".
Il 1982-1983 fu un biennio d’oro, che mi liberò dal destino di attrice televisiva e di teatro. Io sognavo il cinema. Dopo il film con Massimo, e nel 1983, "Io, Chiara e lo scuro", con Francesco Nuti, ho girato 30 pellicole.
Che cosa ricorda delle riprese di "Scusate il ritardo"?
Ho ricordi allo stesso tempo molto dolorosi e molto allegri. Durante le riprese l’uomo che viveva con me stava morendo. Massimo mi ha aiutata e sostenuta con molta grazia e con molto pudore. Quando il mio uomo morì, litigò anche con la produzione che mi voleva sul set e non voleva farmi andare al funerale.
Cosa le manca di Troisi?
Mi ritengo una privilegiata ad aver lavorato con lui. Professionalmente è uno dei pochi attori il cui talento mi ha messo in difficoltà. Aveva l’anima di artista. E’ sicuramente uno dei grandi attori italiani del secolo. Ma Troisi mi manca anche come spettatrice, per tutti i film che non ha potuto fare e che non abbiamo potuto vedere…
E umanamente?
Massimo mi faceva ridere tanto; era un ridere sano, in modo libero. Era molto spiritoso e molto intelligente. Abbiamo fatto bei viaggi insieme, per promuovere il film, e poi ci siamo frequentati anche dopo. Certe volte, facendo zapping, mi capita sotto gli occhi "Scusate il ritardo", ma non riesco a vederlo, spengo il televisore, perché non c’è più Massimo e perché ricordo il mio dolore personale.
Tra i film che ha interpretato, a quale è legata di più?
"Cattiva" di Carlo Lizzani, che nel 1992 mi ha fatto vincere il David come miglior attrice protagonista. Se c’è un ruolo che in qualche modo mi rappresenta, è quello.
C’è un "no" a un film o a uno spettacolo che rimpiange di aver pronunciato?
Ho un solo rimpianto. Nel ’94 rifiutai di fare "La Regina Margot" di Patrice Chéreau. Mi avrebbe spianato la carriera in Francia…
Ci parli della sua esperienza nella fiction televisiva. Look sempre esagerato, sguardo perfido e linguaggio più che colorito: lei è Annalisa Bottelli, uno dei personaggi più estremi de Il bello delle donne. Si è divertita a interpretare questo ruolo?
Moltissimo. Lo considero un mio successo personale. I telespettatori adorano questo personaggio che sulla carta, invece, dovrebbe essere odioso. La mia sfida era proprio quello di renderlo adorabile.
Che novità ci sono per la terza serie della fiction?
Viene approfondita la vena comica del personaggio. D’altra parte credo che la comicità sia nelle mie corde più profonde di attrice.
Lina Wertmuller ha detto di lei che ha "la splendida faccia di una Minerva incazzata". Si favoleggia spesso del suo temperamento, della sua testardaggine, della sua irrequietezza, anche sentimentale. Solo una leggenda o c’è del vero?
Se è per questo la Wertmuller ha anche scritto su un Dizionario del Cinema che ho un "volto inguaribilmente cinematografico". Non so se è un complimento o meno… A parte gli scherzi, testarda lo sono sempre meno. La Wertmuller mi vede molto battagliera, una specie di guerriera a cavallo. Io invece mi sento anche fragile, a volte infantile.
E ora, proprio con la Wertmuller, parte in tourneé teatrale, di nuovo con "Storia d’amore e d’anarchia", dove canta e balla insieme a Elio delle "Storie Tese".
L’ho fatto da attrice, fingendo di cantare e ballare. La gente ha avuto l’illusione che sono brava. Mi ha aiutato anche il fatto che sono molto intonata.
Vuol fare concorrenza a sua sorella Teresa?
Non ci penso nemmeno.
Come sono i suoi rapporti con Teresa? Vi vedete e sentite spesso?
Sempre. Sempre. Abitiamo a cento metri di distanza.
In settembre è tornata a Cava. La scorsa settimana è stata a Salerno. Quanto sono cambiate Cava e Salerno in trent’anni?
A Cava ho fatto una passeggiata di notte al corso. E’ stata un’emozione forte. Sono i luoghi della mia infanzia. Mi ha fatto male non trovare certe cose, negozi, bar che frequentavo, mentre sono stata contenta di ritrovarne altre. Salerno l’ho vista cambiata fisicamente in meglio: c’è molto più verde, più ordine. Il pubblico teatrale però è ancora timoroso, deve sciogliersi, deve avere in sala un atteggiamento più libero… Manca la cultura della partecipazione allo spettacolo.
Due cavesi, Renata Fusco e Valeria Monetti, stanno tentando la scalata al successo. Che consigli si sente di dare loro?
Di resistere al sistema dello spettacolo, che tende a far disimparare l’arte. Devono restare sempre delle "artigiane".
Da tre anni si occupa dell'organizzazione del Festival di Teatro Caserta. Anche con qualche polemica. L’accusano di aver organizzato un programma troppo di "sinistra"…
Ho chiamato grandi artisti come Paolo Conte, Beppe Grillo, Moni Ovadia e Dario Fo. Caserta deve essere fiera.
A che progetti sta lavorando adesso?
L’anno prossimo sarò per la quinta volta all'Eliseo di Roma con lo spettacolo di Annibale Ruccello Notturno di donna con ospiti, che è diventato un piccolo cult teatrale. E’ il ruolo teatrale più intenso che abbia mai interpretato: faccio la parte di una poveraccia, di una donna-bambina che non vuole crescere. Poi mi piacerebbe anche fare un bel film…
Non è facile. Molte sue colleghe, da Nancy Brilli a Elena Sofia Ricci, lamentano la scarsità di ruoli di protagonista per le donne…
Il problema è che non c’è solo scarsità di ruoli femminili, c’è scarsità di film originali, di idee, di voglia di osare, di coraggio. Il cinema italiano è un luogo asfittico e non molto prolifico. In più, e questo è vero, è anche un cinema al maschile. Però…
Però?
Sono ottimista per il futuro. Quest’anno ho visto tre film italiani di grande qualità che mi fanno sperare: "L’imbalsamatore" di Matteo Garrone, ambientato nel casertano, "L’uomo in più" di Paolo Sorrentino e "Respiro" di Emanuele Crialese. E poi ci sono bravi registi come Gianni Amelio, Muccino, Ferzan Ozpetek.
A proposito di Ferzan Ozpetek, è vero che girerà un film da lui diretto e ambientato a Napoli?
Spero di sì. E’ uno dei registi che preferisco. Ho letto la trama, e mi piace molto. Adesso Ferzan è impegnato in un’altra pellicola. Quando finirà, ne riparleremo. Purché sia distribuito bene nelle sale... L’anno scorso "Ti voglio bene Eugenio", in cui ero protagonista insieme a Giancarlo Giannini, è stato distribuito malissimo.
 
 (La Città di Salerno, 1 dicembre 2002)
 
 
Scheda biografica
 
Giuliana De Sio nasce a Salerno il 2 aprile del 1957, sotto il segno dell’Ariete, ma trascorre la sua infanzia e la sua adolescenza a Cava dei Tirreni. Debutta in tv grazie allo sceneggiato intitolato Una donna, per la regia di Gianni Boncompagni. Seguono Mani sporche di Elio Petri e Edda Gabler di Maurizio Ponzi. Nel suo curriculum convivono teatro, cinema e televisione, a testimonianza di una versatilità di scelte e talento. Al cinema possiamo ricordarla in Il malato immaginario (1979) di Tonino Cervi, accanto ad Alberto Sordi; Scusate il ritardo (1982) di Massimo Troisi; Io Chiara e lo scuro (1983) di Francesco Nuti; Cento giorni a Palermo (1983) di Giuseppe Ferrara; Speriamo che sia femmina (1985) di Mario Monicelli; Cattiva (1991) di Carlo Lizzani; La vera vita di Antonio H (1994) di Enzo Monteleone; Con rabbia e con amore (1995) di Alfredo Angeli; Ti voglio bene Eugenio (2002) di Francisco J. Fernandez Rodriguez. A teatro ultimamente ha trionfato con una tournée di due anni in Notturno di donna con ospiti, testo di Ruccello diretto da E. La Manna, e con Storia d’amore e d’anarchia, di Lina Wertmuller. In televisione è tra le protagoniste della serie fiction Il bello delle donne.
 

Lucia Annunziata e i volantini alla Marzotto

di Mario Avagliano
 
"Sono legatissima a Salerno. Ho girato il mondo, ho vissuto in America, Medio Oriente e Russia, ma mi sento intimamente meridionale e campana". Lucia Annunziata, 51 anni, giornalista di razza, una brillante carriera come inviata, conduttrice televisiva, scrittrice, direttrice del Tg3, è ora alla guida dell'agenzia d'informazione internazionale Ap-Biscom, ma – avverte - non ha "mai dimenticato le proprie radici". E archiviata l’attualità ("è un momento complicato, preferisco non esprimere giudizi e fare il mio mestiere di giornalista"), parla invece volentieri del suo passato politico nel movimento studentesco salernitano, delle levatacce all’alba per andare a volantinare davanti agli stabilimenti dell’Ideal Standard e della Marzotto o nei quartieri popolari di Pastena e Mercatello, ma anche della sua passione per la mozzarella di bufala e dei frequenti ritorni nella sua terra.
 
Lei è nata a Sarno. Quando si è trasferita a Salerno?
Quando avevo 13 anni. Prima ho girato l’Irpinia, al seguito di mio padre: Cassano Irpino, Avellino, Nusco…
Curioso, anche Nusco…
Sì. Ricordo che De Mita negli anni Ottanta mi diceva che ero molto intelligente, perché da piccola avevo "respirato l’aria di Nusco".
Nel ’63 l’impatto con Salerno.
Arrivo e m’iscrivo al Liceo Tasso. In quegli anni Salerno era una cittadina - come dire - aspirante borghese, a differenza di Napoli, che era più metropolitana, anche se per certi versi un gran casino. Allora Salerno era una città perbene, anche un po’ perbenista, a voler essere pignoli. La vita era tutta regolata nei luoghi deputati: il pomeriggio la tazza di caffè ai tre bar del lungomare Trieste, alle sette di sera lo struscio, la domenica mattina la messa in Chiesa e poi alle 12-12,30 il giro al centro. Io non ero da meno, frequentavo il circolo "Il Ridotto", dove andavano i figli delle ‘buone’ famiglie.
Il tran tran, però, a un certo punto si rompe…
Colpa, o merito, della grave crisi economica che colpisce la città e il suo sistema industriale, le grandi fabbriche, l’Ideal Standard, la Marzotto… Si registrano i primi imponenti scioperi operai. Su Salerno si rovescia una notevole massa di immigrati dall’interno della provincia. Si espande la zona di Pastena, dove sorgono i quartieri un po’ più poveri…
Sulla città incombe il ’68.
Tra il ’67 e il ’68 cambia tutto. Salerno viene pesantemente politicizzata. Nelle fabbriche, e nelle scuole. Muta anche il costume. Ricordo la rivoluzione provocata dalla musica americana beat e dai pantaloni a zampa d’elefante. Al Liceo Tasso portavamo i grembiuloni neri, ma sotto indossavamo minigonne tremende o pantaloni verde smeraldo aderenti al pube…
La studentessa Annunziata diventa una contestatrice.
Già, anche io mi butto in politica, nel movimento studentesco salernitano. Fu un’esperienza straordinaria. All’inizio il movimento fu incredibilmente libertario, influenzato com’era dall’America, dai Kennedy, dalle lotte per i diritti civili, dalle manifestazioni contro la guerra in Vietnam.
Incrocia anche Michele Santoro?
Sì, anche se io facevo parte del movimento studentesco, e militavo in un collettivo che tra l’altro faceva volontariato di doposcuola a S. Ignazio, a Pastena. Lui era già più strutturato, aderiva ai gruppi leninisti-marxisti, era più rigoroso intellettualmente di me, che sono sempre stata una libertaria.
Un episodio indimenticabile di quegli anni?
Il Natale del ’69, quando organizzammo a Salerno un corteo contro Franco e l’Unione Sovietica, contro quello che chiamavamo il social-imperialismo. Un corteo interminabile, da Piazza Malta, dove era sorta da poco l’Università, fino alla fine del corso cittadino. Tenni io il comizio, sotto un grande albero di Natale, tutto addobbato di palle colorate e di luminarie, mentre la gente era affaccendata tra pacchi e pacchetti nelle ultime spese e negli ultimi regali.
Chi erano i suoi amici?
Voglio citarne tre per tutti: Massimo Rago, diventato un bravissimo medico; Bia Sarasini, che poi ha diretto Noi Donne; e Maria Grazia Barbirotti.
E i compagni di lotta politica?
Ricordo affettuosamente Ernesto Scelza, Nicola Paolino e Enzo Sarli, con i quali, nel ’69, fondammo il gruppo del Manifesto di Salerno, che era in contatto a Napoli con Caprara.
Che facevate?
Eravamo molto attivi. Non so quante ore e ore ho passato davanti alle fabbriche di Salerno a distribuire volantini! Organizzammo il comitato dei senza-casa, occupando alcuni fabbricati nuovi sopra al Carmine. Ci venne a prelevare la polizia…
Una volta fu anche arrestata.
Per fortuna venne mio padre a prendermi in Questura, prima che mi portassero in carcere. Mio padre all’epoca era molto impegnato nel Pci e tra noi e il Pci non correva buon sangue.
Cosa vuol dire?
Capitava anche che si venisse alle mani. Al corteo del 1° maggio del ’69 o del ’70 ci scontrammo con gli operai del Pci. Mio padre intervenne per dividerci, come altri padri che erano comunisti e avevano figli che aderivano ai movimenti. Beninteso, neppure noi eravamo dei santarelli…
L’università la frequentò tra Napoli e Salerno.
M’iscrissi alla facoltà di storia e filosofia a Napoli. Ma nel ’71 mi trasferii a quella di Salerno, perché l’università di Napoli, tra occupazioni, incendi e dimissioni dei professori, non funzionava più. Io ci tenevo allo studio.
Nonostante l’impegno in politica?
Attraverso tutto il bailamme del ‘68, io mi sono laureata in tre anni e una sessione con 110 e lode. All’epoca contestare non significava rifiutare la scuola, anzi avevamo l’orgoglio di essere i primi della classe. Mi laureai con Gaetano Arfè, con una tesi sul rapporto tra meridionalismo e primi comunisti napoletani. Ricordo che scrissi tutta la tesi lavorandoci anche di notte ma, tra riunioni politiche, manifestazioni e volantinaggi, non ebbi il tempo di farla rilegare. La portai in aula spillata. I professori s’incavolarono, non volevano darmi la lode…
E la passione per il giornalismo?
Nasce molto più tardi. Nel ’72 mi sposai con Attilio Wanderling (leader del movimento napoletano, n.d.r.) e l’anno dopo ci trasferimmo in Sardegna, innamorati com’eravamo dell’idea di una nuova frontiera dell’attività politica, di vivere in un posto selvaggio, libero, al di fuori del mondo. Fino al ’75 sono stata lì, in un’isola bellissima, Sant’Antioco, che guarda la Spagna, continuando l’attività politica nel Manifesto. Quando sono stata nominata responsabile nazionale della commissione scuola del Manifesto e poi del Pdup, con Famiano Crucianelli, sono venuta a Roma e li poi ho conosciuto Lerner, Adornato, D’Alema, Manconi. Facevamo riunioni interminabili. Nel ’77, infine, mi sono stufata della politica e mi sono dimessa dall’incarico…
 E il giornalismo?
Il giornalismo mi sembrava una cosa molto più libera della politica, che era diventata pesante, noiosa. Io già frequentavo la redazione del Manifesto e ogni tanto scrivevo qualcosa. Chiesi a Rossanda di fare la giornalista, ed… eccomi qua.
In giro per il mondo e passando da Repubblica al Corriere e al Tg3. Senza mai perdere di vista Salerno e la Campania…
Io credo di essere intimamente meridionale. Sono una persona che gira moltissimo il mondo, ma che ha un fortissimo senso delle radici. Del Sud mi piacciono le famiglie estese, il calore, il dovere di lealtà alla propria terra. Ho sempre considerato il mio essere meridionale un arricchimento. Non sono mai diventata una sradicata, e credo che anche i salernitani mi riconoscano come una loro concittadina.
Ha educato anche sua figlia ai "valori" del Sud?
Altrocche’. Mia figlia, pur essendo americana, ha imparato a mangiare gli spaghetti alle vongole al Porto di Salerno e conosce e apprezza il sapore dei panzerotti di Sarno…
Sarno, appunto. Nel ’99, quando c’è stata l’alluvione, ha sentito il bisogno di tornare nei posti dove era nata e di scrivere un lucido libro d’accusa sui ritardi dei soccorsi e della ricostruzione, intitolato "La crepa".
E’ vero. A Sarno ci sono solo nata, ma sono legata a questo centro, mi ricorda quando s’andava d’estate dai nonni… La vicenda dell’alluvione è un esempio dell’altra faccia della medaglia dell’identità meridionale, quella negativa, quella che indulge al fatalismo.
Torna spesso da questi parti?
Ho la casa di vacanza a Capri. Fuori stagione capito a Vietri e in costiera, che amo moltissimo. E anche a Salerno, dove vive tuttora mio padre, vengo spesso. Ci sono stata due settimane fa.
Che ne pensa della Salerno di oggi?
E’ cambiata moltissimo ed è cresciuta bene, anche per merito di un sindaco come De Luca, che conosco a fondo. Però…
Però?
L’unica cosa su cui sono polemica è la costruzione del porto con i containers, che ha tagliato la continuità turistica ed estetica della città con la Costiera, impedendo a Salerno di diventare il terminal del grande turismo internazionale che visita le nostre zone. Per colpa del porto, la Costiera si ferma a Vietri.
E invece?
Non è vero, la Costiera termina a Salerno. Non mi riferisco a De Luca, ma chi lo ha preceduto ha fatto un calcolo sbagliato. Salerno si è fissata con l’industrializzazione e non ha capito in tempo la sua vocazione turistica. Così il patrimonio naturale di Salerno è stato sprecato con la costruzione del ponte di via Alfonso Gatto e con la distruzione della zona costiera a sud della città, che è un ricettacolo di rifiuti, di costruzioni abusive, di alberghetti da quattro soldi.
Si riferisce alla zona di Paestum?
Sì, alla zona tra Salerno e Paestum, che è stata devastata e che tuttora non è oggetto di un piano di recupero. Per chilometri e chilometri il mare di Salerno è tarpato. La pineta è mezza malata. Risultato? Il turismo internazionale va a Pompei, s’infila in costiera, vede Salerno da sopra e dice "bye" e infine si dirige verso il Cilento e la Calabria, che stanno cominciando ad organizzarsi bene.
Un’occasione mancata?
Salerno ha tutte le qualità per intercettare il turismo, è pulita, benservita. Perché non si organizza un servizio di grande qualità sul mare? Perché non si costruiscono grandi alberghi? Perché non si sfrutta l’itinerario della mozzarella?
La mozzarella? Lei è una intenditrice?
Di più. Sono una appassionata della mozzarella di bufala. La prova d’amore che chiedo a tutti gli amici salernitani quando vengono a trovarmi, è che mi portino un po’ di mozzarella. La adoro. Ahimè, perché ingrassa molto…
 
 (La Città di Salerno, 24 novembre 2002)
 
 
Scheda biografica
 
Lucia Annunziata è nata a Sarno nel 1950. Giornalista, è direttore dell'agenzia d'Informazione Internazionale Ap-Biscom. E' stata inviata e corrispondente per il Manifesto, La Repubblica e il Corriere della Sera. Ha seguito gli Stati Uniti, l'America Latina e la Russia. E' stata autrice e conduttrice del talk show politico Linea 3 e ha diretto il Tg 3 dal 1996 al 1998. Ha vinto il Premiolino per i suoi servizi durante la guerra del Golfo e il Premio Max David come inviato di guerra. Nel 1993 ha avuto la Nieman Fellowship dell'Università di Harvard. Inoltre, ha vinto il Premio Malaparte per il suo libro 'Bassa intensità' (Feltrinelli, 1990) e il Premio Saint Vincent per il libro 'La Crepa' (Rizzoli, 1998). E' membro dell'ASPEN Institute. Sposata con Daniel Williams, inviato internazionale del Washington Post, ha una figlia, Antonia, di nove anni.
 

Michele Santoro: "Quel comizio del Pci con Gatto a Salerno..."

di Mario Avagliano
 
Al centralino della Rai, se si chiede di Michele Santoro, rispondono "non è più qui…". "Già, forse preferiscono immaginare che sia morto e sepolto", sibila il giornalista salernitano, 51 anni, autore e conduttore di Samarcanda, Il Rosso e il Nero, Temporeale e Sciuscià. "Ma il mio imitatore fa il picco degli ascolti nello show di Morandi. Un fantasma si aggira per la Rai", sorride amareggiato. Poi parte l’intervista, sospesa a metà tra la memoria ("mi sta facendo raccontare tutta la mia vita") e l’attualità ("Berlusconi è il Grande Censore: pensa di essere un re ma è un poveraccio pieno di miliardi").
 
Nel ’68 lei aveva 17 anni. E’ l’anno della contestazione studentesca, ma – a Salerno – è anche l’anno in cui muore Monsignor Demetrio Moscato, il "padre-padrone" della Chiesa cattolica salernitana. Cosa ricorda di quel periodo?
Avevo diciassette anni ma sono stato in prima fila nella contestazione che, a Salerno, ha avuto come protagonisti gli studenti medi. Con Ernesto Scelza e pochi altri fondammo un movimento anarchico, il "22 marzo", dal quale sono partiti gli scioperi per il diritto d’assemblea. L’anno prima, il 1967, ero stato cacciato dal liceo Tasso ed era stato censurato un giornale scolastico al quale avevo dato vita. Al De Sanctis, dove fui costretto a trasferirmi, c’era il nucleo più numeroso del "22 marzo". Fu la prima scuola ad essere occupata ed io divenni popolare in città quasi più di quanto lo sia oggi grazie alla tv.
Nel ‘68 Lello Schiavone fonda la galleria "Il Catologo", che diventa un cenacolo culturale di livello nazionale, con grossi personaggi come Alfonso Gatto, Maccari, Guttuso, Prisco, Pratolini.
Lello Schiavone e il Catologo li ho incontrati molto più tardi. Alfonso Gatto l’ho conosciuto dopo un comizio che tenne per il PCI alle elezioni del 1972. Conservai a lungo una cassetta radiofonica di quella incredibile serata durante la quale parlò anche Edoardo Sanguineti, uno dei miei maestri all’università. Alla fine di uno dei tre esami che ho sostenuto con lui, Sanguineti mi disse: "Hai buone capacità. Diventa ricercatore; ma devi lasciare tutto quello che fai per dedicarti allo studio". Risposi: "Non posso. La politica è più importante".
Nel 1970 Lino Jannuzzi diceva "andate a Mariconda, quello è il vostro Vietnam "…
Lino Jannuzzi ha dato molte indicazioni nella sua vita. Quasi sempre sbagliate. Comunque per noi giovani di allora quelli come lui non costituivano un punto di riferimento. A Mariconda ci andavamo di nostra iniziativa per organizzare l’occupazione di case popolari e all’alba eravamo all’entrata delle fabbriche di San Leonardo per diffondere i nostri volantini. Più di Jannuzzi eravamo interessati ad un capopolo sottoproletario, Matteo Ragosta. Era un simpatico "mascalzone", straordinariamente intelligente e gran conquistatore di belle popolane.
Era anche un periodo di scontri fisici tra neo-fascisti e gruppi extraparlamentari di sinistra.
Non partecipavo volentieri agli scontri e non mi piaceva un certo giocare alla guerra che era tipico di alcuni gruppi extraparlamentari. I fascisti erano intervenuti violentemente contro i nostri primi cortei (agendo in sincronia con la polizia) perché consideravano i giovani un loro terreno esclusivo di conquista. Il movimento studentesco alle origini non aveva le cupezze dei gruppi estremisti. Era allegro, proteso al dialogo; e tanti ragazzi furono conquistati alla sinistra con delle discussioni incredibili che oscillavano da Che Guevara alla Beat Generation. I fascisti divennero sempre più marginali e si dedicarono a provocazioni episodiche.
Un’immagine o un momento che per lei rappresenta quegli anni…
Separo nettamente gli anni tra il sessantotto e il settantadue in due periodi. Il movimento studentesco degli inizi, che rappresentò a Salerno anche l’affermazione del diritto dei giovani alla felicità, alla libertà sessuale, ad esprimere un proprio punto di vista in politica; e gli anni dei gruppi, in cui invece prevalse il dibattito su chi possedesse la linea giusta che portò alcuni alla deriva terroristica.
E lei?
Io scelsi il PCI, confessando di non capirci più niente di quello che stava succedendo ed essendo convinto che non si poteva lasciare la città in mano al MSI di Almirante. Fui uno dei primi a livello nazionale, che essendo stato un leader, faceva quella scelta. Ma il PCI commise un grave errore…
Quale errore?
Il PCI si trovò ad avere tra le sue fila a Salerno un gruppo di giovani di straordinaria qualità ma li disperse praticamente tutti. Erano gli effetti di quello che allora si chiamava centralismo democratico e che finiva per selezionare i signorsì. Adesso gli eredi del PCI hanno rinunciato al centralismo democratico ma non hanno certamente rinunciato a circondarsi di signorsì. Cosi oggi nel centrosinistra a volte sembra di assistere a quella guerra tra bande dalla quale sono fuggito negli anni settanta.
Chi frequentava in quel tempo a Salerno?
Con Filiberto Menna e tanti altri, Ugo Di Pace per esempio e il giovane Franco Simonetti, decidemmo di far vivere la società civile e creammo il club di Salerno, una sorta di girotondo intellettuale che si proponeva di produrre cultura e sollecitare la società politica. Gestimmo per un anno l’Apollo con grande successo di pubblico. Per esempio organizzammo la più importante serie di conferenze psicoanalitiche mai fatta in Italia con la partecipazione di migliaia di persone.
Come finì?
I Pastore, che erano proprietari dell’Apollo, si rifiutarono di farcelo gestire e anzi approfittarono del rilancio per fare i loro interessi. Così fecero anche contenti i politici, che avevano cominciato a spaventarsi, e presero due piccioni con una fava.
Negli anni Settanta inizia la sua attività giornalistica al Mattino e poi alla Voce della Campania, di cui diventa direttore. Ci parla di quegli inizi?
Fui costretto a dedicarmi completamente al giornalismo. Diventando direttore della Voce avevo abbandonato completamente l’attività politica e mi ero impegnato nel salvataggio del giornale con risultati straordinari. In pratica un rotocalco assistito nato per iniziativa del PCI riusciva a vivere con le sue forze. Avevo messo da parte i vecchi babbioni intellettuali della redazione e promosso sul campo giovanissimi come D’Avanzo, Renato Caprile, Sergio Luciano che oggi sono tra i più grandi giornalisti italiani. Avevo anche realizzato un piano per rendere la Voce un’impresa completamente indipendente.
E invece qualcosa non funzionò…
Eh, sì. Il partito intervenne per strozzare il bambino nella culla, bocciando la mia ristrutturazione. Mi dimisi con la morte nel cuore; come chi deve separarsi da un figlio. Era invece l’inizio di una grande carriera.
Il 23 novembre del 1980 la terra trema in Campania. Lei segue quel terremoto come giornalista. A distanza di oltre vent’anni, che bilancio si può tracciare della ricostruzione?
Ciò che considero veramente grave è che le popolazioni non sono state mai veramente rese responsabili degli interventi e della gestione delle risorse. I soldi del terremoto sono serviti a riscrivere la mappa del potere e ad espropriare i cittadini del diritto a decidere il futuro. Il mio sogno sarebbe stato lanciare una sfida a Bossi. Dimostrare che il Sud era capace di creare impresa, di farsi impresa cominciando dall’informazione e dalla cultura. Ma, si sa, nemo profeta in patria.
Come avviene il passaggio a Roma e nel 1982 l’assunzione alla Rai?
Quando si resta disoccupati si fanno un sacco di cose. Lavoravo per il Mattino e realizzavo sceneggiati radiofonici per la Rai collaborando con uno straordinario personaggio, Enrico Zummo. Nel frattempo ero parcheggiato a l’Unità che non mi faceva scrivere. Nel consiglio d’amministrazione della Rai c’era il filosofo Beppe Vacca che mi ha proposto di andare a Roma e io ho accettato. L’Unità si è liberata di me ed io di loro. E ho fatto bene visto che la redazione napoletana ha chiuso.
Quanto deve a Sandro Curzi e come ricorda i tempi di TeleKabul?
Con Sandro Curzi non c’è stato un rapporto facile come tutti pensano. Lui è stato straordinario a raccogliere nel Tg3 il meglio del giornalismo giovane della Rai di allora. Ma Samarcanda era già allora una repubblica a parte che il direttore esaltava o mandava a quel paese a seconda delle circostanze.
Colori, profumi, il mare. Quale ricordo si porta dietro Michele Santoro di Salerno?
Dove adesso c’è piazza della Concordia c’era un molo spezzato. Lo chiamavamo ‘il pennello’. Con il mare agitato le onde gli si infrangevano contro. Noi bambini andavamo verso la punta e poi scappavamo per evitare gli spruzzi.
Segue le sorti della Salernitana? Nonostante Zeman, quest’anno stenta…
Sì, certo. La Salernitana è un amore che non si dimentica e Zeman mi è sempre piaciuto. Spero davvero che i "granata" tornino a vincere.
Lei è uno dei personaggi più amati della tv pubblica. Tanti telespettatori, non solo di Salerno ovviamente, attendono il suo ritorno in video. Sappiamo che riceve centinaia di telefonate, di lettere e di mail. Che cosa le dicono, che cosa le scrivono?
Vivono la nostra assenza come una ferita e come la dimostrazione della meschinità e della mediocrità di chi ci governa. Berlusconi pensa di essere un re ma è un poveraccio pieno di miliardi.
Come ha vissuto il provvedimento disciplinare di sospensione da parte della Rai?
Hanno aspettato sei mesi minacciando un licenziamento che non hanno avuto il coraggio di fare. Poi la montagna ha partorito il topo di fogna della sospensione.
Ma lei si sente "colpevole" di qualcosa?
Sono colpevole di aver lavorato onestamente, di aver detto la verità.
La sua verità, potrebbero dirle.
Quella che mi appare come la verità. Mi riferisco a quello che hanno scritto sul caso italiano prestigiosi giornali stranieri come l’Economist, al conflitto d’interessi, alla vicenda di Dell’Utri, a ciò che ci viene addebitato come lavoro "criminoso".
Maurizio Costanzo, come aveva promesso, ha cantato "Contessa" per invocare il suo ritorno in video, il presidente della Rai Baldassarre ha detto che "per quanto riguarda il Cda i casi Biagi e Santoro sono chiusi", il direttore di Raitre Paolo Ruffini la vorrebbe sulla sua rete. Però nel palinsesto Rai "Sciuscià" non c’è. Ci sono novità al riguardo?
Costanzo ha quasi cantato. Diciamo che è stato un canto fioco. Berlusconi ha deciso che dobbiamo tacere. Il resto è una conseguenza.
Il Direttore generale della Rai Saccà sostiene che non è vero che lei non sta lavorando. Avrebbe realizzato il programma "Donne" e avrebbe in progetto un documentario sul bandito Giuliano. Tutto vero?
Donne è già finito e Giuliano, che è un progetto approvato dalla Rai precedente, non comincerà mai.
Il presidente Baldassarre le rimprovera le continue interviste in cui dipinge il nuovo vertice come composto da "censori".
Ripeto, il Censore è il Presidente del Consiglio. Comunque perché il programma leader di Raidue è stato cancellato?
Quali condizioni pone per tornare in video alla Rai e, viceversa, a che cosa è disposto a rinunciare?
Non rinuncio alla mia indipendenza e alla mia dignità.
Che similitudini ci sono con la vicenda di Biagi?
La nostra e quella di Biagi sono due facce della stessa medaglia coniata in Bulgaria.
Le opposizioni parlano di crollo di ascolti della Rai rispetto a Mediaset. Come giudica la tv pubblica in questo momento?
Siamo precipitati in una situazione di monopolio. Oggi la crisi della Rai è più evidente ma ben presto si evidenzierà anche una crisi di Mediaset. Senza concorrenza la televisione italiana rischia di ammalarsi gravemente, di fare la fine della Fiat. Fra cinque anni il nostro paese potrebbe non avere più un’industria televisiva, come non ha più un’industria chimica o dell’acciaio.
E come giudica la nuova Raitre di Paolo Ruffini?
Di nuovo Raitre ha ancora espresso poco. E’ una rete forte della nostalgia di un pubblico per la vecchia Rai. Ma non ha la capacità innovativa di Telekabul, il coraggio e lo spirito di avventura di quella straordinaria esperienza.
Come racconterebbe la situazione politica ed economica italiana di questi mesi? Quali temi le piacerebbe approfondire?
La Fiat e la guerra prima di tutto. Credo che nella nostra chiusura ci sia anche la volontà di mettere a tacere quei movimenti, come i No Global o i pacifisti, che solo nella nostra trasmissione parlano da veri protagonisti. Comunque Berlusconi ha sempre promesso di dare tutto a tutti. Questa è la prima volta che toglie qualcosa in maniera così vistosa. La leggo come una manifestazione di paura e di debolezza.
Se alla fine restasse fuori dalla Rai, che cosa farebbe?
Non lo so. Ma non mi arrenderei e continuerei a battermi. Scrivendo sui muri di Arcore se non mi lasciano altra scelta.
 
(La Città di Salerno, 10 novembre 2002)
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