Filippo Palieri, il commissario nell’inferno di Wietzendorf

di Mario Avagliano

 

Siamo abituati a pensare al campo di Wietzendorf come un Offizierslager per ufficiali. Vero. Vi passarono lunghi mesi di prigionia internati militari graduati del calibro di Giovannino Guareschi, Alessandro Natta e Gianrico Tedeschi, solo per fare qualche nome. Ma in realtà nell’Oflag 83 non vi furono soltanto militari. Vi venne deportato anche il commissario di pubblica sicurezza Filippo Palieri, medaglia d’oro al merito civile nel 2004.

La storia di Palieri è singolare. Pugliese, nato a Cerignola il 22 maggio del 1911, giovane dal bel portamento, un po’ stempiato, occhiali rotondi, fronte alta, di profonda fede religiosa, era alla Questura di Rieti dal 1935. Sposato con Giuliana Annesi, poetessa e letterata, discendente di un’antica famiglia aristocratica, aveva tre figli: Rodolfo, Antonello e Alba Maria. Nominato capo di gabinetto, dopo l’8 settembre 1943 – complice l’assenza per malattia del Questore Solimando – si era trovato di fatto a reggere la Questura e a dover far fronte alle richieste pressanti dei tedeschi, che volevano eseguire rastrellamenti di lavoratori specializzati per inviarli in Germania e chiedevano notizie dei giovani renitenti alla leva.

Filippo, come racconta il libro Oltre il Lager. Filippo Palieri un eroe cristiano nell’inferno di Wietzendorf, pubblicato nel 2005, non collabora con i nazisti, anzi fin dall’inizio dell’occupazione, assieme al capo del servizio politico Salvatore Poti, tenta di sabotare i disegni dei tedeschi, nascondendo gli elenchi di circa 300 artigiani, tecnici, autisti e operai specializzati di Rieti destinati ad essere inviati al lavoro obbligatorio nel Reich al servizio della Wehrmacht e avvertendo i concittadini del pericolo che corrono. Ma il suo doppio gioco viene scoperto e così la mattina del 4 ottobre del 1943, nonostante sia a casa a letto con la febbre, su ordine del comandante delle truppe germaniche, il Feldmaresciallo Mayer, viene arrestato per «mancata collaborazione» insieme a Poti e a sei ufficiali reatini.

Da questo momento in poi Filippo Palieri, nonostante sia un civile e non un ufficiale, non viene destinato a un lager per deportati politici ma segue la stessa sorte degli internati militari, i cosiddetti Imi. La prima tappa è il campo polacco di Luckenwalden, cui seguono Benjaminow, Bremenworde-Sandbostel e infine Wietzendorf. Tappe di un Calvario, come recita il titolo del libro di memorie di don Luigi Pasa, che fu suo compagno di prigionia. Dai lager Filippo scrive varie lettere alle famiglie sui moduli prestampati dei prigionieri, al pari degli internati bluffando sulle sue reali condizioni di salute, sull’alimentazione e sulla temperatura dei luoghi, per non far preoccupare i familiari, tanto che la moglie Giuliana, che qualcosa sospetta, in una delle risposte gli dice: «Filippo, amore mio, se sapessi come apprezzo la generosità che hai dimostrato nel non lagnarti di nulla!».

Anche a lui, benché sia un civile, vengono fatte richieste di adesione. Ma non cede mai, neppure quando la moglie, nella prospettiva di un rimpatrio anticipato, gli scrive: «non si può far niente senza la tua adesione». Lui replica fermo: «il prezzo è troppo alto per me».

A Wietzendorf, Palieri il 3 aprile 1945 nel suo diario, che giungerà in Italia dopo la guerra, portato alla famiglia da un internato, scrive profeticamente: «Ho avuto il sogno più completo della mia prigionia. Mia madre di cui ho toccato la mano con tanta verosimiglianza che quando mi sono destato ho fatto fatica a comprendere che era un sogno. Mio padre, di cui nella camera accanto sentivo il solito canticchiare. Mia moglie. Speriamo che ciò sia presagio della fine imminente come i più recenti avvenimenti danno presumere».

Filippo però è allo stremo delle forze. Con la febbre alta, come lui stesso annota, è stato costretto fra il 31 gennaio e il 1° febbraio a percorrere a piedi dodici chilometri sul ghiaccio, ad una temperatura di diversi gradi sotto lo zero, da Sandbostel all’attuale campo, non ottenendo come richiesto il trasporto su carro. Successivamente, ricoverato in infermeria, è stato dimesso il 2 aprile ancora malato, costretto ai lunghi appelli al freddo e alle docce, con la solita sbobba senza sostanze come unica alimentazione.

E così il 13 aprile, verso le 11 di mattina, il commissario esala l’ultimo respiro, La fame, gli stenti, la crudeltà tedesca e la mancanza di cure lo hanno ucciso. Don Luigi Pasa nel suo libro racconta la scomparsa dell’amico avvenuta proprio alla vigilia della liberazione, ricordando che gli parlava sempre della moglie e dei tre figli, «concludendo invariabilmente: “Non vedrò più la mia famiglia!”».

Appena tre giorni dopo, il 16 aprile, il campo di Wietzendorf, dove sono stati concentrati la gran parte degli ufficiali, viene liberato. Il comandante italiano Pietro Testa alle 17.31 emana un ordine del giorno che molti annotano nei propri diari:

Ufficiali, sottufficiali, soldati del campo 83 di Wietzendorf: Siamo liberi! Le sofferenze di 19 mesi di un internamento peggiore di mille prigioni sono finite. Abbiamo resistito nel nome del Re e della Patria. Siamo degni di ricostruire. Ufficiali, Sottufficiali, soldati italiani! Ricordiamo i morti, morti di stenti ma fieri nelle facce sparute, sotto gli abiti a brandelli, con una fede inchiodata alta come una bandiera. Salutiamo la Patria che risorge, che noi dobbiamo far risorgere. Viva il Re W l’Italia W le Nazioni Alleate.

Purtroppo Filippo Palieri è morto, non può festeggiare assieme ai suoi compagni. Anzi, le fasi concitate della liberazione ritardano anche la sua sepoltura, in programma il 15 ma rimandata al tardo pomeriggio del 16, nel bosco all’interno del campo, proprio mentre arrivano gli inglesi, così che tra «baci, abbracci, strette di mani, sorrisi, auguri formulati con la gioia sulle labbra», come annota quel giorno Giuseppe Lidio Lalli, in «un tripudio generale che è divenuto emozionante al momento dell’alza-bandiera, accompagnato dal Coro del Nabucco: “Oh mia Patria sì bella e perduta”», «nessuno – scrive don Pasa – pensò più al funerale di quel povero Palieri». La funzione religiosa viene celebrata la mattina dopo, alle 9.30, presenti tutti gli ufficiali e soldati del campo oltre a una rappresentanza francese e inglese. Dopo la preghiera e il ricordo di don Pasa, interviene il comandante del campo, il colonnello Pietro Testa, che – ricorda sempre il cappellano - «disse, deponendo la bandiera sulla cassa: “I tedeschi ci avevano negata la bandiera, la nostra bandiera: tu sei il primo che viene avvolto liberamente nel tricolore!»

Solo nel 1970 la famiglia otterrà il trasferimento del feretro al cimitero di Allumiere, in provincia di Roma, dove oggi sorge un monumento funerario alle memoria del coraggioso commissario, deportato per essersi opposto alla barbarie nazifascista e capace di dire «no» fino alla fine, a costo della sua vita.

("Rassegna", ANRP, n. 1-2, gennaio-febbraio 2020)

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"Una Resistenza senz'armi" vissuta dai prigionieri IMI. Intervista a Mario Avagliano del quotidiano L'Adige

di Paolo Campostrini

Orazio Leonardi lavorava nella sartoria del papà, in piazza Vittoria. Era salito a Bolzano da Padova, con i suoi. Succedeva a tanti italiani delle "vecchie provine intorno al '33. Un negozio avviato, nel centro nuovo. Poi, nell'estate del'43, a 19 anni, arriva la lettera di chiamata per il servizio militare. Mesi complicati per tutti, quelli. Il 25 luglio Mussolini era stato deposto, il re e Badoglio avevano detto che la guerra doveva continuare ma intanto preparavano l'armistizio dell'8 settembre. 119 Orazio viene catturato dai tedeschi. Seguirà la sorte di tanti suoi commilitoni. L'arresto in caserma, gli ufficiali lasciati senza ordini che non sanno come reagire, lui e centinaia di altri militari ammassati allo stadio Druso prima di essere avviati a Standbostel, un lager in Germania. Lì, diventerà un IMI, un "internato militare italiano". Passano settimane di ansia sospesa. Che ci faranno? Come verremo trattati? Perchè la loro posizione è ambigua. Prima alleati ed ora? Prigionieri di guerra in una guerra coi tedeschi mai combattuta? I tedeschi progettano di arruolare i meno renitenti nelle "Ss". Poi, salgono al campo gli emissari della neonata Rsi, la Repubblica sociale guidata da un Mussolini già stanco e forse disilluso dopo essere stato liberato dai tedeschi sul Gran Sasso che vogliono lui per creare uno stato fantoccio che continui a supportarli nel conflitto. I repubblichini hanno un compito: arruolare più soldati possibile. Certo, sono tanti gli internati. Oltre 600mila, un esercito. Se aderissero, la guerra potrebbe continuare ancora a lungo, nel Nord Italia. Li chiamano nei cortili davanti alle baracche, offrono loro un salario, una divisa, riconoscimenti e aiuti alle famiglie: "Chi vuole tomare a combattere per l'onore e per l'Italia finalmente libera dai Savoia faccia un passo avanti!". Aspettano. Aspetteranno a lungo. Solo in pochi lo fanno, quel passo. Neppure Orazio Leonardi lo farà. Verrà sbattuto al lavoro coatto. I fascisti li chiameranno "imboscati". Ma quei soldati sanno cosa li attende: percosse, violenze, fame. Ma insistono nel rifiuto. Saranno considerati nemici. Orazio tornerà a Bolzano e sarà insignito di una medaglia d'onore dal Quirinale. La conserverà per tutta la vita.

Ma tanti non lo faranno, quel ritorno a casa. 50mila IMI morti per fame, percosse e malattie, ecco l'entità del sacrificio. Resisteranno. Oggi, quel loro gesto, il passo non fatto, è finalmente considerato uno dei primi episodi resistenziali. Sarà, la loro, "La Resistenza senza armi'. Oggi è anche il titolo di un libro di Mario Avagliano, che lo ha scritto in collaborazione con Marco Palmieri. Avagliano è uno specialista nelle ricerche sul fascismo e la seconda guerra mondiale, è stato vicepresidente dell'Anpi laziale, membro dell'Irsifar, l'Istituto per la storia del fascismo edella resistenza. Ha scritto una infinità di saggi. Guido Margheri lo ha invitato a Bolzano nei giorni anniversari di quell'8 e 9 settembre del '43, pure nel ricordo di Orazio Leonardi. Sarà venerdì alla biblioteca Civica ore 18, in dialogo con Maurizio Ferrandi) in un evento collegato a Bolzano città della Memoria, dal titolo, appunto "Resistenza senz'armi'.

Mario Avagliano, a lungo quel rifiuto dei 600mila nei Lager non è stato considerato resistenza.

"Molto a lungo. Si è dovuto attendere gli anni Novanta".

Le ragioni?

"Tante. Innanzitutto il clima di guerra fredda che aveva avvolto l'Europa dopo la guerra. Come per l'armadio della vergogna, quei tanti dossier che documentavano le stragi dei tedeschi in Italia, anche la storia degli internati era stata rimossa ' .

Magari per ragioni opposte?

"Ciascuna parte politica difendeva le sue posizioni. La contrapposizione ideologica tagliava l'Europa e l'Italia in due. La sinistra, ad esempio, si voleva fosse l'unica protagonista della resistenza armata, quella delle montagne, quella avvenuta in Italia tra il '43 e il '45 fino alla liberazione".

Ma, in realtà, neppure quella fu combattuta in esclusiva, no?

"Certamente. C'erano non solo comunisti ma liberali, cattolici, monarchici badogliani, repubblicani. Anch'io ho scritto del sacrificio di Montezemolo, un nobile sabaudo piemontese che combatté i tedeschi e venne ucciso. La sinistra si era intestata la resistenza e divenne difficile valutare quando accadde allora tra i prigionieri italiani in Germania".

Cosa avevano gli IMI di così difficile da valutare?

"Erano, all'inizio, apolitici. Ma il loro gesto fu importante proprio ai fini strategici, come contributo alla guerra anche degli alleati".

In che senso?

"Erano quasi 650mila. Avessero aderito alla Rsi, non dico che le sorti della guerra sarebbero cambiate, ma un tale esercito al fronte avrebbe potuto far proseguire la guerra ancora per mesi. O anni. E provocare altri lutti e stragi. La stessa liberazione sarebbe stata molto più lenta".

Ma il loro peso fu solo militare?

"Assolutamente no. Fu un segno ideale, una frattura col passato dell'Italia fascista".

Cioè, hanno detto no pur provenendo da una cultura e da una istruzione che avrebbe dovuto farli scegliere altrimenti?

"Era una generazione cresciuta a libro e moschetto. Fin da piccoli per loro esisteva solo Mussolini e il fascismo. Non avevano mai sentito nominare gli altri partiti".

E dunque con quali motivazioni rifiutarono?

"Fu una scelta molto complessa proprio per l'assenza di un apparato ideologico diverso da quel - lo fascista. Ciò nonostante non fecero un passo in avanti".

Cosa non li fece muovere e non aderire alla Rsi?

"Molti per lealtà al giuramento fatto al re. Non lo avevano prestato a Mussolini o al partito. E questo interessò in particolare moltissimi ufficiali. Anche giovanissimi. La gran massa disse no perché rifiutò la guerra. Già dopo la campagna di Russia migliaia di soldati avevano verificato la follia di quel conflitto. Non c'erano ragioni nazionali, non c'era spirito risorgimentale in quelle invasioni di popoli stranieri che non ci minacciavano".

C'era pure del livore nei confronti dei tedeschi?

"Anche. Gli alpini avevano visto il loro comportamento in Russia, come abbandonavano i soldati italiani feriti, le violenze sui russi, le uccisioni degli ebrei. Lo si verificherà nella memorialistica, poi".

E dunque perché oggi consideriamo quella dei 600 mila Resistenza a tutti gli effetti?

"Perché il rifiuto della Rsi divenne a poco a poco consapevolezza antifascista. Nelle baracche ci si parlava, si scrivevano testi, si provava a collegarsi. Alessandro Natta, che fu un IMI prima di diventare dirigente del Pci, parlò poi di quei mesi come di una "scuola di democrazia".

Gli emissari della Repubblica sociale continuavano ad arrivare per chiedere adesioni?

"Fino alla fine".

Contando evidentemente sulle sofferenze che stavano aumentando per i prigionieri?

"Soprattutto su quello. Sul cedimento fisico e psicologico. Ma ormai il no divenne generale. Ci furono assemblee, discussioni. Io ritengo che quello degli IMI, dei soldati e ufficiali italiani prigionieri possa essere considerato a pieno titolo il primo referendum democratico".

Intende un referendum prima di quello istituzionale?

"Nei fatti si. Compiuto in segreto, E anche nella coscienza di ognuno".

Nonostante i morti?

"Furono tantissimi. Ce lo siamo scordato per troppo tempo. Furono 50mila, in pratica oltre il 10% degli IMI non tornò".

Altro che imboscati...

"Appunto, altro che".

Ma perché, al di là del tardivo riconoscimento politico e storico del loro sacrificio da considerarsi come resistenziale, tanti di loro non parlarono?

"C'era amarezza. Voglia di dimenticare. E presa d'atto che anche il Paese voleva evidentemente fare altrettanto in quegli anni del dopoguerra. A volte neppure i famigliari vennero messi a conoscenza di quanto accaduto ai prigionieri. Oggi proviamo a porre rimedio" .

(L'Adige, 9 settembre 2022)

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Lo Stato riconosce lo straordinario interesse storico della Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria di Barletta

Dopo oltre trent'anni di ricerca condotti in tutto il mondo dal pianista pugliese Francesco Lotoro presso archivi, biblioteche e collezioni private allo scopo di recuperare l’intero corpus musicale creato in tutti i siti di prigionia, deportazione e cattività civile e militare tra il 1933 (anno dell’apertura del Lager di Dachau) e il 1953 (morte di Stalin e graduale liberazione degli ultimi prigionieri di guerra detenuti nei Gulag sovietici), arriva un importante riconoscimento da parte dello Stato italiano che attesta ufficialmente il valore storico-culturale dell'Archivio e della Biblioteca costituiti dal musicista e oggi consegnate alla Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria di Barletta .
Trattasi di un vasto patrimonio di oltre 8.000 partiture di ogni genere musicale, 12.000 documenti concernenti la produzione musicale nei Campi e 3.000 pubblicazioni sull'argomento che a partire dal 31 marzo scorso, con apposito Decreto della Soprintendenza Archivistica e Bibliografica della Puglia, è stato riconosciuto di “interesse storico particolarmente importante” e, pertanto, sottoposto a vincolo ai sensi del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni recante il “Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137”.
Come si legge nelle motivazioni del provvedimento, il riconoscimento si fonda sul fatto che l'Archivio e la Biblioteca assolvono l’obiettivo primario posto sin dalla loro costiuzione “che non è solo quello di conservare ed archiviare” ma, attraverso lo studio dei materiali musicali, di mettere le partiture nelle condizioni di essere eseguite “con lo scopo di favorire la conoscenza, promozione, valorizzazione, diffusione della musica concentrazionaria”.
Per tali motivi, sottolinea il decreto, “essi rappresentano un patrimonio di valore unico ed inestimabile a livello internazionale per la ricostruzione delle vicende inerenti la musica concentrazionaria”; la decisione della Soprintendenza, facente capo al Ministero della Cultura, è stata adottata sulla base di una accurata relazione tecnico-scientifica redatta da tre esperti previo sopralluogo a Barletta nella sede della Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, ente no-profit che Lotoro con un ristretto gruppo di soci (tra cui l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) ha costituito nel 2014 e che oggi è promotore del grande progetto di realizzazione di una Cittadella della Musica Concentrazionaria che sorgerà su una vasta area di archeologia industriale appositamente recuperata, a totale finanziamento pubblico.
La Cittadela sarà costituita da Campus, Aule e Aula Magna, Bibliomediateca delle Scienze Musicali, Thesaurus Memoriae Museum, Teatro Nuovi Cantieri, Polo Nazionale della Musica Ebraica, Libreria del Novecento, Guest Room, Centro ricerche del Thesaurus Musicae Concentrationariae, Laboratori di restauro del materiale cartaceo e videofonografico, Cafè Letterario, Ristorante; un patrimonio universale in un bellissimo progetto di riqualificazione dell’area della Distilleria destinato a diventare Hub mondiale della Musica del Novecento.
Il decreto della Soprintendenza Archivistica e Bibliografica della Puglia dichiara che “l’Archivio e la Biblioteca dell’Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria [...] per la rilevanza delle fonti documentarie conservate, per le vicende storiche a cui si riferiscono, possono considerarsi facenti parte del patrimonio culturale universale dell’uomo”.
A margine del decreto di tutela, il pianista Lotoro ha dichiarato: “il vincolo posto dalla Soprintendenza è il più importante traguardo raggiunto sinora dalla Fondazione ma è un risultato che tutti possono orgogliosamente affermare di aver raggiunto; la musica concentrazionaria è un Patrimonio del genere umano e ogni step raggiunto da tale ricerca è un passo in avanti di uomini e donne che credono tenacemente in un mondo migliore. Mai come in questi momenti abbiamo bisogno di grandi traguardi artistici, culturali e umani. Siamo a un passo dall’obiettivo finale, la Cittadella. Confidiamo nel sostegno di tutte le Istituzioni”.
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I prigionieri che dissero no a Salò. «Inutilmente Mussolini insistette»

di Aldo Cazzullo

«Noi non vogliamo restare qui, come qualcuno insinua, per vigliaccheria, quasi imboscati. Siamo tutti ex combattenti, molti decorati, molti volontari. Noi non siamo degli attendisti, come qualcuno ci chiama. Non è per calcolo né per capriccio né per puntiglio, ma solo per coerenza, per un principio di dignità, di onore, di giustizia. Noi siamo uomini, vogliamo essere uomini».

È il 5 aprile del 1944. Sono trascorsi sette mesi dalla sera di settembre in cui la radio ha annunciato l’armistizio e l’esercito italiano si è sfaldato. Per centinaia di migliaia di militari italiani catturati e deportati in Germania è stato un inverno durissimo, di prigionia e lavoro coatto, poiché hanno scelto di non continuare a combattere al fianco degli ex alleati e di non aderire alla Rsi. Uno di loro è il capitano Giuseppe De Toni, nato a Modena, classe 1907, comandante italiano del campo di Hammerstein, che scrive clandestinamente questa lunga e appassionata lettera al fratello Nando, che lo aveva invitato ad optare per uscire dal lager.

  La copertina de «I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi 1943-1945» (il Mulino, pp. 457, euro 26)

 

La storia degli oltre seicentomila internati militari deportati nei lager nazisti, gli Imi, che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 rifiutarono di continuare a combattere con la Germania nazista e di aderire alla Repubblica sociale, è una pagina assai rilevante della partecipazione italiana alla Seconda guerra mondiale e della Resistenza, ma è stata a lungo trascurata. Nel 2009 ad aprire la pista a questo percorso fu l’antologia delle lettere e dei diari degli Imi curata da Mario Avagliano e Marco Palmieri. A undici anni di distanza arriva in libreria il nuovo saggio dei due giornalisti e studiosi, I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi 1943-1945 (il Mulino).

In questo libro Avagliano e Palmieri, con il rigore storico che li contraddistingue e un sapiente uso della diaristica e della corrispondenza coeva, per lo più inedita o scarsamente conosciuta, e di altri documenti come i rapporti della censura, le relazioni delle autorità italiane e tedesche, i volantini e i manifesti di propaganda tedesca o della Rsi, conducono il lettore in un appassionante viaggio nel mondo degli Imi, che ci fa scoprire aspetti nuovi o poco noti, dal loro bagaglio di umanità alla capacità e al coraggio di resistere a tutte le avversità, raccontando attraverso le storie individuali la storia collettiva degli internati militari italiani.

I nazisti vietarono severamente agli Imi di tenere diari. «Premetto — avverte infatti un tenente, Giorgio Marras, alla data del 22 gennaio 1944 — che se mi trovano questo diario mi fucilano». Ma nonostante il pericolo la pratica dei diari è abbastanza diffusa, perché «raccontare — come annota Lino Monchieri il 3 ottobre 1943, subito dopo la cattura — è mio dovere. Qualcuno dovrà pure sapere cosa succedeva qui…», anche se «queste disordinate note — è la consapevolezza del capitano Guido Baglioni, il 12 luglio 1944 — non potranno mai rendere i giorni di disperato tormento, di sconforto, di fame e abbrutimento superati più per miracolo che per forza di volontà».

Il viaggio nella memoria si snoda in quindici tappe, quanti sono i capitoli, accompagnate dalle parole vive dei protagonisti dell’epoca (non solo gli internati ma anche i loro familiari e i loro oppressori). La vicenda degli Imi è analizzata nel suo complesso, dalla reazione all’annuncio dell’armistizio alla cattura da parte dei tedeschi, dal viaggio in tradotta verso i lager alle sofferenze patite nei campi e al lavoro coatto, fino alla liberazione e al ritorno in patria. Un’attenzione particolare è stata rivolta alle motivazioni della scelta di fronte alle offerte di adesione alle SS da parte dei tedeschi e a quelle rivolte ai militari italiani dagli emissari della Rsi dopo il ritorno di Mussolini.

Il libro scandaglia tutti gli aspetti della vita quotidiana degli Imi, caratterizzata dall’ossessione della fame, ma anche dagli sforzi compiuti per difendere la loro dignità di soldati e di uomini nell’inferno dei campi, come la fede religiosa, le iniziative culturali, gli espedienti per ricevere e diffondere informazioni (i giornali parlati e le radio clandestine), il rapporto con la popolazione civile, i contatti con i prigionieri e i deportati di altre nazioni, le storie d’amore e di sesso, che in alcuni casi dopo la liberazione si tradussero in matrimoni e in figli (qualcuno tornò a casa con la moglie o la fidanzata tedesca o polacca).

Vengono approfonditi anche profili nuovi o poco conosciuti, come i campi di punizione, le violenze dei carcerieri, le fughe, la collaborazione con la resistenza locale, i casi di resistenza armata, la deportazione dei carabinieri, la seconda prigionia subita dagli Imi liberati da parte dei russi di Stalin o degli jugoslavi di Tito. Gli ultimi due capitoli riguardano la liberazione, il rientro in patria e la difficile reintegrazione degli ex internati.

La vicenda degli Imi, del resto, è stata per decenni pressoché dimenticata, per diversi motivi: il desiderio del Paese di voltare pagina e non sentir più parlare della guerra e delle responsabilità del fascismo; la loro resistenza in nome di un re e di una dinastia andati via dall’Italia; la scelta del silenzio da parte degli stessi reduci, delusi dal mancato riconoscimento della propria esperienza come contributo alla Resistenza; il fardello di aver combattuto la guerra voluta dal fascismo e la memoria della rovinosa dissoluzione dell’esercito all’indomani dell’armistizio, in un clima di tutti a casa. Basti dire che nel 1950, e fino al 1977, agli Imi venne negata la concessione della qualifica di Volontario della libertà perché «questo ministero (della Difesa) è del parere che sia doveroso mantenere una differenziazione fra i civili che volontariamente presero parte all’attività partigiana (...) e i militari che negando la propria collaborazione ai nazifascisti e subendo l’internamento si attennero semplicemente ai doveri derivanti dal proprio stato», senza il «presupposto della volontaria partecipazione alle ostilità contro i nazifascisti».

Eppure nell’esercito degli Imi si ritrovano numerosi personaggi che raggiungeranno posizioni di spicco nella cultura, nell’economia, nello spettacolo e nella politica del dopoguerra, come Alessandro Natta, Vittorio Emanuele Giuntella, Giovanni Ansaldo, Oreste Del Buono, Mario Rigoni Stern, Tonino Guerra, Luciano Salce e Giovannino Guareschi, la cui foto con la matricola di Imi campeggia nella copertina del libro e che, come raccontano Avagliano e Palmieri, con la sua straordinaria verve fu uno dei protagonisti del «no» alla Rsi e della vita culturale e artistica nei lager. Altri internati saranno genitori di personaggi famosi, come l’ufficiale Ferruccio Guccini, catturato in Grecia, padre del cantautore Francesco; Carmelo Carrisi, padre del cantante Al Bano; Giuseppe Di Pietro, padre del magistrato ed ex ministro Antonio; Giovanni Carlo Rossi, padre di Vasco.

Quello che ora è stato tardivamente riconosciuto, e che dagli scritti coevi degli Imi emerge nitidamente, è che ai militari italiani disarmati e internati si deve il primo rifiuto in massa della guerra e del fascismo, con una «specie di plebiscito — come lo ha definito Vittorio Emanuele Giuntella — da parte di una generazione che non aveva mai partecipato a consultazioni elettorali», ferma restando un’aliquota non trascurabile di aderenti di cui pure bisogna tenere conto. In entrambi i casi la scelta non è necessariamente dettata da motivazioni di natura politico-ideologica, ma nel caso dei non optanti risponde in particolare a sentimenti confusi di stanchezza della guerra, sfiducia verso il regime, fedeltà alla divisa e al giuramento prestato al re, smobilitazione interiore, attendismo o mera imitazione dei compagni e dei superiori. Una scelta che gli internati pagano ad un prezzo altissimo, visto che il censimento in corso da parte dell’Anrp (Albo degli Imi caduti nei Lager nazisti 1943-1945) ha accertato al momento 50.834 caduti. Con questo libro Avagliano e Palmieri sviscerano e riempiono di senso il sacrificio di quei militari italiani, e furono la grande maggioranza, che fino alla fine decisero di dire «no», come Giovannino Guareschi indica nella dedica del volume: «Ingannato, Malmenato, Impacchettato / Internato, Malnutrito, Infamato / Invano Mi Incantarono / Inutilmente Mussolini Insistette».

Mio padre prigioniero in un lager

Era uno dei 650 mila soldati che dissero no alla Repubblica di Salò. Ora un saggio ricostruisce la storia degli internati militari in Germania
 
di Luca Bottura
 
Tra il sangue dei vinti e quello dei vincitori, che da qualche anno in Italia pare impopolare, fastidioso, quasi dovessimo vergognarci di aver mondato con l'eroismo di pochi la codardia dei molti che sostennero prima il fascismo e poi, addirittura, il nazismo, sta il sangue dei dimenticati. Appartiene agli italiani che resistettero senza armi, che scelsero la prigionia anziché fare i reggicoda alle Ss, che — nonostante fossero nati e cresciuti nel brodo di coltura della cartapesta autoritaria — non ebbero dubbi. E optarono, tra Salò e la deportazione, per l'opzione meno gravida di variabili.
Lo Stato fantoccio, la fedeltà al Reich, la cosiddetta Repubblica sociale, la parte sbagliata che per molti "italiani brava gente" è ancora quella giusta, onorevole, lasciavano più margini. C'era comunque l'occasione di menar le mani. Di mettere in pratica la ribalderia prepotente che il buffone di Predappio aveva instillato in un paio di generazioni almeno. C'era, anche, la possibilità di prendere la rincorsa per meglio nascondersi in un anfratto della Storia. Per uscirne immemori. Imboscati, millantando lealtà a un'idea. Di morte.
Alcune centinaia di migliaia di italiani, militari, soldati, decisero che fosse preferibile un viaggio verso nessun posto. Uno Stalag sparso nelle campagne della Prussia orientale. Un contesto che differiva dai lager della Shoah per un unico e decisivo particolare: l'assenza di camere a gas. Tecnicamente, Internati Militari Italiani: Imi. Nella realtà, ostaggi senza diritti. Partigiani spuri. Cancellati a lungo dalla storiografia perché non collocabili, nel mondo diviso in due dell'immediato dopoguerra. Costretti a proclamarsi anticomunisti al ritorno in patria, dopo essere stati liberati dall'Armata Rossa, pena un'ulteriore discriminazione. Sospinti in un angolo del ricordo perché poco afferibili a un lato o all'altro della Guerra Fredda. Ammutoliti.
Nel saggio di Mario Avagliano e Marco Palmieri, I militari italiani nei lager nazisti, non c'è mio padre, che era uno di loro. Stalag IIl C, Kostrzyn, all'odierno confine tra Polonia e Germania, ottanta chilometri in linea d'aria da Berlino. Ma c'è molto di lui. C'è molto di una banalità del bene, di una "cosa giusta", come dicono nella cultura di oltreoceano, fatta in modo quasi incidentale. Eppure consapevole. Ci sono le lettere, le paure, le passioni, la quotidianità dei prigionieri. C'è un coraggio anti-manzoniano, quello che in certi anfratti dell'esistenza ci si dà eccome, anche se non lo si avrebbe. Ci sono gli errori grammaticali, c'è il racconto casuale di chi si ritrova la caserma accerchiata dai tedeschi e scrive alla fidanzata che andrà tutto bene, che comunque con l'altra era solo amicizia, che pub spiegare, e poi chiude come in un bollettino della vittoria: "Viva il Re, viva Badoglio, abbasso i fascisti".
Ci siamo noi e c'è la nostra storia piccola, ci sono gli occhi di un Paese intero che per vent'anni li aveva girati dall'altra parte. Esistenze che si somigliano e differiscono, ognuna con un rimbalzo di afflizione o speranza. L'ordine del giorno Grandi, le caserme senza ordine alcuno, le squadracce che si riformano e cercano di armarsi assediando soldati senza più un referente, I'S settembre del 1943, colonnelli che vendono i loro uomini ai tedeschi per qualche stella in più da far brillare nel cielo di Salò, l'offerta primigenia aggregarsi direttamente all'esercito di Hitler — e l'altra, quella repubblichina. Il vagone piombato. Il lavoro coatto. La mancia come mercede della schiavitù. Le lettere bugiarde verso casa ("Sto bene") e l'orrore di tutti i giorni. I canali pieni di cadaveri. E, anche, altro incredibile cimelio che possiedo personalmente, le cartoline illustrate l'esterno del campo, un tizio in divisa davanti alla guardiola, la bandiera con la croce uncinata. Saluti dal baratro.
Di molti saggi, per nobilitarli, si dice che sembrano romanzi. Non è quasi mai vero. Questo è uno dei rari casi. Nell'alternarsi dei racconti II libro I militari italiani nei lager nazisti di Mario Avagliano e Marco Palmieri edito da il Mulino (pagg.456, euro 26) mancano i contorni stentorei e, a loro modo, bellissimi, che si ritrovano nelle lettere dei resistenti condannati a morte, o sui muri della prigione di via Tasso, a Roma, scolpiti sul muro con le unghie della disperazione. Non c'è il Disegno percepito che comincia con Hannah Arendt e arriva a Primo Levi. Manca l'Orrore. Ma anche senza le maiuscole, anche soltanto unendo i puntini di ogni singola vita a rischio, si riscrive un percorso di dignità, parente minore ma virtuoso dei racconti che meglio conosciamo. Se il diario di Anne Frank è diventato patrimonio di tanti, è anche perla normalità cogente di un'adolescente che scopriva l'amore. Ed è questo antidoto, il trasporto, il sentimento, il capitolo che meglio racconta la sopravvivenza, quella che Andrea Aloi definì Resistenza Umana, un motore inestinguibile che ci spinge avanti barcollanti. Dentro o fuori da una tragedia.
È un libro bellissimo, necessario. Non tanto e non solo per quel lampo di lucore che irradia sulle vite di chi — con la rotonda eccezione di Giovannino Guareschi e del suo Diario Clandestino e di pochi altri — ha in massima parte lasciato questo mondo in punta di piedi. Fin troppo a lungo misconosciuto, disconosciuto. Degnarlo di uno sguardo postumo, anche a spizzichi e bocconi, apparenta a una parcellare fiducia persino in questo presente piuttosto derelitto. Ché in quei giorni di tarda estate, incredibilmente, l'individualismo nobile fece di noi un popolo.
Troppa gente ogni giorno violenta la parola Patria. Se davvero dovessi intestarmene una — Patria, non Nazione: di quella francamente nulla mi cale — vorrei che fosse la stessa di quei giovani sperduti e spaventati. Anche di quelli che morirono di malattie e stenti. Versando, per noi, il sangue dei miti.
 
(la Repubblica, 10 febbraio 2020)
 

Morte dal cielo per gli internati e deportati

di Mario Avagliano e Marco Palmieri

Tra i crimini perpetrati dai nazisti nel corso della seconda guerra mondiale ce ne è uno che spesso viene dimenticato, ma che è costato la vita a migliaia di uomini e donne, tra lavoratori coatti, deportati civili e internati militari. Durante gli allarmi aerei, i carcerieri nazisti obbligavano i deportati e gli internati a non abbandonare il posto di lavoro, per non interrompere l’attività produttiva, oppure a non uscire dalle baracche dei campi di concentramento, che non recavano le necessarie insegne e segnalazioni per essere riconosciuti dai bombardieri. In questo modo atroce, specie negli ultimi due anni di guerra, persero la vita migliaia di persone. Solo tra gli Internati Militari Italiani, secondo una stima verosimile di Claudio Sommaruga, i bombardamenti aerei causarono circa 2.700 vittime, alle quali devono essere aggiunti migliaia di altri morti, in numero impossibile da definire con esattezza, tra “schiavi”, deportati civili e prigionieri di guerra italiani e di altre nazionalità.

Malgrado cifre così rilevanti, questo tema non è stato ancora esplorato a fondo e con sistematicità in sede di ricerca storica. Nel corso degli ultimi anni, però, il tema della massiccia campagna aerea scatenata dagli angloamericani per piegare la Germania di Hitler, prima e durante l’attacco terrestre, sta tornando al centro dell’attenzione e dell’interesse di studiosi e ricercatori. Tali studi hanno il merito di aver spostato, per la prima volta, il focus dell’analisi e della ricostruzione degli avvenimenti, dagli aspetti più propriamente militari, strategici e tecnici, a quelli relativi all’impatto sulla popolazione civile tedesca e al prezzo da essa pagato in termini di vite umane. Un prezzo senza dubbio elevatissimo, ma nell’ambito del quale non può essere dimenticato quello pagato anche da militari e civili che si trovarono in Germania per effetto della grande deportazione di uomini e donne attuata dai nazisti e che persero la vita in seguito ai comportamenti criminali dei loro carcerieri.

La campagna aerea sulla Germania.

La decisione di sottoporre la Germania ad un intensa campagna di bombardamenti aerei venne presa nel corso dell’incontro tra Churchill e Stalin nell’agosto del 1942. Tale decisione rappresentò un capitolo saliente della lunga polemica relativa all’apertura del cosiddetto “secondo fronte”: in risposta alle continue richieste di uno sbarco angloamericano nel nord Europa da parte di Stalin, infatti, in quell’incontro Churchill rispose con la promessa di uno sbarco in Africa Settentrionale entro la fine dell’anno e, appunto, un massiccio programma di bombardamenti aerei sul suolo tedesco, in vista dello sbarco in Europa rinviato all’anno successivo. Obiettivo dichiarato della campagna aerea fu da un lato di fiaccare la Germania di Hitler dal punto di vista materiale, colpendo infrastrutture, apparati industriali e produttivi, dall’altro di piegare il morale di civili e militari, nella speranza di spingere la popolazione a far mancare il proprio sostegno e consenso al regime nazista.

I primi bombardamenti inglesi di una certa entità sulla Germania risalgono alla primavera del 1940, in un momento particolarmente critico per l’Inghilterra, dopo l’occupazione tedesca della Norvegia e l’invasione della Francia. Churchill del resto era personalmente convinto che una intensa campagna di bombardamenti pesanti sulla Germania potesse rappresentare un contributo decisivo alla vittoria finale contro Hitler anche perché, in assenza di un forte esercito di terra, l’Inghilterra aveva avviato la preparazione alla guerra aerea contro la potenza continentale tedesca fin dalla metà degli anni Trenta. Fino a tutto il 1942, però, per la guerra aerea furono anni interlocutori, perché mancavano ancora quei miglioramenti organizzativi e operativi che sarebbero stati messi in atto più tardi dalla Royal Air Force, ma soprattutto perché la potenza aerea degli Alleati aumentò in maniera esponenziale solo quando gli Usa schierarono in Europa i loro bombardieri, nel corso del 1942. A questo punto la RAF si dedicò prevalentemente al bombardamento notturno delle zone industriali, mentre l’aviazione americana prese in consegna fabbriche, vie di comunicazioni, stazioni ferroviarie e depositi di carburante, colpendo durante il giorno.

Il 1943 rappresentò un momento di svolta nella strategia della guerra aerea, perché Churchill e Roosevelt si accordarono per dare priorità alla campagna aerea, in attesa dell’apertura del “secondo fronte” terrestre, ulteriormente rinviata al 1944. Verso la fine del 1943, inoltre, divenne chiaro che finché l’aviazione alleata non avesse sconfitto la Luftwaffe, lo sbarco nel nord della Francia e la successiva avanzata verso il cuore della Germania avrebbe presentato ancora troppi rischi. Così, in seguito all’intensificarsi dell’azione aerea, nel corso del 1944 l’equilibrio tra le due forze aeree cominciò a volgere in favore degli Alleati, quando i tedeschi non riuscirono più a rimpiazzare le perdite con la produzione di nuovi velivoli a causa dei danni che i bombardamenti stessi avevano provocavano all’industria  aeronautica e a quella petrolifera.

Da questo momento in poi la guerra aerea angloamericana funzionò in piena efficienza, concentrandosi pesantemente su tutte le strutture chiave dell’economia tedesca. Nel corso del 1944 venne sganciato sulla Germania la maggior parte del tonnellaggio complessivo di bombe di tutta la guerra. Anche perché, conquistato il dominio dell’aria, i bombardieri inglesi e americani poterono agire pressoché indisturbati e senza incontrare più alcuna resistenza, mentre i caccia e i cacciabombardieri, non più impegnati in compiti di scorta, poterono dedicarsi agli attacchi di precisione contro il sistema dei trasporti a terra. Quando gli angloamericani sbarcarono in Normandia, la Germania poteva contare solo su qualche centinaio di aerei funzionanti, contro gli oltre 12 mila alleati, e il suo potenziale bellico, produttivo e logistico era stato messo a dura prova da mesi e mesi di bombardamenti quotidiani.

Le ricerche recenti

Con i mezzi disponibili all’epoca, la precisione dei bombardamenti aerei era molto approssimativa e fin dai primi “esperimenti”, nelle fasi iniziali della guerra, ci si rese conto che la loro efficacia nel colpire obiettivi precisi era decisamente ridotta, specie di notte quando venivano effettuate la gran parte delle missioni per sfuggire agli sbarramenti e alla reazione della contraerea. Questo motivo indusse gli inglesi a non disdegnare la tattica dei bombardamenti a tappeto, che finirono inevitabilmente per colpire anche le città e i sobborghi urbani a ridosso delle zone industriali e delle grandi vie di comunicazione. Il prezzo pagato dai civili tedeschi fu senza dubbio alto e drammatico, con circa mezzo milione di uomini, donne e bambini rimasti uccisi sotto gli attacchi aerei e la distruzione di intere città.

Sulla campagna aerea degli angloamericani, due ricerche tradotte e pubblicate anche in italiano hanno recentemente riacceso l’attenzione di opinione pubblica e studiosi, sottolineandone e mettendone pienamente a fuoco il suo drammatico impatto sulla popolazione civile. La prima, condotta da Jörg Friedrich (La Germania Bombardata, Mondatori 2004), traccia una dettagliata mappa geografica e cronologica delle azioni dell'aviazione inglese e americana sul territorio tedesco, analizzando le armi impiegate, le strategie attuate, le zone più colpite, la dislocazione dei rifugi, le reazioni della collettività, che cosa si riuscì a salvare e cosa andò distrutto. L’altra è opera di Anthony C. Grayling (Tra le città morte. I bombardamenti sulle città tedesche: una necessità o un crimine?, Longanesi 2006) e offre un quadro altrettanto dettagliato dei luoghi colpiti e delle vittime provocate dalle esplosioni e dagli incendi.

Senza volersi addentrare nella questione “militare” riproposta in alcune di queste pagine – se i bombardamenti così massicci e indiscriminati ebbero un ruolo più o meno determinante nel decidere le sorti del conflitto o se una parte di queste vite umane avrebbero potuto esser risparmiate – sta di fatto che anche in questa fase di rinnovato interesse storico, il crimine nel crimine perpetrato dai nazisti contro deportati e internati rischia di passare sotto silenzio. Di tale crimine, del resto, praticamente non c’è traccia alcuna in quei pochi documenti “ufficiali” che oggi sono reperibili negli archivi italiani e tedeschi. Così come è particolarmente improbabile stilare un “bilancio” preciso delle vittime, distinguendo questa “voce” all’interno della tragica contabilità più generale delle vittime della barbarie nazista. Un contributo decisivo allo sforzo di ricostruzione storica, però, lo possono dare senza dubbio le memorie e i diari dell’epoca. In essi, le sirene degli allarmi aerei e le esplosioni vicine e lontane, sono annotazioni praticamente quotidiane. E con esse anche la paura, e la morte: “Una bomba mi è cascata a 50 metri da mè – scrive l’internato militare Giuseppe Marchi nel suo diario, riferendosi al bombardamento di Hagen del 2 dicembre 1944 – 70 dei miei compagni morti e le baracche tutte in fiamme, io sono rimasto coi pantaloni, e pastrano tutta l’altra roba mi era bruciata. Tremavo dalla paura, nel vedere quel macello, una gamba da una parte e un braccio da quell’altra, non ero capace di lasciarmelo passare” (Due veronesi nei lager, Istituto veronese per la storia della resistenza e dell’età contemporanea, Cierre edizioni 2001).

Un crimine nel crimine nazista

Un così alto tributo di vite umane pagato dagli internati e dai deportati civili trova spiegazione innanzitutto nel fatto che i lager dove essi erano rinchiusi non avevano alcuna segnalazione della croce rossa riconoscibile dall’alto e soprattutto erano ubicati a poca distanza dagli impianti industriali, dove i prigionieri venivano impiagati, o dai nodi stradali e ferroviari. I lager, inoltre, non avevano rifugi antiaerei e quando suonavano gli allarmi i prigionieri erano costretti a rimanere chiusi nelle baracche di legno, sotto la minaccia armata dei loro carcerieri. Frequenti furono anche i casi di uccisioni e ferimenti – senza alcuna possibilità di soccorso fino al cessato allarme – di chi non rispettava l’ordine.

I deportati e gli internati avviati al lavoro coatto, invece, spesso erano costretti a rimanere sul posto di lavoro per non interrompere l’attività produttiva anche sotto la minaccia dei bombardamenti. Una volta che i bombardieri avevano sganciato il loro carico esplosivo, invece, questi “schiavi” venivano immediatamente impegnati nello sgombero delle macerie e nelle operazioni di recupero e sepoltura delle vittime, senza alcuna protezione sanitaria. Anche laddove i rifugi esistevano, infine, erano quasi sempre riservati ai tedeschi, mentre gli IMI e i deportati potevano usufruire tutt’al più di piccole fosse con qualche asse di legno che in realtà non fornivano alcun riparo né dalle schegge, né dagli incendi. Per approfondire il tema nella maniera più dettagliata possibile, dunque, una strada importante da seguire è quella della raccolta, dell’analisi, della verifica e dell’incrocio delle informazioni contenute nelle memorie e nei diari dell’epoca, come quelli che stiamo utilizzando per scrivere una storia “dal vivo” e raccontata dai diretti protagonisti, della deportazione civile e dell’internamento militare.

("Rassegna", ANRP, n. 3-4, Anno XXIX, marzo-aprile 2007)

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Storie – Il fascista del “Il sangue dei vinti” era un delatore di ebrei

di Mario Avagliano
 
Chi conosce Daniele Biacchessi, giornalista, scrittore, vicecaporedattore di Radio 24, più volte premiato per la sua attività di reporter, sa che è anche un appassionato autore, regista e interprete di opere di teatro civile. Il suo ultimo libro, “Orazione civile per la Resistenza” (Promo Music), è una storia corale della guerra di liberazione, ripercorsa attraverso interviste, narrazioni di episodi e di luoghi della memoria.
Ma Biacchessi è anche un curioso, un cercatore di verità.
Da buon cronista, si era sempre chiesto chi fosse il fascista con le mani dietro la nuca , trascinato per le strade di Milano da alcuni partigiani armati, ritratto nella fotografia sulla copertina del saggio “Il sangue dei vinti” di Giampaolo Pansa, che a sua volta aveva tratto l’immagine dal libro dell’ex esponente della Repubblica Sociale Giorgio Pisanò, “Storia della guerra civile”.
Nella didascalia del libro di Pansa, in seconda di copertina, si parla genericamente di “fascista ucciso il 28 aprile 1945”.
Biacchessi non si è accontentato. Così è andato negli archivi dell’Istituto di Storia dell’Età Contemporanea (ISEC) di Sesto San Giovanni e si è messo alla ricerca di questa immagine.
Scartabella che scartabella, eureka!, l’ha trovata. Ed ha scoperto che si trattava di Carlo Barzaghi, l’autista di Franco Colombo, il comandante della legione autonoma mobile Ettore Muti di Milano.
Carlo Barzaghi è conosciuto come il boia del Verzeè (del Verziere), scrive Biacchessi, “responsabile di efferati crimini di guerra: la compilazione di numerosi elenchi di ebrei e oppositori poi deportati nei campi di sterminio, la fucilazione di quindici prigionieri politici (10 agosto 1944, Milano, piazzale Loreto) detenuti nel carcere di San Vittore su ordine di Walter Rauff e Theo Saevecke, funzionari della Sicherheitpolizei stanziati all’albergo Regina di Milano”.
Barzaghi non è quindi un fascista qualsiasi, un innocente ucciso nei giorni dell’aprile 1945. E’ un esponente di spicco della Repubblica di Salò e si è macchiato di vari reati.
Eppure c’è chi, anche oggi, alla vigilia della festa della Liberazione, affigge nella capitale manifesti anonimi con un verso tratta dalla canzone “La locomotiva” di Francesco Guccini: “Gli eroi sono tutti giovani e belli”, dedicandoli “Ai ragazzi di Salò”. Guccini non l’ha presa bene: “Hanno tradito il senso della mia canzone”.
A costoro andrebbe ricordata la frase di Italo Calvino: “Dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c'erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l'Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c'era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono”.
 
(L’Unione Informa, 24 aprile 2012)
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Gli ebrei italiani e quel 16 ottobre

di Mario Avagliano

Il 16 ottobre è la vera “giornata della memoria” per gli ebrei italiani. Quel tragico sabato di ottobre del 1943 vennero rastrellati nel Ghetto di Roma 1259 ebrei. Le SS di Kappler li andarono a prelevare casa per casa. Due giorni dopo 1023 di essi furono deportati nel lager di Auschwitz (compreso un bambino nato dopo l’arresto della madre). Solo 17 sopravvissero. Fu la prima e la più imponente retata dei tedeschi in Italia nei confronti degli ebrei, messa in atto con il silenzio (e la complicità) delle autorità italiane della neonata Repubblica Sociale guidata da Benito Mussolini, e segnò l’inizio di una fase ancora più violenta della persecuzione razziale nel nostro Paese.

A distanza di 56 anni, l’Italia non ha ancora fatto i conti con questo lato oscuro della sua storia. La persecuzione degli ebrei del 1938-45 è stata vista e giudicata dai più come un fatto estemporaneo, quasi un corpo estraneo, indotto dall’esterno (Hitler) nelle nostre vicende nazionali.

La verità dei fatti fu ben diversa: a partire delle infauste leggi razziali del 1938 il governo di allora e gli italiani (che, pur nell’ambito della dittatura, espressero un vasto consenso di massa al fascismo e alle sue politiche, anche di discriminazione) intrapresero autonomamente la persecuzione degli ebrei, sia pure nel quadro di un avvicinamento politico-militare oltre che ideologico con la Germania nazista, e la perseguirono con sistematicità, determinazione e - purtroppo - efficacia.

Il prezzo pagato dagli ebrei in Italia fu altissimo. E se la persecuzione delle vite umane tra la fine del 1943 e la primavera del 1945 fa parte della storia più generale della Shoah (secondo gli studi di Liliana Picciotto provocò la morte di almeno 7.241 ebrei, pari a oltre il 22% della popolazione ebraica italiana), la persecuzione dei diritti subita dagli ebrei tra il 1937-38 e il 1943, costituita di umiliazioni, separazione dagli altri, segregazione, perdita di uguaglianza, cacciata dalle scuole e dai posti di lavoro, razzia di beni e proprietà, sofferenze e suicidi, resta una macchia specifica sulla coscienza e sulla storia italiana, su cui troppo spesso e troppo a lungo si è preferito soprassedere.

Il sistema persecutorio italiano fu il più articolato d’Europa dopo quello tedesco e in quegli anni alcune misure furono addirittura più gravose e vessatorie di quelle attuate dai nazisti. L’apparato amministrativo e burocratico statale si impegnò a fondo e con accanimento nell’applicare le leggi razziali. E così migliaia di professori, maestri, studenti, dipendenti pubblici, militari, impiegati privati, professionisti, da un giorno all’altro furono espulsi dalle scuole, dalle università, dagli uffici pubblici, dalle aziende, dalle forze armate, per il semplice fatto di essere ebrei.

Ma la responsabilità dell’Italia non riguarda solo le leggi razziali e la persecuzioni dei diritti. L’Ordine di Polizia della RSI numero 5, emanato il 30 novembre 1943 e trasmesso il giorno seguente alla radio, annunciò che tutti gli ebrei – «a qualunque nazionalità appartengano» - sarebbero stati arrestati e inviati ai campi di concentramento, fatta eccezione per quelli gravemente malati o di età superiore ai settant’anni. Di conseguenza, la maggior parte degli ebrei che poi trovarono la morte nei lager nazisti, come ha rilevato Michele Sarfatti, fu arrestata dalle autorità italiane e consegnata ai tedeschi. Alcune prefetture e comandi – ha scritto Renzo De Felice – ci misero «uno zelo veramente incredibile, fatto al tempo stesso di fanatismo, di sete di violenza, di rapacità». Tutto l’apparato burocratico italiano fu coinvolto. La «caccia» durò fino alla fine: il 25 aprile 1945, un gruppo di militi fascisti in fuga verso la Francia, si fermò a Cuneo per prelevare sei ebrei stranieri e ucciderli, gettando i loro corpi sotto un ponte. Come dimenticare questo capitolo della nostra storia?

 

(E Polis, 17 ottobre  2009)

 

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