L’archiviazione della Strage di S.Anna di Stazzema: “E’ un atto grave e inaudito”

di Carlo Smuraglia*

Il provvedimento di archiviazione di Stoccarda, nei confronti di alcuni residui imputati della strage di S. Anna di Stazzema, è semplicemente inaudito e colpisce per la sua gravità, dimostrando che in Germania, insieme a persone che hanno “capito” (vedi i discorsi di Schultz a Marzabotto e a Sant’Anna) ce ne sono altre che ancora non vogliono arrendersi di fronte alla durezza della storia e della realtà.
Possibile che la giurisdizione di un Paese prescinda del tutto da quanto si è accertato (e in modo definitivo) in un altro Paese? Certo, non esiste un obbligo di legge di conformazione a quanto altrove accertato, anche se nella sede più alta, ma che si possa addirittura archiviare “per mancanza di prove” per una vicenda storicamente accertata e per la quale dieci cittadini tedeschi sono stati condannati in Italia, in tutti i gradi del giudizio, all’ergastolo, è veramente inaudito e incredibile, perché significa che non ci si è resi conto della orrenda tragedia compiuta, per mano tedesca e fascista, nell’agosto 1944, e non si è pensato non solo alle ragioni imposte dal diritto ma neppure a quelle imposte dalla umanità.
Così le 560 vittime, i loro familiari, i loro figli e nipoti, restano sullo sfondo, come figure
irrilevanti, perché non si è stati in grado di capire che così si rinnova il loro dolore, visto che da anni invocano verità e giustizia, senza successo, perché hanno ottenuto sentenze in Italia, che non sono state eseguite e perché quella di Stoccarda pretende oggi di chiudere anche l’ultimo sipario. C’è da restare attoniti e sgomenti a fronte di provvedimenti come questo, che si muovono – peraltro – su un filone mai estinto ed al quale non è mancato l’apporto della Corte dell’Aja, che ha dato più rilievo al ruolo diritto che non ai valori ed ai diritti umani.
Bisogna perseguire la verità ed affermare le ragioni della storia, contrapponendole ad ogni
tentativo di ridurre la gravità estrema di quanto accaduto in Italia, tra il ‘43 e il ‘45, ad opera della barbarie di una parte dell’esercito tedesco, spesso con l’aiuto dei fascisti.
Bisogna terminare di costruire la mappa delle stragi, avvenute in tutta Italia, completare ed
arricchire le ricerche storiche, condurre in porto i procedimenti penali ancora aperti davanti ai Tribunali militari di Verona e Roma. Ma bisogna anche ottenere una discussione parlamentare seria su tutta la vicenda delle stragi, sulle responsabilità tedesche e fasciste, ma anche sulle responsabilità collegate all’ignobile vicenda dell’armadio della vergogna; responsabilità che devono essere finalmente dichiarate e riconosciute a tutti i livelli, nella loro complessità non solo giuridica ma anche politica. Quindi, deve andare avanti la interrogazione presentata da un intero gruppo di Senatori e reiterata anche alla Camera e bisogna raccogliere tantissime firme sotto la petizione popolare lanciata a Marzabotto.
E infine, bisogna premere sul Governo perché si proceda nella “trattativa” con la Germania, che doveva avviarsi dopo la sentenza dell’Aja e di cui da mesi non si sa nulla. Anche sul punto risarcimento e riparazioni occorre raggiungere qualcosa di concreto e certo, mentre si sta sempre aspettando non si sa bene cosa.
Noi ci riteniamo impegnati a tutto questo e riteniamo che sia la migliore risposta ai Magistrati di Stoccarda, così come ai tanti tentativi di far cadere l’oblio su vicende imprescrittibili perché hanno oltrepassato ogni confine, abbattendosi su civili inermi, su persone ree solo di esistere, calpestando diritti umani che dovrebbero essere intangibili.
Ed è anche questo il modo migliore per esprimere la solidarietà più forte, affettuosa e sincera, alle vittime, ai sopravvissuti ed ai familiari della strage di S. Anna di Stazzema, così come a tutte le vittime ed i familiari della strage di Marzabotto e di tante altre terribili stragi.

* Presidente nazionale dell’Anpi

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Storie – Verso un atlante delle stragi nazifasciste in Italia

di Mario Avagliano

In Italia le stragi nazifasciste contro le popolazioni sono state centinaia e hanno riguardato sia il Mezzogiorno che il Centro-Nord. Tra il 1943 e il 1945 il nostro Paese fu teatro di alcune delle più efferate e sanguinose azioni criminali contro i civili che la storia del Novecento ricordi. Le vittime sono state stimate in un numero vicino a 15 mila, senza contare gli effetti devastanti sull’intera vita di alcune località, come Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema; Caiazzo ed altre.
Un libro intitolato “Le stragi nazifasciste del 1943-1945. Memoria, responsabilità e riparazione”, uscito in queste settimane, edito da Carocci e curato dall’Anpi, ha fatto il punto su queste vicende, attraverso l’analisi del lavoro compiuto in particolare dall’associazione nazionale dei partigiani negli ultimi due anni e attraverso la raccolta delle opinioni di alcuni tra i migliori esperti della materia, in un Convegno tenuto in una sala del Senato il 29 gennaio 2013: Marco De Paolis, procuratore militare di Roma; Claudio Silingardi, direttore generale dell’Insmli; Paolo Pezzino, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Pisa; Andrea Speranzoni, avvocato penalista difensore dei familiari delle vittime nel processo relativo agli eccidi di Marzabotto; Mariano Gabriele, coordinatore della commissione storica italo-tedesca; Toni Rovatti, ricercatrice dell’Istoreco; Enzo Fimiani, storico e direttore della Biblioteca provinciale di Pescara; Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell’Anpi.
Si tratta, com’è noto, di un problema ancora aperto, per la presenza di diversi punti oscuri e la mancanza di accertamenti e decisioni giudiziarie complete ed eseguite nei confronti dei colpevoli delle stragi. I pochi processi che si sono tenuti, si scrive nel volume, si sono celebrati “con considerevole ritardo” (dovuto, in gran parte, alla vicenda dei “fascicoli occultati” nel cosiddetto armadio della vergogna), ma finora “le sentenze emesse non sono state mai eseguite, né per gli aspetti penali né per quelli civilistici”. Una commissione parlamentare, che ha lavorato per due anni attorno a queste tematiche, ha concluso i suoi lavori con due relazioni (di maggioranza e di minoranza), sulle quali non c’è mai stata una discussione parlamentare. Sul piano dei risarcimenti, nulla è avvenuto; si sta discutendo, ora, col Governo tedesco, su possibili forme di “riparazione”. Un primo risultato è l’accettazione da parte della Germania di finanziare “un atlante delle stragi nazifasciste in Italia”, a titolo di primo atto riparatore. Il 13 e il 14 dicembre scorsi si è tenuto a Milano un seminario per definire il progetto dell’atlante, che è stato presentato da Anpi e Insmli. Un primo passo verso quell’assunzione piena di responsabilità che, per aspetti diversi, ancora manca, sia da parte tedesca che da parte italiana.

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Il nazista che arrestò Anna Frank diventò 007 della Germania Ovest

 Karl Josef Silberbauer,l’ufficiale nazista che scovò e fece arrestare la quindicenne Anna Frank, ha lavorato durante gli anni della Guerra Fredda per i servizi segreti della Germania Federale (Bundesnachrichtendienst - BND) come informatore e reclutatore.
A rivelarlo è stato il settimanale tedesco Focus, che ha citato le ricerche effettuate dal giornalista Peter-Ferdinand Koch negli archivi delle SS e della Cia. Ricerche che hanno dato luogo al libro Enttarnt (Smascherato). Nel suo libro, Koch sostiene che furono circa 200 gli agenti di Adolf Hitler reclutati in tempi diversi dai servizi della Germania Federale.
Silberbauer era nato a Vienna nel giugno del 1911. Entrò nella Gestapo nel 1939 e nelle SS nel 1943. L'anno dopo arrestò Anna Frank e la sua famiglia ad Amsterdam. 
Koch cita documenti statunitensi e rivela che l'uomo fu localizzato da Simon Wiesenthal nel 1963. L'anno seguente Silberbauer venne sospeso dal servizio e  posto sotto investigazione, ma venne successivamente liberato in quanto non avrebbe avuto niente a che fare con l'Olocausto. Secondo Focus, invece, l'uomo utilizzò nel lavoro da agente per il servizio segreto tedesco proprio i contatti con i vecchi camerati nazisti. Silberbauer morì nel 1972, a 61 anni.
Annelies Marie Frank,  dopo aver passato due anni nascosta in una casa di Amsterdam, venne arrestata, in quanto ebrea, da Silberbauer e dai suoi camerati nell'agosto del 1944. Morì alla fine di marzo dell'anno seguente nel campo di concentramento di Bergen-Belsen per tifo esantematico. Aveva quindici anni. Il suo diario, scritto mentre viveva in clandestinità ad Amsterdam, è uno dei libri più letti dell'era contemporanea.
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Storie - Giustolisi e l'armadio della vergogna

di Mario Avagliano
 
Vent’anni fa, nel maggio del 1994, a Palazzo Cesi, presso la sede della Procura generale militare, in via degli Acquasparta a Roma, fu ritrovato per caso un armadio, protetto da un cancello chiuso a chiave, con le ante rivolte verso il muro. Conteneva un grande registro con ben 2273 voci, su cui era annotato tutto quel che conteneva o aveva contenuto: 695 fascicoli; con i nomi dei responsabili, nazisti e fascisti di Salò, delle stragi commesse in Italia tra il 1943 e il 1945, da Marzabotto a Sant'Anna di Stazzema, fino alle Fosse Ardeatine. L’armadio era stato occultato in nome della “ragion di Stato” e della logica della guerra fredda, per non destabilizzare il fragile equilibrio che si era venuto creando in Europa con la divisione tra Germania dell’Ovest e Germania dell’Est.
Fu il giornalista e scrittore Franco Giustolisi a realizzare lo scoop, parlando per la prima volta di “armadio della vergogna”, avviando una battaglia per fare luce su quella oscura vicenda e pubblicando il libro-denuncia "L'armadio della vergogna" (Nutrimenti, 2004). Il saggio di Giustolisi, assieme al lavoro di indagine del procuratore Antonio Intelisano, portò all'apertura di quell'armadio, a processi e a condanne. Sulla questione fu poi istituita, con legge n.107/2003, una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazisti. Grazie al suo impegno civile, il giornalista ricevette la cittadinanza onoraria di Stazzema e quella di Fivizzano.
 
Giustolisi si è spento ieri a Roma, a 89 anni. Nato nella capitale il 20 luglio 1925, esordì a "Paese Sera" e 1963 divenne inviato, prima per "Il Giorno", poi per la Rai (Tv7), quindi per il settimanale "Espresso", dove concluse la sua carriera giornalistica. Si è occupato di terrorismo, di mafia e della P2. Insieme a Pier Vittorio Buffa ha pubblicato "Al di là delle mura" (Rizzoli, 1984) e "Mara, Renato e io" (Mondadori, 1988), libro-intervista con Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate Rosse insieme a Curcio.
L'ex ministro della Giustizia, Paola Severino, ha ricordato che quando il procuratore militare Infelisi “riuscì a rintracciare, far estradare e condannare all'ergastolo Priebke”, a quel processo, in cui la Severino rappresentava la parte civile su incarico dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane, Giustolisi “diede un insostituibile apporto di informazione, spiegando ai suoi lettori che si può fare un processo anche dopo cinquanta anni, se le ferite di crimini contro l'umanità, come quelle lasciate dall'orrenda strage delle Fosse Ardeatine, sono ancora aperte e vive nelle lacrime e nello strazio dei testimoni".
Tuttavia la domanda di verità e di trasparenza di Giustolisi sulle tragiche stragi di quel biennio ancora risulta inevasa, perché – come ha ammesso ieri la Presidente della Camera Laura Boldrini, “molti di quei documenti sono tuttora coperti da segreto a 70 anni di distanza”.
 
(L'Unione Informa e Moked.it del 18 novembre 2014)
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Storie – Il bunker segreto di Hitler

di Mario Avagliano 
 
Si torna a parlare delle armi segrete naziste. È stato ritrovato in Austria un bunker gigantesco dove, secondo le primi ricostruzioni, gli scienziati e i tecnici di Adolf Hitler avrebbero lavorato ai test per realizzare una rudimentale bomba atomica e alla produzione del micidiale missile V2 (Vergeltungswaffe, in tedesco arma di rappresaglia), che fu utilizzato dalla Germania nelle ultime fasi della seconda guerra mondiale per colpire la popolazione di Gran Bretagna e Belgio. Si tratta di un complesso sotterraneo, largo più di 75 acri, nei pressi della piccola cittadina di St Georgen, non lontano dal lager di Mauthausen-Gusen. La scoperta risale a fine dicembre ed è stata resa ufficiale e rilanciata dal quotidiano inglese The Independent. 
A portare alla luce il bunker segreto è stato il documentarista Andreas Sulzer, che da anni indaga sulle fabbriche di morte sotterranee del Terzo Reich e che è risalito alla località grazie ad un’annotazione di diario di un fisico tedesco che aveva lavorato nella struttura e al rapporto di una spia americana della Cia del 1944 nel quale si parlava della possibile esistenza di un programma di produzione di armi nella zona. Per individuare il sito, Sulzer e i suoi collaboratori hanno effettuato alcuni test scientifici, scoprendo in prossimità del bunker un alto livello di radiazioni. Durante gli scavi, sono stati rinvenuti elmetti nazisti e altri manufatti delle SS. 
La cosa curiosa è che all’epoca dei fatti la stessa Raf inglese, con un velivolo militare di ricognizione, aveva scattato diverse immagini aeree del luogo, sospettando che nelle cavità sottoterranee fosse nascosta una struttura bellica tedesca. Ma neppure le ispezioni compiute nella zona nell’immediato dopoguerra consentirono di scoprire il bunker, che era stato ben nascosto dai nazisti. 
 
Sulzer ha affermato che si trattava di «un enorme complesso industriale e probabilmente il più grande campo di produzione di armi per il III Reich». In queste cavità migliaia di deportati lavorarono alla costruzione dei missili V2 (un’altra fabbrica del missile era situata nel campo di concentramento di Mittelbau-Dora). Forse anche alcune armi chimiche vennero sperimentate nella struttura e il quotidiano The Independent azzarda l’ipotesi che gli scienziati tedeschi lo abbiano utilizzato pure come laboratorio per il progetto di realizzazione della bomba atomica che, per fortuna, non riuscirono mai a portare a termine. 
Nella costruzione del bunker morirono migliaia di deportati di varia nazionalità. Sulzer sostiene che furono prelevate “centinaia di prigionieri per le loro abilità specifiche, come chimici, fisici o altri esperti, per lavorare a questo progetto mostruoso”. A dirigere il bunker segreto fu chiamato il generale delle SS Hans Kammler, che in quegli anni supervisionò la costruzione dei lager nazisti e fu il responsabile della realizzazione dei missili V2 e del sistema di gallerie sotterranee del Terzo Reich, che comprendeva i campi di Ebensee, Mauthausen e Gusen. Kammler nel dopoguerra entrò nel programma "Paperclip", nome in codice della missione strategica dell'Oss il cui obiettivo era di reclutare gli scienziati nazisti, cancellando il proprio passato, acquisendo una nuova identità e diventando un cittadino americano. 
Secondo le prime ricerche del team di Sulzer, questa struttura segreta era collegata, attraverso lunghi tunnel che correvano sottoterra, ad altri siti militari, tra i quali il B8 Bergkristall, la fabbrica segreta dove venne costruito il Messerschmitt Me 262, il primo caccia a reazione della storia. 
Un altro sito collegato era quello di Mauthausen-Gusen. Nelle gallerie di Gusen già nel 2012 sono stati rilevati elementi di radioattività «26 volte superiori alla norma» che fanno pensare all'esecuzione di test nucleari. Lo storico Rudolf Haunschmied ne è convinto ed ha affermato che dai documenti risulta che "più si avvicinava la fine della guerra, più Gusen diventava cruciale. Hitler esigeva di essere costantemente informato su Gusen. Tutta l'area del campo fu dichiarata 'zona vietata', il lager stesso venne completamente minato. Nessuno, in caso di sconfitta, doveva conoscere la verità". La ricerca continua.
 
(L'Unione Informa e Moked.it del 13 gennaio 2015)
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Storie - Il dottor Morte

di Mario Avagliano
 
Che fine ha fatto il dottor Morte? Un nuovo libro cerca di fare chiarezza (definitivamente?) sulla sorte del criminale nazista Aribert Heim: Il dottor Morte. Storia della caccia al medico boia di Mauthausen, di Nicholas Kulish e Souad Mekhennet, due giornalisti del New York Times (Mondadori, pp. 300).
L'ex membro delle Waffen SS, austriaco, fu medico nei lager di Buchenwald e di Mauthausen e nel dopoguerra venne accusato da diversi sopravvissuti di varie nefandezze, come l’asportazione di organi a pazienti sani, la sperimentazione di veleni e farmaci sui deportati e l’uccisione dei pazienti iniettando loro benzina nel cuore (conservava il loro teschio come trofeo sulla sua scrivania).
Morto Hitler, nel caos post bellico della Germania, Heim riuscì a farla franca, acquisendo una falsa identità e trasferendosi a Bad Nauheim, vicino a Francoforte, dove giocava per la squadra di hockey dei Red Devils. Poi incontrò una ragazza di una famiglia molto ricca, la sposò e si stabilì con lei nella cittadina termale di Baden-Baden, dove esercitò la professione di ginecologo.
 
Fu solo grazie ad alcuni poliziotti tedeschi, tra i quali – racconta il libro – spicca la figura di Alfred Aedtner, che fu finalmente individuato. Aedtner era un cacciatore di criminali di guerra e collaborava con il leggendario Simon Wiesenthal e il suo centro.
Purtroppo Heim sfuggì alla cattura e nel ’62 si diede alla latitanza, scappando a bordo di una Mercedes in Francia, in Spagna, in Marocco e quindi in Egitto, senza essere trovato, nonostante le ricerche scatenate dalla giustizia tedesca, austriaca e israeliana, con una taglia di oltre 300mila euro.
Kulish e Mekhennet hanno ricostruito la sua fuga, anche grazie alla scoperta in Egitto di una valigia di Heim piena di lettere, cartelle mediche e testi sugli ebrei e l'antisemitismo. I due giornalisti, nel loro libro (uscito in Usa con il titolo The Eternal Nazi), svelano come riuscì a dileguarsi e l’incredibile storia successiva. Il criminale nazista, infatti, si nascose in un quartiere operaio del Cairo e poi si convertì all’Islam, col nome di Tarek Hussein Farid.
Il dottor Morte morì forse di cancro nel ’92 e fu sepolto in una fossa comune. Ma ogni tanto si torna a parlare della possibilità che sia vivo. Nel 2010 il direttore del Centro Wiesenthal Efraim Zuroff dichiarò che il caso era ancora aperto perché non "esistono prove scientifico-legali" del decesso. E gli stessi Kulish e Mekhennet ammettono che il suo corpo non è mai stato ritrovato. Il mistero continua.
 
(L'Unione Informa e Moked.it del 21 ottobre 2014)
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'Tempesta'. Gruber, storia di famiglia tra nazismo e fascismo

di Mario Avagliano
 
In ogni tragedia collettiva esiste una responsabilità individuale. Che non risparmia neppure una terra di frontiera come il Sudtirolo, dove anzi l’oscuro passato di molte persone è segnato da due dittature: l'una subita, il fascismo, l'altra sciaguratamente scelta, il nazismo. Dopo il successo di Eredità, Lilli Gruber in questo secondo capitolo della saga della sua famiglia, intitolato Tempesta (Rizzoli, pp. 294, euro 19), riprende la narrazione della vicende di Hella Rizzolli, la sua prozia maestrina dalla penna nera infatuata di Hitler, per seguirla attraverso gli anni violenti della seconda guerra mondiale.
Avevamo lasciato Hella e la sua famiglia perseguitati dal fascismo, perché colpevoli di voler difendere la loro lingua e identità, dopo che nel novembre del 1918 il Sudtirolo e i suoi oltre 250.000 abitanti di lingua tedesca erano passati di colpo dall’Impero austro-ungarico all'Italia. Anche la maestrina era stata portata via dai carabinieri, venuti a prenderla fino in casa dei suoi genitori, a Pinzon, nel 1938. Era stata gettata in prigione, interrogata, condannata al confino dai fascisti in un villaggio in Basilicata. E tutto per aver insegnato il tedesco ai bambini nelle scuole clandestine del Sudtirolo.
 
Il racconto avvincente della vita di Hella, sospeso tra la Storia e la narrativa, e basato su lettere, diari, interviste e documenti d’archivio (con qualche licenza d’immaginazione nella ricostruzione dei dialoghi e di alcuni personaggi), riprende nel 1941, con l’avvio della campagna di Russia, in un’Europa in cui il nazismo dilaga vittorioso.
Hella crede ancora nel Führer, ma lui le sta strappando ciò che ha di più prezioso al mondo: l’adorato fidanzato Wastl, che parte per il fronte russo dopo un’ultima settimana d’amore a Berlino. Sul treno che la riporta a Pinzon, la maestrina conosce un giovane comunista tedesco, Karl, che sotto falsa identità è in fuga da una Germania ormai troppo pericolosa per i nemici del nazismo. Suo padre è stato tra i primi a essere arrestati durante l’epurazione dei comunisti del marzo 1933; la fidanzata Ida è ebrea. Lui ha deciso di rifugiarsi in Sudtirolo.
Ma neppure quella terra incantevole, chiusa tra le montagne, è al sicuro dalle tempeste della storia. L’orrore del nazismo e la realtà della guerra arrivano anche lì, con la loro scia di spie, delatori, approfittatori, e l’appendice violenta della persecuzione degli ebrei, degli oppositori politici e dei disabili (tra cui i 299 pazienti «optanti» dell’ospedale psichiatrico di Pergine, quasi tutti soppressi nel criminale piano nazista Aktion T4). Nel frattempo Wastl muore in combattimento in Russia, Hella si risveglia dal sogno nazista, scoprendo che si tratta di un incubo, e Karl è costretto a confrontarsi con il Mostro nazista, nei panni del fratellastro Oskar.
Una storia d’amore e di sofferenza. Ma nella parabola di Hella si disegna anche la tragedia di un popolo, quello sudtirolese, intrappolato tra due regimi sanguinari e prigioniero di un dilemma: salvarsi la vita o salvarsi l’anima? Un dilemma che molti risolsero facendo la scelta sbagliata, aderendo alla croce uncinata, come Hubert, lo zio della Gruber, fratello maggiore della madre, che partì volontario a diciotto anni. E nel dopoguerra ci fu perfino chi aiutò i familiari di alcuni gerarchi nazisti, tra cui Mengele, Himmler e Göring, a trovare rifugio e una nuova vita in Sudtirolo.
Molti sbagliarono ma non tutti, come sottolinea l’autrice. Perché anche nel Sudtirolo ci fu chi coraggiosamente, come il canonico Michael Gamper e la nipote Marta, pur difendendo il Deutschtum, la germanicità, nel 1939 si schierò tra i Dableiber, ovvero quel 13 per cento di sudtirolesi che non optò per la Germania, osteggiando e combattendo, per quanto possibile, la follia nazista.
 
(Il Messaggero, 25 ottobre 2014) 
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Storie - I volenterosi carnefici di Mussolini

di Mario Avagliano

Nei due anni tragici di Salò e dell’occupazione tedesca del centro nord dell’Italia, numerosi italiani si prestarono ad essere “volenterosi” carnefici dei loro connazionali ebrei. La retata a Venezia del 5 dicembre 1943, ad esempio, fu condotta da poliziotti, carabinieri e volontari del ricostituito partito fascista. E almeno la metà degli arresti degli ebrei poi deportati ad Auschwitz e in altri Lager fu opera di italiani, senza ordini o diretta partecipazione dei tedeschi.

A ricordarcelo, con un agile e documentato saggio pubblicato da Feltrinelli, è Simon Levis Sullam, professore di Storia Contemporanea presso l'Università Ca' Foscari di Venezia, in I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945 (pp. 150), il cui titolo rimanda volutamente a quello del saggio di Goldhagen, "I volonterosi carnefici di Hitler", che ha riaperto la questione sulla responsabilità dei tedeschi (e non solo dei nazisti) nella Shoah.

Anche dopo l’armistizio, l’Italia non rimase “al di fuori del cono d’ombra dell’Olocausto” e accanto ai giusti e ai salvatori, vi furono purtroppo tanti persecutori. Nel libro, oltre che delle responsabilità degli apparati dello Stato e degli uomini di partito, ci si occupa fra l’altro del ruolo dei delatori, che non furono solo fascisti convinti ma anche semplici civili, quasi sempre per motivi di soldi. E perfino alcuni ebrei, come il triestino Mauro Grini, che tra Trieste, Venezia, Milano identificò e denunciò un migliaio di ebrei ("anche di più" - si vantava) dietro lauti pagamenti, e la romana Celeste Di Porto.

(L'Unione Informa e Moked.it del 24 febbraio 2015)

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