Dopoguerra. Gli italiani fra speranze e disillusioni (1945-1947)

Mario Avagliano
Marco Palmieri
Dopoguerra. Gli italiani fra speranze e disillusioni (1945-1947)

«Biblioteca storica»

«Amore mio qui scoppia il dopoguerra» (Suso Cecchi d’Amico, 1945)

Il volume

I tre anni che vanno dalla fine della guerra all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana per gli italiani sono un periodo pieno di felicità e di violenza, in cui la comunità nazionale ricompone i suoi frantumi, si congeda dalla guerra civile e dal fascismo e costruisce faticosamente il suo futuro. Sono i giorni delle vendette e della resa dei conti, dei prigionieri e dei deportati che tornano a casa, delle grandi adunate politiche della rinata democrazia, ma anche di una gioiosa febbre di divertimento, di voglia di ballare, di fretta di ricostruire e costruire, con un’energia vitale che già prepara il boom degli anni a venire. Gli autori interrogano diari privati e memorie, lettere, rapporti della polizia, stampa e cinegiornali, film e canzoni, corrispondenze e conversazioni intercettate, per comporre un ricco e appassionante ritratto dal basso di come gli italiani vissero qui primi fervidi anni della repubblica.

 

Gli autori

Mario Avagliano, giornalista e storico, collabora alle pagine culturali del «Messaggero» e del «Mattino». Tra i suoi libri più recenti: Generazione ribelle. Diari e lettere dal 1943 al 1945 (Einaudi, 2006) e Il partigiano Montezemolo (Baldini & Castoldi, 2012). Marco Palmieri, giornalista e storico, ha pubblicato L’ora solenne. Gli italiani e la guerra d’Etiopia (Baldini & Castoldi, 2015). Insieme hanno pubblicato numerosi volumi, tra cui, con il Mulino, Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte (2014), L’Italia di Salò (2016), 1948. Gli italiani nell’anno della svolta (2018, Premio Fiuggi Storia).

Storie – Vivà, la figlia di Pietro Nenni che morì ad Auschwitz

di Mario Avagliano

Nel campo di sterminio di Auschwitz non furono deportati soltanto ebrei, ma anche un gruppo di 230 donne prigioniere politiche provenienti dalla Francia, tra cui due italiane: Alice Viterbo, una brava e famosa cantante lirica, che aveva una gamba di legno, e Vittoria Nenni, detta Vivà, figlia del leader socialista Pietro Nenni, che con la famiglia viveva in esilio in Francia dal 1926 dopo la promulgazione delle leggi “fascistissime”.

La drammatica storia di Vittoria Nenni è stata raccontata da Antonio Tedesco nel bel libro Vivà, la figlia di Pietro Nenni dalla Resistenza ad Auschwitz (Bibliotheka Edizion, collana “Bussole” della Fondazione Nenni). Il trasporto delle deportate avvenne il 24 gennaio del 1943. Si trattava di un gruppo assai vario: giovani e anziane; molte avevano lasciato a casa figli piccoli; 119 erano militanti comuniste, 12 golliste, mentre erano resistenti senza colore politico.

Dopo l’invasione tedesca della Francia e la nascita del regime collaborazionista del maresciallo Pétain, che concluse l’armistizio con la Germania il 24 giugno 1940 e si insediò con il nuovo governo nella città di Vichy (Alvernia), situata nella parte del Paese formalmente non occupata dai tedeschi, a partire soprattutto dall’estate del 1941 si era formata a Parigi una fitta rete resistenziale, che produceva volantini, opuscoli e fogli di propaganda antinazista. A questa rete clandestina collaboravano attivamente molte donne, tra cui appunto Vittoria Nenni e tante altre, che trasportavano messaggi, proteggevano i ribelli, li aiutavano a passare la linea di confine, nascondevano gli ebrei e ingannavano i nazisti.

La rete degli “stampatori” e delle “Tecniche del movimento”, guidate dal meccanico comunista Arthur Tintelin, tra la primavera e l’estate del 1942 venne falcidiata da una serie di arresti da parte della polizia francese. Le donne partigiane vennero tradotte nel forte di Romaville. Henri Daubeuf, il marito di Vittoria Nenni, venne fucilato quasi subito sul Monte Valerien l’11 agosto. A Vivà venne offerta la possibilità, rinunciando alla cittadinanza francese e facendo valere quella italiana, di scontare il carcere in Italia. Vivà senza alcuna esitazione rifiutò, per condividere la sorte delle sue compagne francesi.

Dopo pochi mesi di prigionia le donne vennero deportate ad Auschwitz, una destinazione che, scrive Antonio Tedesco, gli storici non sono ancora riusciti a spiegare. In quel campo di sterminio su duecentotrenta donne deportate rimasero in vita solo in quarantanove. Vivà morì il 15 luglio del 1943, racconta Antonio Tedesco, ridotta tutta una piaga, divorata dalla febbre tifoidea, gonfia le gambe per il lavoro nelle mortifere paludi, affidando all’amica Charlotte un ultimo messaggio: «Dite a mio padre che ho avuto coraggio fino all’ultimo e che non rimpiango nulla».

(L'Unione Informa e Moked.it del 16 maggio 2017)

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Storie – Carabinieri per la libertà

di Mario Avagliano

   Non solo Salvo D’Acquisto. Seimila carabinieri furono deportati nei lager nazisti e 2700 morirono dopo l’otto settembre 1943 per opporsi al nazifascismo e aiutare ex prigionieri alleati, renitenti alla leva, ebrei. Sono le vicende di cui parla il libro “Carabinieri per la libertà. L’Arma nella Resistenza: una storia mai raccontata” (Mondadori, pp. 168), del giornalista del Corriere della Sera Andrea Galli.
I carabinieri furono protagonisti delle quattro giornate di Napoli in occasione delle quali perfino i colleghi già pensionati si rimisero l’uniforme.
Per la difesa di Roma dopo l’armistizio si mobilitarono anche gli allievi della Scuola dei Carabinieri, comandati dal capitano Orlando De Tommaso, che morì combattendo alla Magliana il 9 settembre 1943.
Ancora nella Capitale, la rete clandestina del generale Filippo Caruso, collegata al Fronte Militari guidato dal colonnello Giuseppe Montezemolo, riuscì a condurre un’opera di resistenza e sabotaggio che si snodò in tutta l’Italia centrale.
Tra i più coraggiosi, c’erano il tenente colonnello Giovanni Frignani e il capitano Raffaele Aversa, protagonisti il 25 luglio dell’arresto di Mussolini, e poi arrestati e uccisi alle Fosse Ardeatine.
Tra le Marche e l’Abruzzo, il capitano Ettore Bianco e il tenente Carlo Canger organizzarono bande armate reclutando volontari di ogni estrazione.
A Milano era attiva la “banda Gerolamo”, dal nome di battaglia del maggiore Ettore Giovannini.
E l’elenco potrebbe continuare a lungo. Uomini come il carabiniere Martino Giovanni Manzo, che il 12 settembre 1943 a Napoli resisté fino all’ultimo proiettile e rimasto inerme, catturato, fu poi ucciso con ben tredici commilitoni a Teverola. Di lui Galli scrive, citando i ricordi di una nipote: «Prima di entrare nell’Arma era stato contadino. Aveva un unico codice di comportamento: lavorare duro perché altrimenti sarebbe morto di fame. L’impegno che mise nei campi fu lo stesso con cui indossò la divisa da carabiniere. Non voleva cambiare il mondo, soltanto fare il proprio dovere».
 
(L’Unione Informa e Moked.it del 13 dicembre 2016)

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Storie – Vittorio Foa, un intellettuale che guardava avanti

di Mario Avagliano

   Il 18 settembre del 1910 nasceva a Torino Vittorio Foa, politico, sindacalista, scrittore e intellettuale. Nipote da parte di padre di un rabbino, fu antifascista durante il Ventennio (pagando con il carcere la sua opposizione al fascismo) e partigiano nella Resistenza.
Nel 1946 venne eletto deputato del partito d’Azione nell’Assemblea Costituente e fu uno dei padri della Repubblica. Il suo contributo allo sviluppo democratico della sinistra italiana e mondiale è stato prezioso e importante.
Era un grande italiano che guardava sempre al futuro.
La figlia Anna Foa lo ha così ricordato con un post sul suo profilo di FB: “Ciao, buon compleanno. Chissà cosa penseresti di questo nostro mondo di oggi? credo che continueresti a guardare avanti”.

(L’Unione Informa e Moked.it del 20 settembre 2016)

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Storie - Il Montezemolo partigiano

di Mario Avagliano

   Il 23 settembre del 1943 i tedeschi circondavano il Ministero della Guerra, sede del comando di Roma Città Aperta, arrestando il conte Guido Calvi di Bergolo, genero del re e a capo della struttura, e altri ufficiali, e deportandoli in Germania. L'unico a sfuggire al blitz nazista era il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, che - indossati abiti civili - se la svignava attraverso i sotterranei del Ministero, sbucando in via Nazionale e dandosi alla macchia.
Iniziava cosi l'attività resistenziale di Montezemolo, di cui ho parlato ieri a Firenze, nella bella sede del Consiglio regionale della Toscana. Beppo, così era chiamato in famiglia, reduce di tre guerre (i due conflitti mondiali e la guerra di Spagna), disilluso dal fascismo come milioni di italiani, invece di nascondersi, diede vita al Fronte militare clandestino, che raccoglieva migliaia di militari, carabinieri e civili (tra cui don Pietro Pappagallo), collaborava strettamente con il Cln ed era collegato con Brindisi e il governo Badoglio.
Il Fronte compì atti di sabotaggio, rifornì di armi ed esplosivi le bande partigiane, sottrasse migliaia di militari dalle chiamate di Salò, svolse un'intensa attività di intelligence al servizio degli Alleati e produsse anche documenti falsi come carte di identità e certificati di battesimo che servirono a diverse famiglie di ebrei per sfuggire alla caccia all'uomo scatenata da nazisti e fascisti. Un'organizzazione capillare e importante, con  gruppi collegati in tutta l'Italia occupata.
Dopo lo sbarco alleato ad Anzio, in vista dell'insurrezione, i gruppi clandestini intensificarono le riunioni e gli incontri. Tedeschi e fascisti ne approfittarono per catturare molti esponenti della Resistenza, anche attraverso l'opera di delatori. Come avvenne per Montezemolo, considerato da Kappler il suo "più temibile nemico", che venne imprigionato nel carcere di via Tasso e barbaramente torturato.
Verrà ucciso dai tedeschi il 24 marzo del 1944 alle Fosse Ardeatine assieme ad altri 334 italiani, di cui circa 70 ebrei, gridando "Viva l'Italia! Viva il re!". Gli sarà assegnata la medaglia d'oro alla memoria. La sua vicenda straordinaria e il suo eroismo verranno a lungo dimenticati, in quanto esponente di quella resistenza moderata, monarchica, militare per troppo tempo negletta e che solo dal presidente Ciampi in poi si è finalmente iniziato a studiare e a riscoprire.

(L’Unione Informa e Moked.it del 27 settembre 2016)

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L'Italia che esce dalla palude nel romanzo di Pennacchi

di Mario Avagliano

   La saga della famiglia Peruzzi, la ruspante e intraprendente famiglia di contadini originaria della bassa Pianura Padana, trasferitasi sotto il fascismo dal Veneto all’Agro Pontino, con il miraggio della bonifica, continua nell’Italia della guerra civile e della ricostruzione. È arrivato in libreria “Canale Mussolini parte seconda” (Mondadori, 425 pagine, 22 euro), l’atteso seguito del fortunato romanzo di Antonio Pennacchi, vincitore del Premio Strega nel 2010.

Avevamo lasciato i Peruzzi negli ultimi giorni di guerra a Littoria, schierati assieme agli altri coloni al fianco dei tedeschi e dei fascisti, a sparare fucilate contro le pattuglie alleate, nel timore di perdere la terra che tanto faticosamente avevano sottratto alle paludi pontine. E poi tornare nei poderi distrutti, prendendo atto che gli americani non erano così malvagi come li dipingeva il regime fascista e che anzi, grazie al loro insetticida “Ddt”, potevano finalmente debellare la zanzara anofele dalle campagne.
Il racconto delle vicissitudini dei coloni “cispadani” riprende proprio da lì, il 25 maggio del 1944, il giorno della liberazione, quando - profittando del caos di quelle ore - il diciottenne Diomede Peruzzi penetra con due amici più grandi nel palazzo della Banca d’Italia devastato dalle bombe, dove svolazza qualche pezzo bruciacchiato di banconote da mille, svaligiandone con carriole di legno il caveau. È da questo furto che costruisce la sua folgorante carriera imprenditoriale e che ha inizio la nuova impetuosa fase di sviluppo della città, che poi nel 1946 cambierà il nome in Latina.
La guerra a Littoria è terminata. Al Canale Mussolini, il principale canale della bonifica, che per quattro lunghi mesi si è trovato al centro del fronte bellico di Anzio e Nettuno, torna a rifluire la vita. Gli sfollati abbandonano i rifugi sui monti e ripopolano la città e le campagne. I poderi recano i segni dei bombardamenti. Ma nella popolazione c’è un ritrovato senso di fiducia e la voglia di iniziare la ricostruzione.
Nell’Italia occupata dai nazisti, però, la guerra continua. Il fronte si sposta verso nord, grazie all’avanzata degli Alleati che, con il prezioso contributo dei partigiani e del ricostituito esercito italiano, costringono alla ritirata i tedeschi e i fascisti di Salò. È una guerra di liberazione, ma – come ha evidenziato lo storico Claudio Pavone – anche una guerra civile, che attraversa le famiglie e a volte le divide e le dilania.
È il caso dei Peruzzi. Il giovane Paride, in camicia nera, ha aderito alla Rsi e mentre sogna di tornare dalla zia-amante Armida e dal figlio, partecipa alle campagne di rastrellamento contro i partigiani. Suo fratello Statilio, invece, che veste la divisa con le stellette del Regio Esercito, si scontra con i tedeschi in Corsica e poi a Cassino e sulla linea Gotica. Il cugino Demostene, del ramo della famiglia dell’“Altitalia” rimasto fedele agli ideali social-comunisti, si arruola partigiano nella Brigata Stella Rossa e combatte anche lui per liberare l’Italia.
I due cugini antagonisti, Paride e Demostene, che fino all’età di quattordici anni erano cresciuti assieme, giocando come due fratelli, bighellonando di notte d’estate e pescando nel fiume, s’incontreranno casualmente nella primavera del 1945 alle foci del Po a Goro, ma non avranno il coraggio di spararsi (“Ma come agh sparo? El xè me cusin!”), facendo prevalere le ragioni del legame familiare sull’ideologia.
Accanto ai Peruzzi in divisa ritroviamo gli altri protagonisti della “parte prima” del romanzo. Lo zio Adelchi, l’unico vigile urbano rimasto a difesa del comune quando arrivano gli inglesi a liberare una Littoria deserta e quasi ridotta in macerie; il mite zio Benassi, fissato con la Corale, e la moglie Santapace, collerica e bellissima; la passionale Armida, dai capelli biondi e dai fianchi tondi, con le sue api che rivelano il futuro, e la nonna Peruzzi, che attribuisce compiti e destini ai nuovi rampolli che vengono al mondo. E ovviamente l’indomito Diomede, figlio della Modigliana, sorella gemella di zia Bissola, e di padre incerto. Capelli rossi brillanti, lentiggini sul muso e “simpatia da vendere”, è chiamato Batocio o Big Boss per un piccolo difetto fisico. Si rivelerà il vero demiurgo della nuova città.
Le loro vicende s’intrecciano con quelle dei personaggi storici, a partire da Benito Mussolini, alla cui liasion con Claretta Petacci il libro dedica pagine intense. Dal sogno di Claretta di Ben che in una notte di luna piena la raggiunge al bivio dell’Appia a Littoria, fino alla fine tragica e ancora in parte misteriosa durante la fuga verso la Svizzera, con la successiva esposizione delle loro salme a Piazzale Loreto a Milano il 28 aprile del 1945.
E poi nel dopoguerra il leader della Dc, Alcide De Gasperi, che nella ricostruzione ironica di Pennacchi, per avere gli aiuti del Piano Marshall, è costretto in dialetto veneto dal presidente americano Truman a buttar fuori dal governo le sinistre (“Tuti i schei che ti vol! Basta ch’at mandi via i comunisti”). Non manca un “cammeo” del segretario del Pci, Palmiro Togliatti, che quando il 14 luglio 1948 subisce un attentato che rischia di provocare una nuova guerra civile, prima di varcare in barella le soglie della camera operatoria, dove il grande chirurgo Pietro Valdoni lo avrebbe salvato, a Nilde Iotti accucciata premurosa su di lui, ripete: “Am racomando, Nilde, dighe de star calmi e de non far i mati, dighe da non far gninte”.
Un romanzo storico corale, dallo stile colorito e piacevole, con dialoghi vivaci, in cui il “fasciocomunista” Pennacchi ci restituisce senza un briciolo di retorica e a tratti con feroce sarcasmo il clima infuocato dell’epoca, ricco di difficoltà e di contraddizioni, che attraversavano entrambi gli schieramenti. Raccontandoci però anche la determinazione, la speranza e la voglia di ripartire dell’Italia che usciva dal buio ventennio fascista.

(pubblicato in versione più sintetica su Il Messaggero, 4 dicembre 2015)

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Novecento, l’altra metà della guerra. Partigiane in armi, vittime di stupri, ostaggi civili: le donne nei conflitti del secolo breve

di Mario Avagliano

   Il Novecento, oltre che il secolo delle guerre, fu anche il secolo delle violenze contro i civili, in particolare le donne, e dello stupro come arma per annientare, annichilire, fiaccare lo spirito del nemico sconfitto. Una strategia bellica che trovò il suo culmine nella seconda guerra mondiale, che fece registrare episodi efferati di violenza sessuale da parte di tutti gli eserciti, non solo quello tedesco. Ma gli anni del conflitto in Italia furono per l’altra metà del cielo anche un’occasione di riscatto, di autodeterminazione, di protagonismo nella vita sociale. Di emancipazione dal tradizionale ruolo di “angeli del focolare” ritagliato per esse dal regime fascista.

Con la maggior parte degli uomini al fronte, prigionieri di guerra, dispersi o deportati, le donne furono chiamate a svolgere lavori prettamente maschili, come condurre i tram nelle città.  E dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e l’occupazione nazista del centro nord della penisola, molte di esse parteciparono alla guerra di liberazione. Non solo come staffette o attiviste politiche, ma anche imbracciando le armi, come le gappiste comuniste Carla Capponi e Lucia Ottobrini.
La storia in rosa dell’Italia tra il 1940 e il 1945 è stata ricostruita nel bel saggio di Michela Ponzani, Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, “amanti del nemico” (Einaudi, pp. 314, euro 25). Un libro che fin dal titolo spiega il carattere “militare-maschile” della guerra, che vide come prime vittime proprio le donne. Vittime dei bombardamenti alleati. Vittime della fame e dei rastrellamenti. Vittime delle stragi e degli stupri di massa.
Per la sua ricostruzione storica, la Ponzani ha attinto al fondo della trasmissione Rai “La mia guerra”, andata in onda nei primi anni Novanta, depositato presso l’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, oltre che all’Archivio della memoria delle donne di Bologna, all’Archivio segreto del Vaticano e a vari altri archivi pubblici e privati. Si tratta di scritti e di memorie private di donne che rivelano tratti solo parzialmente conosciuti delle vicende di quegli anni ed invitano a fare i conti con il sommerso, il taciuto, le forme di rimozione dei crimini di guerra dal racconto pubblico nazionale.
In questo oblio rientrano gli stupri di massa perpetrati dalle truppe tedesche e dai soldati mongoli della CLXII divisione Turkestan, aggregata ai reparti militari della Wermacht, soprattutto in alcune zone dell’Emilia Romagna come la Val Tidone, la Val Trebbia e la Val Nure. Atti di violenza espressamente autorizzati dai vertici militari tedeschi, perché il vero obiettivo non era tanto “colpire i partigiani ma far comprendere alla popolazione quali conseguenze [avrà] anche per i civili il comportamento dei ribelli” avrebbe comportato.
Lo stupro è un’esperienza che sconvolse le famiglie. Le memorie delle donne sono piene di immagini ricorrenti, come quelle di padri, mariti, fratelli resi impotenti di fronte al sopruso inflitto alle proprie donne, incapaci di riprendersi da una ferita non rimarginabile. Esemplare nella sua drammaticità è il racconto di una donna sfollata tra le colline attorno a Marzabotto, proprio a ridosso della strage del settembre-ottobre 1944. Rimasta sola con i figli e con il marito deportato in Germania, la donna viene stuprata ripetutamente da un gruppo di tedeschi. Quei soldati che hanno abusato di lei la sera prima, tornano presso la sua casa la mattina successiva e, non trovandola, minacciano di fucilare tutti i componenti della famiglia, compresi i figli piccoli, se ella non farà ritorno. Sono proprio i due uomini verso i quali nutre più fiducia, il cognato e il parroco del paese, a convincerla a sottomettersi alla violenza per salvare la vita degli altri.
Un altro capitolo è dedicato alle forme di violenza sessuale messe in atto dai fascisti nelle caserme e nelle camere di tortura della RSI, come strumento di punizione del nemico politico, al pari delle bastonature e delle case distrutte e incendiate.
Le violenze sessuali furono perpetrate anche dagli alleati. Quando nel maggio del ’44 finalmente gli angloamericani liberarono il Frusinate, per la popolazione civile fu l’inizio di nuovi saccheggi, uccisioni, torture e stupri di gruppo, soprattutto ad opera dei Goumiers, i militari marocchini e algerini del corpo di spedizione francese.
I racconti delle donne partigiane proposti da Michela Ponzani ci fanno comprendere, infine, che nella loro scelta di libertà vi fu anche una guerra privata, esistenziale per la propria emancipazione dall’educazione fascista e dalla cultura patriarcale e cattolico-tradizionale. Di qui, nel dopoguerra, il rimpianto per la mancata piena realizzazione dei progetti di parità dei diritti con l’altro sesso. Nonostante il diritto al voto e l’articolo 3 della Costituzione, anche per le donne la resistenza fu una sorta di “rivoluzione rimasta a mezzo”. E quando la vita riprese il suo corso normale, le partigiane, le antifasciste e le ex deportate politiche furono rispedite in cucina dai loro padri, fidanzati e mariti. Il percorso dell’uguaglianza era ancora molto lungo da compiere.

(Il Mattino, 12 giugno 2012)

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6 settembre 1943: l’inizio della Resistenza

di Francesco Lucrezi

   L‘8 settembre 1943, com’è noto, l’armistizio di Cassibile segnava uno spartiacque definitivo nella storia d’Italia, ponendo fine - certamente, in modo non particolarmente glorioso e onorevole - alla sciagurata alleanza tra il Regno e il Terzo Reich. Da quel momento, la tragedia della guerra sarebbe proseguita lungo un nuovo tragitto, segnato dal sollevamento della popolazione contro l’ex alleato, dalla feroce vendetta nazista, dalla tragica divisione in due del Paese, dalla Resistenza. Pochi, però, sanno che il vero spartiacque andrebbe fissato due giorni prima, il 6 settembre, una data che meriterebbe anch’essa di essere registrata nei libri di storia, come, auspicabilmente, avverrà.
In tale giorno, infatti, un reparto militare tedesco, in fuga dalla Calabria, si lasciò andare a episodi di razzia e di saccheggio in un albergo nei pressi di Catanzaro, depredando i cittadini ivi rifugiati dei loro averi. Segnalata la cosa all’esercito italiano, stanziato nei pressi, un coraggioso colonnello, Francesco Magistri, decise di intervenire in difesa dei civili, contro il potente e temibile alleato, recandosi sul posto con un drappello di soldati. Tra questi, il sergente, tiratore scelto Giuseppe Antonello Leone, nativo di Francavilla Irpina, già conosciuto e apprezzato - insieme alla moglie, Maria Padula - come pittore di talento. Sfruttando al meglio le sue doti naturali, insieme, di tiratore e di artista - fermezza della mano, acutezza dello sguardo, precisione - il giovane Leone neutralizzò i soldati tedeschi, colpendoli in parti non vitali del corpo, riuscendo così a determinarne la resa, pur senza provocarne la morte.
L’episodio - ampiamente documentato - non è finora uscito dalla schiera dei familiari e dei più intimi amici del protagonista, essenzialmente in ragione della sua naturale ritrosia (le poche volte che ha raccontato del fatto, lo ha sempre fatto con grande “nonchalance” e umiltà - richiamando, in ciò, l’atteggiamento di un altro grande eroe silenzioso, Giorgio Perlasca -, come un semplice atto di adempimento del proprio dovere), ma anche perché, negli anni successivi, la fama di Leone si è andata sempre più consolidando su un altro terreno, quello artistico, fino a renderlo un pittore e scultore tra i più celebrati della scena internazionale.
Ma, in occasione del 95esimo compleanno del Maestro, caduto lo scorso venerdì 6 luglio, la città di Napoli - dove l’artista, nel dopoguerra, ha scelto di vivere -, nel rendere omaggio alla sua figura, ha ritenuto di tributare il dovuto riconoscimento anche al nobile e coraggioso gesto da lui compiuto in quel lontano 6 settembre: e, in una solenne cerimonia, significativamente intitolata “Arte, libertà, resistenza”, svolta presso il Comune, il Presidente dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, Guido D’Agostino, ha illustrato ai presenti l’importanza dell’episodio, e il Sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, ha insignito il Maestro della cittadinanza onoraria, esprimendogli l’ammirazione e i ringraziamenti di tutta la città.
Quel 6 settembre gli ebrei italiani erano ancora dei cittadini di ultima classe, privi di quasi tutti i diritti, alla mercé della furia dei carnefici nazisti. Molto sangue avrebbe dovuto ancora essere versato prima che tale ingiuria venisse cancellata, e in Italia tornassero i valori del diritto, della civiltà, dell’uguaglianza. E’ vero che l’interpretazione di questi valori non appare mai univoca, e che neanche al giorno d’oggi essi possono dirsi definitivamente acquisiti. Ma quel che appare certo e indiscutibile è che nessun discorso, in tema di libertà, avrebbe mai potuto neanche essere iniziato, senza l’abbattimento della tirannide nazifascista. I primi colpi di fucile contro quella tirannia furono sparati, da un soldato dell’esercito regolare italiano, il 6 settembre del 1943. Quel giorno segna l’inizio della fine, e quel tiratore scelto merita la gratitudine non solo della sua città, ma di tutto il Paese, tanto da rendere necessario e urgente - come ci sentiamo di chiedere alle Autorità competenti - il conferimento a Giuseppe Antonello Leone della medaglia d’oro al valore militare.

(L’Unione Informa, 11 luglio 2012)

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