La Storia riscritta dai vincitori e la fabbrica dei miti
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di Mario Avagliano
Ci sono due modalità di utilizzo dell’arma della memoria. C’è chi indaga e s’interroga sulle vicende del passato con spirito “onesto” e un occhio critico e oggettivo. Senza finalità altre, ma semmai per individuare in tempi lontani contraddizioni che ci aiutino a modificare o a mettere a registro quel che pensiamo oggi. E chi invece ricorre consapevolmente a forzature degli eventi e della loro interpretazione per legittimare o giustificare le scelte del presente. Generando così una memoria di comodo. Di volta in volta manipolata, frammentata, adulterata o strumentalizzata.
È la lezione che si trae dall’ultimo appassionato saggio di Paolo Mieli, “L’arma della memoria. Contro la reinvenzione del passato” (Rizzoli, pp. 428, euro 20), che in un percorso disincantato attraverso i secoli ci mostra cosa si cela dietro fatti apparentemente noti. Tenendo conto di un dato di fatto incontrovertibile. La storia è fatta di vinti e di vincitori. Ma non si tratta di categorie stabili: spesso le vicende di ieri sono riscritte a uso e consumo dei vincitori di oggi.
Il viaggio nella memoria di Mieli ci rende edotti che l’uso distorto delle vicende storiche non è un mal-costume recente ma ha radici antiche. Si pensi all’esaltazione di Pericle da parte di Tucidide, che legava la fortuna di Atene alle virtù del leader carismatico e il decadimento alla sua scomparsa. Donald Kagan ha dimostrato che, quando morì Pericle, le risorse finanziarie ateniesi stavano già per esaurirsi e la sua strategia di governo era stata disastrosa.
Anche il mito di Attila “flagello di Dio” è falso. Altro che brutale sterminatore: in Ungheria è considerato un eroe nazionale e la sua leggenda negativa venne costruita ad arte cinquecento anni dopo la sua morte, ad opera della Chiesa, per glorificare i suoi pontefici (nel caso specifico papa Leone I). E che dire della sacra Sindone di Torino, di cui non si sono mai trovate tracce precedenti alla seconda metà del Trecento, giustificando i mille e passa anni di silenzio con “un uso acrobatico della storia”?
Nel secolo scorso l’arma della memoria è stata utilizzata, in svariate occasioni, anche per celare le nefandezze dei regimi totalitari. Un esempio è quello dell’assedio nazista di Leningrado, nel quale morirono settecentomila persone, la maggior parte di fame e di distrofia. Stalin considerava la città un focolaio dell’opposizione e non mosse un dito per aiutare i resistenti. Salvo poi, a guerra finita, definirli “eroi”.
Altre volte la medesima arte è servita a mascherare clamorosi abbagli, come l’invaghimento dell’America per Benito Mussolini.
Nel secondo Novecento, tra le “armi chimiche” di avvelenamento della conoscenza storica, si è fatta strada anche la bomba complottista, che si accompagna non di rado al trasferimento del dibattito storiografico nelle aule di giustizia.
Il complottismo è la pretesa di modificare i termini della discussione con l’inserimento di tesi suggestive ancorché indimostrabili. Si prenda l’assassinio di John Kennedy. Lo scrittore Vincent Bugliosi si è preso la briga di censire tutte le testi complottiste. Ne è risultato che sarebbero state coinvolte quarantadue entità o gruppi, per un ammontare di ottantadue assassini e duecentoquattordici persone che avrebbero partecipato al concepimento dell’omicidio o semplicemente aiutato Lee Oswald. Ma altrettanto si potrebbe scrivere a proposito dei casi misteriosi della storia italiana del dopoguerra, dalla strage di Piazza Fontana alla morte di Enrico Mattei.
Una cosa è certa: le armi di avvelenamento della memoria, osserva giustamente Mieli, producono danni quasi irreparabili alla coscienza generale, deformando il passato e intossicando il ricordo collettivo anche dei fatti più prossimi. E quindi meritano di essere combattute. Come? L’antidoto all’imbarbarimento è il ricorso alle opere degli studiosi seri, che frequentano gli archivi e studiano le carte, facendo invece attenzione all’attendibilità della divulgazione, che – a parte le dovute eccezioni – spesso ne ha da tempo “liberalizzato la circolazione”.
(Il Messaggero, 17 ottobre 2015)