Mario Avagliano

Mario Avagliano

Cazzullo e la Grande Guerra dei dolori senza voci né eroi

di Mario Avagliano
 
La Grande Guerra 1914-1918, che noi italiani chiamiamo del 15-18, è l’unica guerra senza eroi di vaglia. Non ci fu un Annibale, un Cesare, un Alessandro Magno. Né ci furono statisti o generali famosi, a differenza della seconda guerra mondiale. Oggi soltanto gli storici, tanto per restare sul fronte italiano, si ricordano del generale Luigi Cadorna, oppure di Salandra e di Orlando. I veri eroi di quel conflitto di un secolo fa, come scrive Aldo Cazzullo, furono i semplici fanti. Fu davvero, come recita il titolo del suo nuovo saggio, La guerra dei nostri nonni (Mondadori, 264 pagine, 17 euro).
Con la penna del brillante cronista ma anche l’acume del saggista attento e documentato, attraverso lettere, diari e testimonianze anche inedite, Cazzullo ci conduce nell'abisso del dolore del primo conflitto mondiale. Le vicende di alpini, arditi, prigionieri, poeti e scrittori in armi (come Giuseppe Ungaretti e Curzio Malaparte) s’incrociano con quelle di crocerossine, prostitute, spie, inviate di guerra, persino soldatesse in incognito. 
 
La quasi totalità dei soldati sono sconosciuti, come il nonno di Papa Francesco, Giovanni Bergoglio, che combatté sull’Isonzo e sul Piave, oppure l’ultimo reduce della Grande Guerra, Carlo Orelli, intervistato dallo stesso autore nel 2004 e morto l’anno dopo a 110 anni. Qualcuno però, negli anni successivi, sarà protagonista della storia, come Adolf Hitler, Benito Mussolini, Charles De Gaulle e Angelo Roncalli, il futuro Papa Giovanni XXIII.
Il cuore del libro è il racconto, carico di tensione morale, del sacrificio di una grande massa di italiani alle ragioni atroci dell’industria della guerra. A partire dai reparti lanciati sotto il fuoco nemico sul Carso e sulle Alpi trentine, al grido di “Savoia!”, che diventano il prezzo da pagare per il terreno conquistato: un ettaro, diecimila morti. «Un olocausto necessario», come lo definisce il generale di corpo d’armata Vincenzo Garioni. Furono almeno sei i casi (il più celebre è quello raccontato da Emilio Lussu in Un anno sull’altopiano) di austriaci che interruppero il fuoco e gridarono agli italiani di tornare indietro, di non farsi massacrare così.
E poi i feriti, i mutilati, gli esseri rimasti senza volto, e l’esercito dei fanti resi folli da quel che avevano visto e patito, come il soldato che in manicomio proseguiva all'infinito il suo compito di contare i morti in trincea. Le decimazioni di innocenti da parte di una casta militare che, almeno fino a Caporetto, si dimostrò la più sprezzante d’Europa (tranne forse quella russa) nei confronti dei propri soldati. E le donne friulane e venete violentate dagli invasori dopo la disfatta di Caporetto; con l'istituto degli «orfani dei vivi», dove le mamme andavano di nascosto a vedere i «piccoli tedeschi» che erano pur sempre loro figli.
Ogni voce critica viene duramente punita. La risposta è la legge marziale, la repressione. Un artigliere ventunenne di Viterbo è condannato a 22 mesi di carcere per aver detto a suo padre di riferire alla gente che la guerra è ingiusta, perché «voluta da una minoranza di uomini. Chi fa la guerra è il popolo, i lavoratori, loro che hanno le mani callose sono questi che muoiono». Un civile viene sorpreso a cantare una canzone di trincea: «Il general Cadorna ha scritto alla regina / se vuoi veder Trieste te la mando in cartolina». Sei mesi di reclusione. Alla fine della guerra, i tribunali militari avevano celebrato 350 mila processi ed emesso 210 mila condanne: renitenza, diserzione, indisciplina.
Ma nella Grande Guerra, salutata dai futuristi come “sola igiene del mondo”, non mancano le storie a lieto fine, come quelle raccolte da Cazzullo su Facebook, in una moderna riedizione di Spoon River. E il conflitto, assieme alle distruzioni e alle morti, porta con sé anche una ventata di novità. Perché nelle città, in assenza degli uomini, chiamati a combattere, segna l'inizio della libertà per molte donne, che dimostrano di poter fare le stesse cose dei mariti, fidanzati o padri: lavorare in fabbrica, guidare i tram, laurearsi, insegnare, fumare.
L’occasione della guerra rappresenta anche la prima sfida – vinta - dell’Italia unita, dal Nord al Sud. Il giovane stato italiano poteva essere spazzato via. Eppure dimostra di non essere più «un nome geografico», come credevano gli austriaci, ma una nazione. Questo non toglie nulla alle gravissime responsabilità - che il libro denuncia con forza - di politici, generali, affaristi, intellettuali, a cominciare da Gabriele D'Annunzio, che trascinarono il Paese nel grande massacro. Ma, come scrive Cazzullo, “può aiutarci a ricordare chi erano i nostri nonni, di quale forza morale furono capaci, e quale patrimonio di valori portiamo dentro di noi”.
 
(Il Messaggero, 12 ottobre 2014)

Storie - Il dottor Morte

di Mario Avagliano
 
Che fine ha fatto il dottor Morte? Un nuovo libro cerca di fare chiarezza (definitivamente?) sulla sorte del criminale nazista Aribert Heim: Il dottor Morte. Storia della caccia al medico boia di Mauthausen, di Nicholas Kulish e Souad Mekhennet, due giornalisti del New York Times (Mondadori, pp. 300).
L'ex membro delle Waffen SS, austriaco, fu medico nei lager di Buchenwald e di Mauthausen e nel dopoguerra venne accusato da diversi sopravvissuti di varie nefandezze, come l’asportazione di organi a pazienti sani, la sperimentazione di veleni e farmaci sui deportati e l’uccisione dei pazienti iniettando loro benzina nel cuore (conservava il loro teschio come trofeo sulla sua scrivania).
Morto Hitler, nel caos post bellico della Germania, Heim riuscì a farla franca, acquisendo una falsa identità e trasferendosi a Bad Nauheim, vicino a Francoforte, dove giocava per la squadra di hockey dei Red Devils. Poi incontrò una ragazza di una famiglia molto ricca, la sposò e si stabilì con lei nella cittadina termale di Baden-Baden, dove esercitò la professione di ginecologo.
 
Fu solo grazie ad alcuni poliziotti tedeschi, tra i quali – racconta il libro – spicca la figura di Alfred Aedtner, che fu finalmente individuato. Aedtner era un cacciatore di criminali di guerra e collaborava con il leggendario Simon Wiesenthal e il suo centro.
Purtroppo Heim sfuggì alla cattura e nel ’62 si diede alla latitanza, scappando a bordo di una Mercedes in Francia, in Spagna, in Marocco e quindi in Egitto, senza essere trovato, nonostante le ricerche scatenate dalla giustizia tedesca, austriaca e israeliana, con una taglia di oltre 300mila euro.
Kulish e Mekhennet hanno ricostruito la sua fuga, anche grazie alla scoperta in Egitto di una valigia di Heim piena di lettere, cartelle mediche e testi sugli ebrei e l'antisemitismo. I due giornalisti, nel loro libro (uscito in Usa con il titolo The Eternal Nazi), svelano come riuscì a dileguarsi e l’incredibile storia successiva. Il criminale nazista, infatti, si nascose in un quartiere operaio del Cairo e poi si convertì all’Islam, col nome di Tarek Hussein Farid.
Il dottor Morte morì forse di cancro nel ’92 e fu sepolto in una fossa comune. Ma ogni tanto si torna a parlare della possibilità che sia vivo. Nel 2010 il direttore del Centro Wiesenthal Efraim Zuroff dichiarò che il caso era ancora aperto perché non "esistono prove scientifico-legali" del decesso. E gli stessi Kulish e Mekhennet ammettono che il suo corpo non è mai stato ritrovato. Il mistero continua.
 
(L'Unione Informa e Moked.it del 21 ottobre 2014)
  • Pubblicato in Storie
  • 0

'Tempesta'. Gruber, storia di famiglia tra nazismo e fascismo

di Mario Avagliano
 
In ogni tragedia collettiva esiste una responsabilità individuale. Che non risparmia neppure una terra di frontiera come il Sudtirolo, dove anzi l’oscuro passato di molte persone è segnato da due dittature: l'una subita, il fascismo, l'altra sciaguratamente scelta, il nazismo. Dopo il successo di Eredità, Lilli Gruber in questo secondo capitolo della saga della sua famiglia, intitolato Tempesta (Rizzoli, pp. 294, euro 19), riprende la narrazione della vicende di Hella Rizzolli, la sua prozia maestrina dalla penna nera infatuata di Hitler, per seguirla attraverso gli anni violenti della seconda guerra mondiale.
Avevamo lasciato Hella e la sua famiglia perseguitati dal fascismo, perché colpevoli di voler difendere la loro lingua e identità, dopo che nel novembre del 1918 il Sudtirolo e i suoi oltre 250.000 abitanti di lingua tedesca erano passati di colpo dall’Impero austro-ungarico all'Italia. Anche la maestrina era stata portata via dai carabinieri, venuti a prenderla fino in casa dei suoi genitori, a Pinzon, nel 1938. Era stata gettata in prigione, interrogata, condannata al confino dai fascisti in un villaggio in Basilicata. E tutto per aver insegnato il tedesco ai bambini nelle scuole clandestine del Sudtirolo.
 
Il racconto avvincente della vita di Hella, sospeso tra la Storia e la narrativa, e basato su lettere, diari, interviste e documenti d’archivio (con qualche licenza d’immaginazione nella ricostruzione dei dialoghi e di alcuni personaggi), riprende nel 1941, con l’avvio della campagna di Russia, in un’Europa in cui il nazismo dilaga vittorioso.
Hella crede ancora nel Führer, ma lui le sta strappando ciò che ha di più prezioso al mondo: l’adorato fidanzato Wastl, che parte per il fronte russo dopo un’ultima settimana d’amore a Berlino. Sul treno che la riporta a Pinzon, la maestrina conosce un giovane comunista tedesco, Karl, che sotto falsa identità è in fuga da una Germania ormai troppo pericolosa per i nemici del nazismo. Suo padre è stato tra i primi a essere arrestati durante l’epurazione dei comunisti del marzo 1933; la fidanzata Ida è ebrea. Lui ha deciso di rifugiarsi in Sudtirolo.
Ma neppure quella terra incantevole, chiusa tra le montagne, è al sicuro dalle tempeste della storia. L’orrore del nazismo e la realtà della guerra arrivano anche lì, con la loro scia di spie, delatori, approfittatori, e l’appendice violenta della persecuzione degli ebrei, degli oppositori politici e dei disabili (tra cui i 299 pazienti «optanti» dell’ospedale psichiatrico di Pergine, quasi tutti soppressi nel criminale piano nazista Aktion T4). Nel frattempo Wastl muore in combattimento in Russia, Hella si risveglia dal sogno nazista, scoprendo che si tratta di un incubo, e Karl è costretto a confrontarsi con il Mostro nazista, nei panni del fratellastro Oskar.
Una storia d’amore e di sofferenza. Ma nella parabola di Hella si disegna anche la tragedia di un popolo, quello sudtirolese, intrappolato tra due regimi sanguinari e prigioniero di un dilemma: salvarsi la vita o salvarsi l’anima? Un dilemma che molti risolsero facendo la scelta sbagliata, aderendo alla croce uncinata, come Hubert, lo zio della Gruber, fratello maggiore della madre, che partì volontario a diciotto anni. E nel dopoguerra ci fu perfino chi aiutò i familiari di alcuni gerarchi nazisti, tra cui Mengele, Himmler e Göring, a trovare rifugio e una nuova vita in Sudtirolo.
Molti sbagliarono ma non tutti, come sottolinea l’autrice. Perché anche nel Sudtirolo ci fu chi coraggiosamente, come il canonico Michael Gamper e la nipote Marta, pur difendendo il Deutschtum, la germanicità, nel 1939 si schierò tra i Dableiber, ovvero quel 13 per cento di sudtirolesi che non optò per la Germania, osteggiando e combattendo, per quanto possibile, la follia nazista.
 
(Il Messaggero, 25 ottobre 2014) 

Esce in libreria "Vincere e vinceremo!" - la recensione di Paolo Mieli sul Corsera

Tanti applausi per la guerra
 
di Paolo Mieli
 
«Inutile andare in giro raccontando che la guerra fu voluta dal solo Mussolini e non dall’Italia», scriveva il 10 agosto del 1946 Gaetano Salvemini a Ernesto Rossi e Leo Valiani. «Certo il popolo italiano non volle la guerra, se si intende tutto il popolo. Ma i generali, gli ammiragli, i grossi industriali, gli alti burocrati, i senatori, i deputati, i professori di università, i vescovi, gli arcivescovi, i cardinali, tutto quel lerciume accettò la guerra e parecchi altri la vollero finché credettero che l’avrebbero vinta dato lo sfacelo militare che era già avvenuto in Francia e che si prevedeva imminente in Inghilterra… Anche se si parla delle classi medie e inferiori del popolo italiano, non bisogna dimenticare che una larga parte di esse seguì Mussolini, e che fra esse Mussolini godé di larga popolarità dopo la vittoria nella guerra di Etiopia ed al tempo dello squartamento cecoslovacco; e se le cose gli fossero andate bene nella guerra mondiale, Mussolini sarebbe per molta gente un grand’uomo». «Questa è la verità», concludeva Salvemini; «bisogna dunque smetterla con questa balla che l’Italia non è responsabile». 
A 68 anni da quella lettera, Mario Avagliano e Marco Palmieri hanno compiuto un’accurata analisi sulla corrispondenza epistolare e sui diari dei nostri soldati ai tempi del secondo grande conflitto e ne è venuto fuori un libro, Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte, 1940-1943 (di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino), dal quale emerge un quadro ancor più inquietante di quello prospettato nel 1946 da Salvemini. Nel senso che, tenuto conto anche delle lettere di dissenso e perciò censurate o parzialmente autocensurate, «la partecipazione attiva e perfino entusiastica alle politiche fasciste, comprese quelle militari e guerrafondaie» fu pressoché totale. Anche quando le cose per l’Italia si misero male. Persino, in non pochi casi, dopo la destituzione del Duce a fine luglio 1943. Notevole, scrivono Avagliano e Palmieri, «è la persistenza del mito personale di Mussolini che dura decisamente più a lungo rispetto alla reputazione del regime fascista e delle sue gerarchie, già compromesse da tempo». 
 
E perché queste cose vengono approfondite e documentate solo ora? Qui da noi una «guerra della memoria», quella che per Avagliano e Palmieri è una «guerra civile del ricordo, delle celebrazioni e degli studi», ha fatto sì che «l’attenzione riservata alla guerra di liberazione mettesse spesso in ombra la precedente partecipazione alle guerre fasciste, con le quali si è omesso di fare i conti, preferendo soprassedere come se non facessero parte della storia nazionale». Del resto «la stessa definizione di guerre fasciste, a cui spesso si fa ricorso, già di per sé suona come una presa di distanza e un’autoassoluzione che non tiene conto del fatto che esse in realtà furono combattute e pagate da tutti gli italiani». Con un alto grado di consapevolezza. 
Avagliano e Palmieri sfatano il mito «di un’Italia fin dall’inizio contraria alla guerra e che già alla fine del 1940 prende le distanze dal fascismo». Dimostrano come, quantomeno tra i soldati, «il consenso alla decisione del regime di entrare in guerra fu quasi plebiscitario e il momento di rottura (rispetto alla partecipazione ideologica e all’adesione entusiastica alle parole d’ordine del regime) fu invece assai tardivo». Viene alla luce un «forte ritardo con il quale gli italiani in divisa approdarono alla scelta del distacco da Mussolini e del ripudio della guerra». «Forte ritardo» che, secondo Avagliano e Palmieri, peserà anche sul rovesciamento del regime fascista, partorito in ambito militare (con il concorso della Corona e dei gerarchi fascisti dissidenti), ma «condotto in modo continuista e passatista, senza un chiaro segno antifascista e senza un’intelligente strategia d’uscita dal conflitto». Con «riflessi evidenti non solo sulle vicende del tragico biennio successivo (estate 1943-25 aprile 1945), ma anche sulla futura storia dell’Italia repubblicana». 
Fa davvero impressione leggere le missive degli italiani partiti per la guerra nel giugno del 1940. Trasudano la certezza di una vittoria a portata di mano, un odio per gli inglesi e un’assenza di dubbi che lasciano esterrefatti. «Per gli inglesi», scrive un alpino nel settembre del 1940, «è finita la cuccagna, ora anche noi dobbiamo fare un po’ di bella vita, che anche noi abbiamo il diritto di star bene. Lo vogliamo vedere come debbono stare dopo la guerra questi sfruttatori inglesi. Noi potremo fare quello che vogliamo e far venire in Africa anche le nostre famiglie». Qualcuno come Lamberto Prete, dal fronte francese, ha già dato per finito il conflitto. «La sera», scrive il 30 giugno, «è un incanto con questi tramonti d’oro, con le cime baciate dagli ultimi raggi di sole, con le valli invase dalla penombra, con le strade affollate di gente contenta. La guerra è finita con una facile vittoria e tutti cantano le canzonette del momento». E, invece, altro che canzonette. In quell’estate del 1940 l’Inghilterra resiste, non crolla. E la guerra a questo punto deve andare avanti. Per quel che ci riguarda, in Grecia e nell’Africa settentrionale. In entrambi i casi l’esercito italiano farà un buco nell’acqua e dovranno intervenire i tedeschi a soccorrerlo. 
I nostri connazionali in divisa fanno finta di non capire. Il barbiere genovese Fulvio Valentinelli («che fa ai greci barba e capelli» scrive in una lettera del 14 gennaio 1941) si autoinveste del titolo di «Terrore delle Acropoli» e si dice sicuro che verrà presto «il momento propizio di dare la suonata definitiva ai greci» (14 febbraio). In Africa un marinaio sentenzia: «Ormai abbiamo visto che la guerra non è per gli inglesi!». Se ne parla come dei «maledetti figli di Albione», «vigliacchi e farabutti». L’artigliere Gino Lanfranchi bolla i britannici come «audaci fresconi che l’illusione ha voluto per un po’ vittoriosi». E, dopo i primi colpi subiti, un aviere sostiene con sicurezza: «Le passeggere iniziative angloamericane ci lasciano più che scettici increduli … Non sono alcune sporadiche vittorie di Pirro che possono demoralizzarci». 
L’anglofobia, notano i due autori, «non è un sentimento concentrato nella fase iniziale della guerra, sull’onda dell’entusiasmo e delle ambizioni di una rapida vittoria, proprio ai danni degli inglesi ritenuti deboli e militarmente inferiori… lascia scorie diffuse anche dopo le sconfitte e dopo tanti mesi passati al fronte». 
Il consenso alla guerra, sottolineano Avagliano e Palmieri, «è vasto e diffuso e, nonostante fin dal principio le cose non vadano nel modo sperato e immaginato, rimane a lungo radicato nella coscienza di molti militari, relegando le forme di disapprovazione e malcontento ad una dimensione marginale e comunque riconducibile ai disagi materiali della vita militare e alla delusione per le sconfitte, ma non ad una messa in discussione del fascismo». I primi segnali di svolta li si possono rinvenire già in un rapporto dell’Ovra del febbraio 1941: «Un senso di ribellione serpeggia fra le masse al pensiero che il fiore della gioventù italiana sia stato e continui a sacrificarsi per la vanità o l’incapacità di alcuni capi e questo stato d’animo di sorda protesta si esaspera alle notizie frequenti e concordi sulla deficienza dell’equipaggiamento e dell’armamento dei nostri soldati, alcuni dei quali scrivono dal fronte greco-albanese alle loro famiglie chiedendo insistentemente indumenti di lana, mentre altri, ricoverati feriti o congelati negli ospedali, diffondono un pauroso senso di sgomento». 
Per fortuna, però, c’è l’alleato germanico. I tedeschi in Russia vengono accolti dai nostri con ammirazione e con gioia. «Dai loro volti stranamente anneriti dalla polvere traspare quella particolare espressione fatta d’orgoglio e d’allegrezza che è propria di coloro che vengono dalla linea del fuoco», scrive Urbano Rattazzi. «Sono gli Dei della guerra. Sono simboli». I russi, invece «sono petulanti, antipatici e oltretutto poco cortesi», prosegue Rattazzi; «il nostro corpo di spedizione – un magnifico fascio di energie fisiche e morali – passa sopra le loro orde come un rullo compressore, facendo brillare dinnanzi agli occhi stupiti del mondo intero le virtù eroiche della razza, esaltate da vent’anni di Fascismo». Però «il cameratismo e l’ammirazione verso gli alleati tedeschi sono tutt’altro che unanimi tra i militari italiani», scrivono Avagliano e Palmieri, «e laddove esistono e resistono devono confrontarsi con la dura realtà di una guerra condotta in posizione subalterna e di un rapporto al fronte caratterizzato anche da scontri, frizioni, gelosie, invidie». 
Un motivo di fastidio è riconducibile «alla scarsa considerazione che i tedeschi mostrano di avere per il valore militare degli italiani» che si riflette nella redazione dei bollettini di guerra «nei quali spesso non si fa cenno alcuno all’operato dei nostri soldati né vengono loro riconosciuti i giusti meriti». «Oggettivamente è giusto ammettere che i tedeschi non parlano male degli alpini», scrive nel marzo 1942 Vito Mantia dal Montenegro. «Bontà loro ci danno atto del nostro comportamento, salvo però dure critiche per la nostra… sensibilità dimostrata in tante occasioni, dopo le radicali e totali distruzioni inflitte alle popolazioni inermi. La loro determinazione e il loro comportamento razzista di superiorità sprezzante non li porterà lontano». 
L’Africa, rispetto alla Grecia, «pone nell’animo degli italiani maggiori questioni di amor proprio», scrivono Avagliano e Palmieri, «e lo scotto per aver dovuto accettare il compromesso di un intervento tedesco è maggiore». Ne è prova quel che si legge in una relazione del Comando generale dei carabinieri del maggio 1941: «Negli ambienti militari la soddisfazione per i nostri successi viene sensibilmente temperata dalla considerazione che molto si deve all’apporto dato dalla potente azione delle forze tedesche». Anche se in più di un caso i militari italiani non danno voce a questo genere di risentimento. Anzi. «Quelli che ci comprendono sono i tedeschi», scrive dalla Libia il caporalmaggiore Bruno Palmisa, «essi ci stimano e sono molto gentili con noi, ci portano da mangiare, ci incoraggiano e ci promettono che molte incresciose questioni verranno al nodo». «I rapporti con i militari germanici», conferma un rapporto della censura, «sono sempre intonati alla stima reciproca e al più perfetto cameratismo». Qualcosa cambia dopo El Alamein: «Pensa solo ai paracadutisti della divisione Folgore», scrive un carrista nel dicembre 1942, «di dodicimila ne sono rimasti tremila e non cedevano ancora se i tedeschi non scappavano i primi». Un caporale aggiunge: «Formiamo l’estremo baluardo difensivo, Rommel ha tagliato la corda». 
Poi qualcosa cambia. Scrive sul suo diario, il 23 agosto 1943 (trenta giorni dopo la caduta del fascismo e sedici prima che sia annunciato l’armistizio), Lamberto Prete, di stanza in Grecia: «Fino a qualche settimana fa noi vedevamo soltanto da lontano i militari germanici ed avevamo occasione di avere contatto coi loro ufficiali esclusivamente quando partecipando alla nostra mensa si comportavano da veri porci… I tedeschi ci hanno ignorato fino ad oggi ma ora pretendono che ci poniamo ai loro ordini». 
Cresce l’ostilità nei confronti della censura. E «nella sfida al censore si può leggere una prima forma di ribellione al regime stesso». Tuttavia il malumore «non sfocia ancora in dissenso e non assume un connotato politico antifascista… L’atteggiamento di molti è al contrario di radicata fiducia nella buona fede, se non del fascismo e delle sue gerarchie, certamente del Duce». 
L’esaltazione della figura di Mussolini, scrivono i due autori, «resiste anche ai rovesci militari e si riaccende immancabilmente quando le cose vanno per il meglio e le operazioni militari concedono qualche momentaneo successo». E anche dopo la caduta di Mussolini (25 luglio 1943) quando affiorano nelle lettere insulti al dittatore travolto, i sentimenti generali non cambiano. Il generale Tamassia osserva: «Fa impressione questo abbandono improvviso di tutti i più accesi sostenitori del fascismo». Un ufficiale in Albania racconta così il momento della comunicazione alla truppa delle «dimissioni» di Mussolini: «Tutti avevano le lacrime agli occhi ed abbiamo inneggiato al Duce che è e rimarrà il nostro capo». Un tenente colonnello scrive alla moglie: «Sono persuaso che se il Duce si affacciasse allo stesso balcone di Palazzo Venezia ad arringare la folla, tutta l’Italia cadrebbe ai suoi piedi». Tutti nostalgici, in ritardo sui tempi? No, anche Nuto Revelli, reduce dalla campagna di Russia e in procinto di diventare un esponente di primo piano della Resistenza, ricorda, a ridosso della destituzione del Duce, i soldati «morti per nulla, proprio come se la patria non esistesse più». Ha poi un moto di sdegno e annota sul diario: «Vedo i cortei, sento i discorsi, riconosco troppi fascisti di ieri, più fascisti erano ieri, più oggi sono antifascisti e si agitano, spaccano, urlano… Volevo scendere stanotte; forse mi sarei fatto picchiare». 
Anche per questo tipo di sentimenti in molti continuarono a sostenere il regime, persino dopo la sua caduta. Effetti di quella che Avagliano e Palmieri definiscono «la lunga durata del consenso» al fascismo
 
(Il Corriere della Sera, 11 novembre 2014)
Sottoscrivi questo feed RSS