Diario proibito. L'Aquila anni Quaranta e la RSI
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di Mario Avagliano
Quando mi è stato proposto di scrivere la prefazione per il romanzo storico di Mario Fratti, Diario Proibito. L'Aquila anni Quaranta (grauseditore), ambientato all’epoca della Repubblica Sociale e del primo dopoguerra, ho provato molta curiosità. Cosa spingeva un drammaturgo di fama mondiale, che vive dal 1963 a New York, vincitore di ben sette “Tony Award” (l’Oscar del teatro), autore di decine di opere, spesso a fondo sociale, rappresentate in tutti i teatri del mondo (tra i quali il musical Nine, liberamente ispirato al film 8½ di Federico Fellini, che ha superato la cifra record di duemila repliche), a ripescare dai cassetti un testo scritto negli anni Cinquanta? Pagina dopo pagina, ho capito che Fratti, al pari di quanto fatto in alcune sue opere teatrali (da Tangentopoli a Mafia), in questo suo primo (e per ora unico) testo narrativo, con il suo stile crudo, privo di pudicizia, che spesso colpisce duro alla testa come una sassata, fatto di dialoghi serrati e di frasi secche come fucilate, aveva un intento di denuncia. Sotto tiro c’è l’Italia di ieri e di oggi. L’Italia complice di Mussolini e del nazismo, delle sue violenze e delle sue bestialità. L’Italia che non ha mai epurato i fascisti, anzi li ha riciclati nei posti di comando. L’Italia che tuttora stenta a fare i conti con il Ventennio e con Salò, propagandando il mito di un fascismo buono.
Siamo nel dopoguerra inoltrato. Il protagonista del romanzo è un giovane adulto, impiegatuccio senza infamia e senza gloria, che vivacchia in quel di Venezia, affittuario di una camera nell’appartamento di due donne sole, ossessionato in modo quasi compulsivo dal sesso, solitario o a pagamento. La febbre lo costringe a restare a casa e mentre mette in ordine una vecchia valigia dei documenti, spunta fuori un quaderno dalla copertina scura: il suo diario proibito e dimenticato. Fogli di quando, imberbe sedicenne, aveva aderito a Salò, anche per lo sfizio di vestire la divisa lucida da soldato e uscire armato con una scintillante pistola nella fondina. Fogli vecchi che puzzano, in ogni senso, non solo all’olfatto, e che se qualcuno li avesse trovati nel ’45, avrebbero provato che chi li aveva vergati era un ufficiale “nero”. La scelta dell’io narrante e della sua identificazione nell’adolescente fascista (al quale Fratti arriva addirittura ad attribuire la sua età dell’epoca e il suo nome, Mario) a primo acchito è spiazzante e imbarazza chi legge. L’autore, abruzzese di nascita, come ha spiegato nell’introduzione, utilizza per costruire la sua storia molti ricordi autobiografici ma in realtà già da ragazzo era tutt’altro che seguace di Mussolini. Era animato da vividi sentimenti antifascisti e i suoi amici del cuore erano i partigiani che poi vennero chiamati i “Nove Martiri di L’Aquila”, anche se lui non trovò il coraggio di seguirli in montagna. Tuttavia, man mano che il romanzo va avanti, l’identificazione tra l’autore e il ragazzo di Salò (poi adulto) protagonista della storia mostra tutta la sua potenza evocativa. All’imbarazzo iniziale del lettore, subentra la vergogna. È come guardarsi allo specchio e non piacersi, anzi provare disprezzo per se stessi. È come guardare allo specchio, da italiani, una pagina di storia che abbiamo voluto dimenticare (e che qualcuno addirittura vuole equiparare alla Resistenza), e che invece Fratti ci costringe a rimestare. Inchiodandoci, senza possibilità di scampo, alla lettura di torture, vessazioni, violenze di ogni tipo che subiscono gli oppositori politici, le donne, tutti coloro che finiscono nelle grinfie del Comando di Presidio fascista guidato da un maggiore che per il suo sadismo e il suo opportunismo ricorda da vicino gli aguzzini della banda Koch. Il panorama del collaborazionismo fascista dipinto da Fratti è putrido e fosco. Le pagine del romanzo sono affollate da puttane, delatori, spie, approfittatori, antisemiti o gente che è pronta a mutare atteggiamento verso i fascisti o i ribelli a seconda dell’andamento della guerra. Un panorama che fa ribrezzo, ma di cui vi sono numerose testimonianze storiche. D’altronde Fratti, proprio all’epoca della stesura del romanzo, si era documentato sulle violenze fasciste ai partigiani, per scrivere il radiodramma “Il nastro”, vincitore del premio Rai ma mai trasmesso alla radio. Certo, va detto che non fu sempre così: la Repubblica Sociale non fu solo un covo di violenti, sadici o opportunisti. Ci fu chi, pur nell’errore della scelta, mantenne un contegno dignitoso e aderì alla Rsi in buona fede oppure facendosi gabbare dalla propaganda fascista e nazista che, come è descritto bene nel romanzo, fece di tutto per alimentare l’odio verso gli Alleati. Sullo sfondo, e neppure tanto sullo sfondo delle pagine di Fratti, emerge anche un’altra Italia, quella dei partigiani animati da amor di patria che resistono fieri alle torture e di chi si oppone con coraggio alla barbarie nazista e fascista. Italiani che, in qualche modo, colpiscono anche il ragazzo di Salò, che a volte simpatizza con loro ma, fino alla fine, mai trova la forza di emanciparsi dall’influenza magnetica e dal condizionamento psicologico del maggiore. Il romanzo si conclude con un pugno nello stomaco, nel pieno degli anni Cinquanta. L’ex ragazzo di Salò, ora impiegatuccio, torna al lavoro dopo la malattia e rivela l’identità del suo capo: il maggiore fascista, diventato ricco imprenditore, che forse ha goduto dell’amnistia Togliatti e nell’Italia che si avvia verso il miracolo economico finanzia in parti uguali Msi e Dc, frequentando i comitati civici anticomunisti e le sacrestie. Il commento amaro finale è: “Qualcosa mi lega ancora a lui. Quello che ho taciuto”. Il silenzio della Storia. Un silenzio che dura ancora oggi. E che lega irrimediabilmente l’Italia fascista a quella del ventunesimo secolo.
(Prefazione al libro di Mario Fratti)