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L’ora solenne di… invadere l’Etiopia

di Mario Avagliano

“Ore 5, nostre truppe hanno passato confine, nostri aeroplani sorvolano cielo nemico”. Era l’alba del 3 ottobre 1935 quando dall’Eritrea arrivò a Roma questo telegramma: l’Italia fascista aveva appena invaso l’Etiopia, stato libero e indipendente, membro della Società delle Nazioni, ultimo grande paese africano ancora non assoggettato alla dominazione coloniale straniera, senza una formale dichiarazione di guerra. La notizia però non era inattesa. La sera precedente milioni di italiani entusiasti avevano affollato le piazze di tutta la penisola, collegate via radio col balcone di piazza Venezia a Rona, da dove Mussolini aveva annunciato che “un’ora solenne sta per scoccare nella storia della patria” e che quella grande adunata “dimostra al mondo che Italia e fascismo costituiscono una identità perfetta”. Infine aveva detto: “con l’Etiopia abbiamo pazientato quarant’anni, ora basta”. Ora iniziava la guerra e con essa una sfida aperta alle grandi potenze in nome del revisionismo, che avrebbe ben presto portato l’Europa e il mondo in un nuovo conflitto globale.

Le guerra d’Etiopia durò ufficialmente sette mesi e si concluse ufficialmente sette mesi dopo, quando le truppe guidate da Badoglio entrarono ad Addis Abeba e Mussolini poté proclamare “la riapparizione dell'impero sui colli fatali di Roma”, dopo una serie di spietate battaglie di annientamento delle armate etiopiche, condotte dal più grande e moderno esercito mai visto nella storia dell’espansione coloniale. Nelle fasi più difficili, inoltre, non mancò il ricorso criminale ai gas (l’iprite e il fosgene), oltre ai bombardamenti indiscriminati su truppe e villaggi privi di qualsiasi difesa, alle rappresaglie che non di rado coinvolsero anche i civili e i ai metodi feroci e razzisti adottati nei territori occupati.
Nella memoria successiva, tuttavia, questa spietata guerra, che coinvolse il maggior numero di italiani dopo i due conflitti mondiali, alla ricerca di quel “posto al sole” tanto ambito e mitizzato quanto ritenuto necessario e legittimo da conquistare ad ogni costo, è stata declassato a una sorta di “avventura”, passata alla storia più che altro per i motivetti spensierati che l’accompagnarono (Faccetta nera su tutti) e per la vulgata autoassolutori del colonialismo buono costruttore di case, scuole e ospedali e degli italiani brava gente. A fare piena luce sul quale fu il reale atteggiamento degli italiani, in patria e al fronte, a ottant’anni esatti dall’invasione, arriva ora un’approfondita ricerca su lettere, diari, relazioni dell’Ovra, documenti militari e carte di polizia condotta da Marco Palmieri. Il libro, L’ora solenne. Gli italiani e la guerra d’Etiopia (Baldini&Castoldi, 320 pp., 16 euro), rende conto dello «spirito pubblico» dell’epoca, mettendo a fuoco i diversi tasselli di un variegato mosaico dal quale emerge nitidamente che l’adesione e il consenso furono profondi e trasversali, toccando ogni ambito della società civile.
Le carte analizzate da Palmieri dimostrano che fu un momento di esaltazione collettiva che portò l’adesione al fascismo e il mito personale del duce al punto più alto della sua parabola. I ceti più benestanti furono ammaliati dalla retorica della grandezza nazionale e imperiale, quelli meno abbienti s’illusero per la promessa di terra e lavoro dell’eldorado africano e anche gli ambienti cattolici animati dalla prospettiva di una missione civilizzatrice diedero il loro contributo. Perfino tra gli oppositori, già schiacciati dalla repressione, molti arrivano a ricredersi sull’operato di Mussolini e criticare le sanzioni economiche comminate all’Italia per l’aggressione (Palmieri parla di una crisi d’identità dell’antifascismo, evidente nelle posizioni di personaggi come Benedetto Croce, Luigi Albertini, Vittorio Emanuele Orlando, Sem Benelli). Al coro dei favorevoli si unirono molte voci del mondo intellettuale come Vasco Pratolini, Elio Vittorini, Achille Campanile, i premi Nobel Guglielmo Marconi (che come molti altri scrisse al duce per manifestare la sua intenzione di rendersi utile nell’impegno della patria). Anche le donne ebbero un ruolo nella “mobilitazione civile” – alla quale è dedicato uno specifico capitolo del libro, accanto a quella più propriamente militare – come si evince dalle numerose lettere al dice addirittura con la richiesta di poter andare a combattere al pari degli uomini e dalla massiccia partecipazione alla giornata della fede, quando furono chiamate a donare l’anello nuziale per contribuire all’impresa. In sostanza, come si legge in una delle innumerevoli relazioni fiduciarie utilizzate da Palmieri, “oggi le masse hanno aderito al Fascismo e all’azione del Governo e mai come oggi è stata in loro ferma la volontà di servire il Capo per l’affermazione dei nostri diritti”.
Il libro dunque propone un racconto originale e a più voci sull’illusione pubblica della guerra che più ha infiammato gli italiani sotto il fascismo. Ma anche sulla successiva disillusione, espressa per lo più in privato. S’intravedono, cioè quegli elementi di debolezza e quelle contro-istanze che – spiega Palmieri – “una mobilitazione così pressante e di massa basata su così radicate e diffuse aspettative aveva necessariamente al proprio interno e che essa stessa aveva contribuito ad attivare, dalle quali prenderà le mosse una fase – lunga, lenta e dolorosa e con altre pagine nere ancora da scrivere – di disgregazione”.
Lo evidenzia bene, tra i tanti documenti su cui si basa la ricerca, una nota dei primi anni ’40, in cui un informatore non può fare a meno di constatare “nel 1935, la stessa gente si sarebbe gettata nel fuoco per il Capo e per il fascismo… con entusiasmo, per la fede cieca che avevano nel Capo. Oggi si mugugna apertamente, si fanno discorsi sovversivi, si arriva ad offendere addirittura, senza ritegno, il Fascismo”. Ma la curva discendente sarebbe stata lunga e complessa, e avrebbe riservato ancora  tante pagine dolorose all’Italia e agli italiani.

(Blog Mario Avagliano, 4 dicembre 2015)

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