Storie – Zamboni e il tentativo di salvare gli ebrei di Grecia

di Mario Avagliano

    I Palatucci e i Perlasca non furono casi isolati. Un altro funzionario italiano si attivò con le armi della burocrazia e con profondo senso di umanità per salvare gli ebrei in quegli anni tragici: il console a Salonicco Guelfo Zamboni, che nel '92 fu riconosciuto come Giusto delle nazioni dallo Yad Vashem. E non agì da solo: gli incaricati dell’ambasciata italiana a Berlino gli diedero man forte.

La vicenda di Zamboni era già in parte conosciuta. Di recente, però, come rivelato dal Corriere della Sera, la storica Sara Berger, ricercatrice del Museo della Shoah in via di costituzione a Roma, ha rintracciato nell'Archivio politico degli Affari esteri tedeschi di Berlino il carteggio tra il governo fascista e l’alleato tedesco sulla deportazione da Salonicco di 75 ebrei italiani (o presunti tali, molti di loro erano stati fatti passare come tali dallo stesso Zamboni, allo scopo di sottrarli ai nazisti), che nella tarda primavera del ’43, poco prima della caduta di Mussolini, fece scoppiare un vero e proprio caso diplomatico.
Tutto partì da una nota dell’ambasciata italiana a Berlino del 14 maggio 1943, ispirata dallo stesso Zamboni: «La Regia Ambasciata è stata incaricata di voler pregare il Ministero degli Affari Esteri del Reich affinché vengano annullati i provvedimenti erroneamente adottati e si provveda di conseguenza al ritorno alle rispettive residenze degli ebrei in questione che risultano deportati, al rintraccio degli smarriti, ed alla liberazione di quelli già internati in campi di concentramento».
Che cosa era successo? Adolf Eichmann, Obersturmbannführer delle SS che da marzo aveva organizzato la deportazione ad Auschwitz e Treblinka di 55 mila ebrei greci, per «errore» aveva arrestato a Salonicco anche alcuni ebrei italiani.
Il regime fascista, su pressione di Zamboni, chiede che siano rimandati indietro, «in quanto il governo italiano si sente obbligato a proteggerli per motivi morali, patriottici o per interessi nazionali», informa la Regia ambasciata il 15 giugno 1943.
Nella lista dei 75 ebrei rivendicati dall'Italia figura Doudoun Levi Venezia, la nonna di Shlomo Venezia, autore del libro Sonderkommando, uno degli ultimi sopravvissuti delle squadre di prigionieri costrette a lavorare tra forni e camere a gas di Birkenau per portare via i cadaveri. Dettaglio importante: lo storico Marcello Pezzetti fa notare che nella lettera del 14 maggio 1943 si legge che «è stata deportata in Polonia». Ovvero: «Il governo italiano sa di Auschwitz».
Purtroppo ormai è tardi. L'ambasciata italiana insiste e Eberhard von Thadden, del ministero degli Esteri tedesco, scrive il 19 giugno ad Eichmann, chiedendogli di «rintracciare» e «mettere a disposizione degli italiani» le persone della lista. Ma la signora Venezia, partita a marzo, è stata uccisa all'arrivo.
Zamboni comunque riuscì a salvare circa 350 ebrei dalle deportazioni, ricorrendo allo stratagemma della nazionalità italiana provvisoria.

(L’Unione Informa, 12 giugno 2012)

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Storie – Artisti, dissidenti ed ebrei in fuga dai nazisti in Francia

di Mario Avagliano

«Nell’agosto del 1940 lasciai New York per una missione segreta in Francia, una missione che molti dei miei amici consideravano pericolosa. Partii con le tasche piene di elenchi di uomini e donne che dovevo soccorrere e con la testa piena di suggerimenti su come farlo».

Quell’estate gli Usa non erano ancora entrati in guerra ma «un gruppo di cittadini americani, convinti che i democratici dovessero aiutare i democratici, senza badare alla nazionalità, creò subito l’Emergency Rescue Committee», con l’obiettivo di far espatriare il maggior numero di esuli europei - artisti, intellettuali, antifascisti, antinazisti, ebrei - che avevano trovato rifugio in Francia e che erano ricercati dalle polizie segrete italiane, tedesche e spagnole (Gestapo, Ovra e Seguridad) e dalla stessa Francia filonazista di Vichy, che una volta arrestati, spesso li consegnava direttamente alla Germania.
L’agente al quale viene affidata questa gigantesca operazione di salvataggio è un giovane giornalista liberal, Varian Fry, che viene mandato a Marsiglia, in Costa Azzurra. L’elegante e ostinato Fry, in appena tredici mesi, mette in piedi una rete clandestina, coinvolgendo una pattuglia di volontari, tra cui la bella ereditiera americana Mary Jayne Gold, e tenendo riunioni nei posti più impensati (dalle toilettes ai postriboli) per sfuggire alle intercettazioni.
Nonostante la ritrosia dei funzionari del consolato statunitense a Marsiglia a rilasciare i visti, Fry riesce, con mezzi legali e illegali, ad ottenere i permessi e ad organizzare la fuga in Usa di centinaia di persone (ne sono stati calcolate più di 1.500), tra cui grandi nomi dell'arte, della scienza e della cultura, quali Marcel Duchamp, André Breton, Marc Chagall, Max Ernst, Arthur Koestler, Hannah Arendt.
La sua azione febbrile in favore dei rifugiati non passa inosservata. A settembre 1941 Fry è costretto a lasciare l’Europa: la polizia di Vichy lo ha espulso dalla Francia e il consolato americano non gli ha rinnovato il passaporto. Tornato in Usa, scrive di getto il racconto delle sua esperienza e, non senza difficoltà, lo pubblica, poiché contiene aspre critiche all’atteggiamento degli Stati Uniti verso gli esuli.
Ora le sue memorie escono per la prima volta in Italia, per i tipi della Sellerio (Varian Fry, «Consegna su richiesta. Marsiglia 1940-1941. Artisti, dissidenti ed ebrei in fuga dai nazisti»).
Solo trent’anni dopo la sua morte, Varian Fry è stato riconosciuto come uno dei Giusti tra le nazioni, primo cittadino americano a comparire nella lista, e nel 1998 ha ricevuto la cittadinanza onoraria dello Stato di Israele. Dalla vicenda narrata nel suo libro è stato tratto il film Varian’s War, con William Hurt e Julia Ormond.

(L'Unione Informa, 19 febbraio 2013)

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Storie - Cotignola, un altro paese di Giusti

di Mario Avagliano

Ci fu un altro “caso” Nonantola nel tragico periodo della Repubblica di Salò e dell’occupazione tedesca dell’Italia centro-settentrionale. Anche a Cotignola, piccolo centro della bassa Romagna, in provincia di Ravenna, tra l’autunno del ’43 e la primavera del ’45, l’intero paese di seimila persone si mobilitò per salvare 41 ebrei italiani dalla caccia all’uomo scatenata dai nazifascisti.

A dare protezione ai perseguitati, provenienti per lo più da Bologna e dal modenese, fu tutta la popolazione: le famiglie di Cotignola, il commissario prefettizio Vittorio Zanzi, gli impiegati dell’anagrafe comunale, la Curia, i partigiani e il locale comitato di liberazione nazionale. Zanzi, sfruttando il suo incarico, si occupò della logistica e degli spostamenti degli ebrei in varie abitazioni del centro e nelle campagne circostanti e riuscì a fornire falsi documenti d’identità ai perseguitati, facendole stampare da un dipendente della tipografia e poi compilare da funzionari dell’anagrafe. In questa opera di salvataggio, fu aiutato dalla moglie Serafina, da Luigi Varoli con la moglie Anna, dall'arciprete Giovanni Argnani e dai partigiani. Un esempio straordinario di impegno collettivo contro la barbarie e il terrore nazifascista. Ogni anno Cotignola celebra la memoria di quella generosa rete di accoglienza, che viene ora raccontata anche in un documentario, «Cotignola, il paese dei Giusti», realizzato da Nevio Casadio, giornalista vincitore del Premio Ilaria Alpi. Il documentario è stato presentato ieri in anteprima nazionale a Cotignola, presso l’Istituto Comprensivo “Don Stefano Casadio”, e andrà in onda domani su Rai 3 alle ore 10, nella puntata de "La storia siamo noi" di Gianni Minoli, in occasione della “Giornata dei Giusti” istituita dal Parlamento europeo nel 2012.
Con l’ausilio di interviste, di immagini di repertorio e di ricostruzioni storiche, vengono ripercorsi gli eventi di quei giorni e la storia dei quattro Giusti tra le Nazioni di Cotignola. Due coppie di italiani del 1943 che sentirono il dovere di agire, mettendo a rischio la propria vita, per salvare i connazionali ebrei dalla deportazione: il commissario prefettizio Vittorio Zanzi e la moglie Serafina e il pittore e insegnante Luigi Varoli e la moglie Anna.

(L'Unione Informa, 5 marzo 2013)

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Gino Bartali. Il coraggio del campione

di Mario Avagliano

«Oh, quanta strada nei miei sandali / quanta ne avrà fatta Bartali / quel naso triste come una salita», cantava Paolo Conte. Ma è grazie ai suoi meriti extrasportivi, la partecipazione alla Resistenza e il salvataggio di molti ebrei, che Gino Bartali, il campionissimo italiano delle due ruote, è stato celebrato anche oltre Atlantico, con la pubblicazione del saggio Road to Valor dei canadesi Andres e Aili McConnon, fratello e sorella, rispettivamente ricercatore storico e giornalista di varie testate statunitensi (New York Times, Wall Street Journal e Guardian).

Ginettaccio, staffetta partigiana, durante la seconda guerra mondiale contribuì a sottrarre centinaia di ebrei tra Toscana e Umbria dalle grinfie dei nazifascisti, salvando un’intera famiglia dalla deportazione ad Auschwitz. Il libro made in Usa, che ripercorre le sue gesta, ora approda anche in Italia, dove sarà in libreria il 23 maggio col titolo La strada del coraggio – Gino Bartali, eroe silenzioso (edizioni 66thand2nd).
Inediti dettagli su Bartali, classe 1914, originario di Ponte a Ema, frazione di Firenze, che nella sua leggendaria carriera ha vinto tre Giri d’Italia e due Tour de France, erano stati rivelati alcuni mesi fa da Adam Smulevich su «Pagine Ebraiche». In una testimonianza il fiumano Giorgio Goldenberg (che da quando vive in Israele ha cambiato il suo nome in Shlomo Pas) aveva raccontato che il popolare Ginettaccio e il cugino Armandino Sizzi nella primavera-estate del 1944 nascosero per alcuni mesi a Firenze, nella cantina di una casa in via del Bandino, di loro proprietà, i quattro componenti della sua famiglia (padre, madre e due bambini, Giorgio e Tea), impedendone l’arresto da parte dei nazisti.
Il libro americano, ricco di testimonianze e documenti, è diviso in tre parti e ricostruisce l'infanzia e la giovinezza del campione, fino al trionfo al Tour de France del 1938 (e Gino si lamenterà delle ingerenze politiche del regime fascista che gli impedirono di realizzare l'accoppiata Giro-Tour, vietandogli la corsa rosa); il periodo bellico, la sua militanza nell’Azione Cattolica, mal tollerata dal fascismo, e l'attività clandestina nella Resistenza; e poi, dopo la liberazione, il ritorno alle competizioni ciclistiche e la storica rivalità con Fausto Coppi che divise il tifo sportivo dell’Italia repubblicana, nel fervore della ricostruzione, trasformandosi anche in un fenomeno socio-politico: Coppi simil-Peppone, “rosso” e laico, e Bartali-don Camillo, “bianco” e cattolico. Fino alla seconda straordinaria vittoria al Tour del 1948, con gli occhialoni infangati di fango, che in qualche modo allentò la tensione esplosa nel Paese dopo l'attentato al segretario del Pci Palmiro Togliatti, e alla morte avvenuta a Firenze nel maggio del 2000.
Memorabili le sue battute «L'è tutto sbagliato l'è tutto da rifare», il suo spirito bonario, il fumare come una ciminiera e la verve polemica da toscano, che non disdegnava il buon Chianti.
Bartali fu staffetta partigiana a partire dall'autunno 1943 su incarico dell'arcivescovo di Firenze, il cardinale Elia Dalla Costa, e al servizio della rete clandestina Delasem messa in piedi dall’ebreo pisano Giorgio Nissim. Il ciclista toscano fingeva di allenarsi per le grandi corse a tappe che sarebbero riprese dopo il conflitto ma in realtà trasportava documenti falsi, celati in una sorta di cilindro montato sulla canna della bici, simile a una pompa per tubolari, per circa 630 ebrei nascosti in case e conventi tra Toscana e Umbria. Centinaia di km percorsi in bici avanti e indietro, da Firenze ad Assisi (la strada del coraggio), per “consegnare” nuove identità alle famiglie ricercate con feroce determinazione dai fascisti della Rsi e dai nazisti.
Bartali non si vantò mai di questa sua esperienza e non volle raccontarne i dettagli. «Non si specula sulle disgrazie altrui», soleva rispondere a chi gli chiedeva ulteriori ragguagli. Soltanto dopo la sua scomparsa, è stato possibile approfondire questo capitolo della sua esistenza, che potrebbe presto portarlo a essere iscritto nel registro dei Giusti del Museo Yad Vashem di Gerusalemme. E grazie a Ginettaccio, nel 2014 proprio la sua Firenze potrebbe avere l’onore di aprire il Tour De France. Una candidatura appoggiata dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e dal Conseil Représentatif des institutions juives de France. Quell’anno infatti si celebra il centenario dalla nascita di Gino Bartali, campione sulle due ruote e nella vita.

(Il Messaggero, 24 maggio 2013)

 P.S.: apprendiamo proprio oggi che purtroppo la partenza del Tour 2014 sarà da Londra. Firenze a questo punto è in pole position per il 2015!

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Storie - Il caso Palatucci e il compito della storiografia

di Mario Avagliano

La storia non si fa né con le glorificazioni improvvisate né con i giudizi sommari. La storia richiede una lunga attività di scavo e di ricerca, non solo negli archivi, che tenga conto dei documenti e delle testimonianze disponibili e anche del contesto in cui si svolsero i fatti. Lo dimostra la vicenda del funzionario di polizia irpino Giovanni Palatucci nel periodo della persecuzione degli ebrei, tra il 1938 e il 1944, oggetto di attenzione in queste ultime settimane da parte dei principali quotidiani nazionali.
Palatucci è il classico esempio di come, senza opportuni studi ed approfondimenti, un personaggio possa essere considerato, a seconda dei punti di vista, “santo” o “criminale”. Dal riconoscimento di Giusto tra le Nazioni dello Yad Vashem e il processo di beatificazione da parte della Chiesa cattolica, alle accuse del New York Times di collaborazionismo con i nazisti.
Uno dei primi a sollevare dubbi sul salvataggio da parte di Palatucci di migliaia di ebrei fu, nel 2008, lo studioso Marco Coslovich, nel libro Giovanni Palatucci. Una giusta memoria. Ora a riaprire il dibattito è stata la presa di posizione del Centro Primo Levi di New York, a seguito di uno studio su circa 700 documenti di vari archivi internazionali, tra i quali quello della città di Fiume.

Sul caso Palatucci, inviterei a leggere le interviste di Michele Sarfatti a Panorama e all’Huffington Post e le sue dichiarazioni al Corriere della Sera.
Sarfatti, che ha partecipato alla ricerca del Centro Primo Levi ed è uno storico di grande spessore e serietà scientifica, dopo aver affermato che dai documenti esaminati non sono emerse «evidenze storiografiche del salvataggio di migliaia di ebrei da parte di Giovanni Palatucci» e che il ruolo del funzionario irpino è stato «ingigantito», ricorda però che fu deportato a Dachau per attività antitedesca e spiega che la sua vicenda merita rispetto e ricostruire il suo operato non significa spostarlo «nel campo dei cattivi».
Quanto alle accuse di collaborazionismo con i tedeschi, Sarfatti precisa testualmente: “resto perplesso su una frase della giornalista del NYT, secondo la quale Palatucci avrebbe ‘aiutato i tedeschi a identificare gli ebrei da rastrellare’. Frase che attribuisce ai ‘ricercatori’, senza specificare chi. Ma di questo non esiste prova alcuna”.
Ma il ruolo di salvatore di Palatucci è stato del tutto inventato? Un’affermazione del genere sarebbe scorretta. Nella pratica di riconoscimento dello Yad Vashem ci sono prove che Palatucci soccorse una donna ebrea, Elena Aschkenasy. E, come aggiunge Sarfatti, ci sono in suo favore testimonianze “che in linea generale ritengo fondate, ma devono essere vagliate con attenzione studiando le carte”. Ad esempio quella sul salvataggio dei due coniugi Salvator e Olga Conforty (la figlia Renata Conforty lo ha ricordato sul Corriere della Sera del 23 giugno).
Il problema è che, come osserva Sarfatti, “i riconoscimenti pubblici a Palatucci hanno preceduto la ricerca storica”. Ora lo Yad Vashem ha avviato un processo di riesame del suo caso sulla base della nuova documentazione. E, come propone il direttore del Cdec, anche in Italia si potrebbe nominare un gruppo di lavoro per fare chiarezza sulla vicenda.
Aggiungo che mi trovo d’accordo con Anna Foa sul fatto che, probabilmente, in seguito alle ricerche in corso i numeri andranno ridimensionati e alcuni eventi andranno riletti, ma va tenuto conto che la necessaria segretezza di un’attività di questo tipo non rende semplici le verifiche e comunque anche aiutare o salvare solo alcune persone è un fatto rilevante e meritevole di ricordo, di riconoscimento e di apprezzamento.

(L'Unione Informa 26 giugno 2013 e Portale Moked.it)

Leggi l'articolo sul portale Moked

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Gino Bartali proclamato Giusto tra le Nazioni

Gino Bartali è stato proclamato Giusto tra le Nazioni. “Bartali è stato un campione immenso, sui pedali e nella vita. Il riconoscimento dello Yad Vashem, che lo ha inserito oggi nel registro dei Giusti tra le Nazioni, è il giusto premio per una vicenda umana esemplare”, ha affermato Guido Vitale, direttore della redazione di Pagine Ebraiche, il mensile dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane protagonista di numerose rivelazioni inedite sul coraggio del grande ciclista toscano durante il nazifascismo. A partire dalla testimonianza di Giorgio Goldenberg, il piccolo ebreo fiumano che ad Adam Smulevich raccontò di essere stato nascosto in un appartamento di proprietà del campionissimo in via del Bandino. “Sono vivo perché Bartali ci nascose in cantina”, spiegò allora Goldenberg, 81 anni, oggi residente in Israele a Kfar Saba.
Oggi, dopo una lunga volata, l'annuncio più atteso. Una notizia che sta suscitando emozione in Italia e in tutto il mondo. “Finalmente!”, commenta commosso Andrea Bartali, figlio del campionissimo. Una soddisfazione che è anche di Sara Funaro, psicologa, promotrice del primo appello per la ricerca di nuove testimonianze pubblicata sul giornale dell'ebraismo italiano. “La decisione di Yad Vashem di dichiarare Gino Bartali Giusto tra le Nazioni – ha dichiarato il sindaco di Firenze, Matteo Renzi – è una scelta che commuove Firenze, è il più bel regalo alla città ed il modo più serio di dare un senso ai Mondiali di ciclismo".

(Notizie tratte da L'Unione informa, 23 settembre 2013)

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Storie - Giuseppe Bolgia e l'Angelo del Tiburtino

di Mario Avagliano

Quando David Bidussa, nel suo acuto saggio Dopo l’ultimo testimone, s’interrogò su quale sarebbe stato il futuro della Memoria dopo la scomparsa di chi aveva vissuto in prima persona la Shoah, la Resistenza, il fascismo, l’occupazione tedesca e la seconda guerra mondiale, si riferiva certamente anche ai loro figli.Anche a me è capitato, in giro per l’Italia a parlare di questi temi, di conoscere di frequente figli di deportati, di perseguitati politici e razziali, di partigiani, di internati militari, che hanno raccolto l’eredità dei genitori, con passione e coraggio civile.
Purtroppo il tempo passa e anche i figli cominciano a scomparire. È il caso di Giuseppe Bolgia, morto ieri a Roma, a pochi giorni dalla cerimonia di ricollocamento presso la Stazione Tiburtina della lapide in ricordo del padre, la medaglia d’oro al merito civile Michele Bolgia, in programma il 16 ottobre alle ore 12, presso il binario 1.

La storia di Giuseppe è drammatica. Appena dodicenne, aveva perso la mamma, durante i bombardamenti alleati del 19 luglio 1943. Dopo l’armistizio, il padre Michele, ferroviere, decise di non potere essere testimone inerte del delitto della deportazione di migliaia di persone, che partivano dalla Stazione Tiburtina per essere avviati ai campi di lavoro e di sterminio.
Così, in collaborazione con la formazione partigiana della Guardia di Finanza, in più occasioni riuscì ad aprire i portelloni dei carri ferroviari, togliendo il piombo dai vagoni sigillati e salvando molte persone dalla deportazione. Fu catturato su delazione di fascisti e fu ucciso dai nazisti alle Fosse Ardeatine. La sua vicenda è stata ricostruita di recente da Gerardo Severino nel libro L’angelo del Tiburtino.
Giuseppe si è battuto in questi anni affinché la memoria di quei fatti non si spegnesse, partecipando a tutte le commemorazioni e non smettendo mai di raccontare la sua storia nelle scuole e nelle piazze. Anche lui era un Testimone. Il suo impegno e gli atti di eroismo del padre saranno ricordati il 16 ottobre, alle ore 17, all’Isola Tiberina, presso l’Ospedale Fatebenefratelli.

(L'Unione Informa e moked.it dell'8 ottobre 2013)

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Coniugi Aldrovandi e Mazzanti nominati Giusti tra le Nazioni

di Rossella Tercatin

Celebrare la semplicità di gesti straordinari, e la naturalezza di scelte coraggiose. Tanti sorrisi e tanta commozione a Milano nella sala Jarach del Tempio centrale, per la solenne cerimonia di consegna della Medaglia di Giusti tra le Nazioni ai coniugi Giulia e Antonio Aldrovandi e Rachele e Armando Mazzanti che negli anni bui dell’occupazione nazista rischiarono la propria vita per salvare la famiglia Weisz, avvisandola dei pericoli, e impegnandosi per dare un rifugio ai due bambini, Piero e Liana, di otto e cinque anni, che per un anno abitarono insieme alla famiglia Aldrovandi in un paesino sul Lago D’Orta, fatti passare come figli di un fratello residente in una città già occupata dagli Alleati.
Oggi la loro generosità è stata ufficialmente riconosciuta dallo Yad Vashem di Gerusalemme, e le medaglie affidate ai figli di Giulia e Antonio, Giuseppina e Sandro, all’epoca due ragazzini di 14 e 11 anni, che con i piccoli Weisz svilupparono un’amicizia profonda che dura ancora oggi, e a uno dei nipoti di Rachele e Armando, Davide, alla presenza di tanti altri parenti e amici delle due famiglie di tre diverse generazioni. Alla cerimonia hanno preso parte il presidente della Comunità di Milano Walker Meghnagu e il rabbino capo Alfonso Arbib, il giornalista Gad Lerner e l’addetta dell’Ambasciata d’Israele Sara Gilad, oltre ai due protagonisti della storia, i salvati, Liana e Piero, che hanno condiviso con il pubblico i ricordi “di quell’anno strano in cui noi bambini di città, ci ritrovammo a vivere in campagna, circondati da creature strane come i conigli, con una famiglia che non era la nostra, eppure ci ha fatto sempre sentire come a casa” ha sottolineato Piero.
“Non esiste un riconoscimento nel mondo in cui viviamo all’altezza di quello che hanno fatto i signori Aldrovandi e Mazzanti. Salvare bambini, vite umane. Non per ricevere una ricompensa, ma solo per fare la cosa giusta da fare. È qualcosa di straordinario” ha dichiarato Meghnagi. “Nessuna epoca e nessuna società è immune dal rischio che per colpa dell’indifferenza accadano nuove ingiustizie. Penso a quello che è successo nei nostri mari, ma anche alla notizia di una ragazzina di 15 anni di etnia Rom prelevata dal pullman della sua gita scolastica per essere espulsa insieme alla famiglia – ha ricordato Gad Lerner – Credo che riconoscere oggi i Giusti tra le Nazioni serva anche a questo”. “Fare qualcosa di contrario alla legge, per obbedire a un imperativo morale superiore non è affatto facile – ha evidenziato rav Arbib – Non solo perché allora il prezzo che si rischiava di pagare era la vita, ma anche perché voleva dire non solo pensare controcorrente, ma anche scegliere di agire, senza farsi bloccare da dubbi o tormenti. Per questo dobbiamo essere infinitamente grati a persone come i coniugi Aldrovandi e Mazzanti”.
A consegnare le medaglie per l’ambasciata d’Israele è stata Sara Gilad. Tutto intorno i figli, nipoti e pronipoti di quegli eroi della quotidianità, capaci di compiere qualcosa di straordinario nel modo più normale possibile. Nuove generazioni pronte a prendere l’impegno di continuare a ricordare e trasmettere il messaggio di giustizia. Per non dimenticare e per mantenere vivi non solo la memoria, ma soprattutto il significato delle gesta dei propri nonni.

(L'Unione Informa, 17 ottobre 2013)

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