L'Italia che esce dalla palude nel romanzo di Pennacchi
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di Mario Avagliano
La saga della famiglia Peruzzi, la ruspante e intraprendente famiglia di contadini originaria della bassa Pianura Padana, trasferitasi sotto il fascismo dal Veneto all’Agro Pontino, con il miraggio della bonifica, continua nell’Italia della guerra civile e della ricostruzione. È arrivato in libreria “Canale Mussolini parte seconda” (Mondadori, 425 pagine, 22 euro), l’atteso seguito del fortunato romanzo di Antonio Pennacchi, vincitore del Premio Strega nel 2010.
Avevamo lasciato i Peruzzi negli ultimi giorni di guerra a Littoria, schierati assieme agli altri coloni al fianco dei tedeschi e dei fascisti, a sparare fucilate contro le pattuglie alleate, nel timore di perdere la terra che tanto faticosamente avevano sottratto alle paludi pontine. E poi tornare nei poderi distrutti, prendendo atto che gli americani non erano così malvagi come li dipingeva il regime fascista e che anzi, grazie al loro insetticida “Ddt”, potevano finalmente debellare la zanzara anofele dalle campagne.
Il racconto delle vicissitudini dei coloni “cispadani” riprende proprio da lì, il 25 maggio del 1944, il giorno della liberazione, quando - profittando del caos di quelle ore - il diciottenne Diomede Peruzzi penetra con due amici più grandi nel palazzo della Banca d’Italia devastato dalle bombe, dove svolazza qualche pezzo bruciacchiato di banconote da mille, svaligiandone con carriole di legno il caveau. È da questo furto che costruisce la sua folgorante carriera imprenditoriale e che ha inizio la nuova impetuosa fase di sviluppo della città, che poi nel 1946 cambierà il nome in Latina.
La guerra a Littoria è terminata. Al Canale Mussolini, il principale canale della bonifica, che per quattro lunghi mesi si è trovato al centro del fronte bellico di Anzio e Nettuno, torna a rifluire la vita. Gli sfollati abbandonano i rifugi sui monti e ripopolano la città e le campagne. I poderi recano i segni dei bombardamenti. Ma nella popolazione c’è un ritrovato senso di fiducia e la voglia di iniziare la ricostruzione.
Nell’Italia occupata dai nazisti, però, la guerra continua. Il fronte si sposta verso nord, grazie all’avanzata degli Alleati che, con il prezioso contributo dei partigiani e del ricostituito esercito italiano, costringono alla ritirata i tedeschi e i fascisti di Salò. È una guerra di liberazione, ma – come ha evidenziato lo storico Claudio Pavone – anche una guerra civile, che attraversa le famiglie e a volte le divide e le dilania.
È il caso dei Peruzzi. Il giovane Paride, in camicia nera, ha aderito alla Rsi e mentre sogna di tornare dalla zia-amante Armida e dal figlio, partecipa alle campagne di rastrellamento contro i partigiani. Suo fratello Statilio, invece, che veste la divisa con le stellette del Regio Esercito, si scontra con i tedeschi in Corsica e poi a Cassino e sulla linea Gotica. Il cugino Demostene, del ramo della famiglia dell’“Altitalia” rimasto fedele agli ideali social-comunisti, si arruola partigiano nella Brigata Stella Rossa e combatte anche lui per liberare l’Italia.
I due cugini antagonisti, Paride e Demostene, che fino all’età di quattordici anni erano cresciuti assieme, giocando come due fratelli, bighellonando di notte d’estate e pescando nel fiume, s’incontreranno casualmente nella primavera del 1945 alle foci del Po a Goro, ma non avranno il coraggio di spararsi (“Ma come agh sparo? El xè me cusin!”), facendo prevalere le ragioni del legame familiare sull’ideologia.
Accanto ai Peruzzi in divisa ritroviamo gli altri protagonisti della “parte prima” del romanzo. Lo zio Adelchi, l’unico vigile urbano rimasto a difesa del comune quando arrivano gli inglesi a liberare una Littoria deserta e quasi ridotta in macerie; il mite zio Benassi, fissato con la Corale, e la moglie Santapace, collerica e bellissima; la passionale Armida, dai capelli biondi e dai fianchi tondi, con le sue api che rivelano il futuro, e la nonna Peruzzi, che attribuisce compiti e destini ai nuovi rampolli che vengono al mondo. E ovviamente l’indomito Diomede, figlio della Modigliana, sorella gemella di zia Bissola, e di padre incerto. Capelli rossi brillanti, lentiggini sul muso e “simpatia da vendere”, è chiamato Batocio o Big Boss per un piccolo difetto fisico. Si rivelerà il vero demiurgo della nuova città.
Le loro vicende s’intrecciano con quelle dei personaggi storici, a partire da Benito Mussolini, alla cui liasion con Claretta Petacci il libro dedica pagine intense. Dal sogno di Claretta di Ben che in una notte di luna piena la raggiunge al bivio dell’Appia a Littoria, fino alla fine tragica e ancora in parte misteriosa durante la fuga verso la Svizzera, con la successiva esposizione delle loro salme a Piazzale Loreto a Milano il 28 aprile del 1945.
E poi nel dopoguerra il leader della Dc, Alcide De Gasperi, che nella ricostruzione ironica di Pennacchi, per avere gli aiuti del Piano Marshall, è costretto in dialetto veneto dal presidente americano Truman a buttar fuori dal governo le sinistre (“Tuti i schei che ti vol! Basta ch’at mandi via i comunisti”). Non manca un “cammeo” del segretario del Pci, Palmiro Togliatti, che quando il 14 luglio 1948 subisce un attentato che rischia di provocare una nuova guerra civile, prima di varcare in barella le soglie della camera operatoria, dove il grande chirurgo Pietro Valdoni lo avrebbe salvato, a Nilde Iotti accucciata premurosa su di lui, ripete: “Am racomando, Nilde, dighe de star calmi e de non far i mati, dighe da non far gninte”.
Un romanzo storico corale, dallo stile colorito e piacevole, con dialoghi vivaci, in cui il “fasciocomunista” Pennacchi ci restituisce senza un briciolo di retorica e a tratti con feroce sarcasmo il clima infuocato dell’epoca, ricco di difficoltà e di contraddizioni, che attraversavano entrambi gli schieramenti. Raccontandoci però anche la determinazione, la speranza e la voglia di ripartire dell’Italia che usciva dal buio ventennio fascista.
(pubblicato in versione più sintetica su Il Messaggero, 4 dicembre 2015)