I 139 prigionieri famosi che Hitler voleva scambiare per salvarsi

di Mario Avagliano
 
   Sono le nove del 28 aprile 1945. È una livida mattinata di primavera, il giorno prima al Nord ha nevicato. Mentre Benito Mussolini e la sua amante Claretta Petacci sono nelle mani dei partigiani, nel Comasco, e stanno per andare incontro al loro tragico destino, a poche centinaia di chilometri, in Sudtirolo, un convoglio speciale di cinque autobus giunge nel villaggio di Villabassa, a circa trenta chilometri da Cortina d’Ampezzo.
Sotto una pioggerellina gelida, emerge dalla fitta nebbia un gruppo di 139 persone, scortato dalle SS naziste. Uomini, donne, persino una bambina bionda, provenienti da diciassette diversi Paesi. Alcuni vestiti con la divisa a strisce dei lager, altri con giubbe militari prive di spalline e di mostrine, altri ancora con giacche sformate con appiccicato il triangolo rosso dei deportati politici.
Sembrano fantasmi, ma tra di loro vi sono alcuni dei più noti protagonisti della storia d'Europa. Si tratta dei cosiddetti "prigionieri d'onore", personalità eccellenti che in quegli anni di guerra sono stati detenuti in maniera segretissima in vari lager del Reich, da Dachau a Flossenbürg. Heinrich Himmler, il potente ministro dell'Interno della Germania nazista, in vista della sconfitta vorrebbe utilizzarli nelle trattative di pace con gli Alleati.
A raccontare la storia di questo convoglio e le vicende intrecciate dei prigionieri speciali del Fuhrer, con un incalzante stile narrativo accompagnato dal consueto rigore storico, è il bel libro “Gli invisibili” di Mirella Serri (Longanesi, pp. 232).
I personaggi ritratti sono di primo piano. L'ex cancelliere austriaco Kurt von Schuschnigg, incarcerato dopo l'annessione dell'Austria, raggiunto volontariamente nel lager dalla moglie Vera; l'ex vice cancelliere austriaco e sindaco di Vienna, Richard Schmitz; il generale Alexandros Papagos, ministro greco della guerra che aveva fermato e respinto l’invasione italiana; l'ex presidente della banca centrale tedesca, Hjalmar Schacht; l'ex primo ministro francese del Fronte Popolare, l’ebreo Léon Blum; il famoso industriale Fritz Thyssen.
Ci sono anche parenti illustri: Vassilij Kokorin nipote del ministro degli Esteri sovietico Molotov; il consigliere diplomatico Mario Badoglio, figlio di Pietro; il generale Sante Garibaldi, nipote dell'eroe dei due mondi. E ancora: l’ex capo della polizia di Salò Tullio Tamburini (arrestato il 21 febbraio 1945 insieme al suo vice Eugenio Apollonio, con l’accusa di "doppiogiochismo"), diversi figli e parenti dei congiurati dell'attentato contro Hitler del 20 luglio 1944, e il principe Filippo d'Assia, marito della principessa Mafalda di Savoia e genero del re d'Italia. Oltre ad agenti segreti britannici, contesse, giornalisti, teologi, cabarettiste e professori.
Molti di questi prigionieri speciali sono stati rinchiusi nei lager sotto falsa identità e in isolamento. Il loro vero nome era conosciuto solo dai comandanti dei campi. È il caso ad esempio di Léon Blum, che solo nel 1944 vide per la prima volta altri deportati, “il volto segnato da lunghe cicatrici, piedi nudi negli zoccoli, attaccati come bestie a una carretta”.
Tra le vicende raccontate da Mirella Serri, spicca quella dell’aristocratica coppia composta da Mafalda di Savoia e Filippo d’Assia.
Un dossier dell’Ovra, la polizia segreta di Mussolini, ha fatto luce sulla doppia vita di Filippo, che intrattiene rapporti omosessuali ed è stato colto sul fatto al cinema Cola di Rienzo mentre molesta un giovanotto. Nonostante questi “peccati”, il principe viene utilizzato da Hitler come mediatore presso Mussolini e si presta a far esportare capolavori dell’arte dall’Italia alla Germania, come la “Leda e il cigno” di Tintoretto. Poi, nominato governatore dell’Assia, consente agli esperimenti nazisti di eutanasia e al programma Aktion T4 contro i disabili. Finché, dopo l’8 settembre, viene arrestato in quanto genero del re traditore e tenuto prigioniero nel campo di Flossenbürg.
Una sorte ancora peggiore subisce la moglie, la fragile e avvenente principessa Mafalda. Rapita con un sotterfugio da Herbert Kappler a Roma, viene deportata a Buchenwald. Ferita durante un bombardamento anglo-americano a fine agosto del ‘44, viene sottoposta ad una lunga operazione chirurgica, allo scopo deliberato di provocarne la morte per dissanguamento.
I prigionieri invisibili sono destinati alla Fortezza Alpina, il ridotto prescelto dai gerarchi nazisti per l’ultima resistenza contro i dilaganti eserciti nemici. Ma il criminale piano fallisce miseramente. I 139 vengono liberati e la loro storia un po’ scomoda viene dimenticata. Fino a questo libro.

(Pubblicato in una versione più sintetica su Il Messaggero, 12 novembre 2015)

  • Pubblicato in Articoli

Storie – L’eclettico Walter e gli altri Benjamin

di Mario Avagliano

   Il ricordo dei Benjamin non può ridursi solo all’eclettico Walter, uno degli intellettuali più importanti del secolo scorso, suicidatosi tragicamente nel settembre 1940 a Port Bou, al confine tra Francia e Spagna, mentre fuggiva da una tetra Parigi, occupata dai nazisti. All’epoca Walter fu pianto da tutti i suoi amici, da Hannah Arendt a Bertolt Brecht. Ma la storia degli altri componenti di questa famiglia di ebrei tedeschi è altrettanto interessante, come racconta il libro “I Benjamin”, dello studioso Uwe-Karsten Heye (Sellerio, pp. 333).

Scopriamo così che il fratello Georg, medico comunista, fu deportato nel lager di Mauthausen, dove fu assassinato nel 1942, spinto dai carcerieri contro la recinzione elettrificata. La sorella Dora, apprezzata pedagogo, comunista anche lei, che scrisse testi sulla condizione dei bambini poveri che restano tuttora validi, emigrò a Parigi nel 1933, fu rinchiusa nei campi francesi ma riuscì a sfuggire alla Gestapo e a riparare in Svizzera, dove morì per un cancro nel 1946. Infine la cognata Hilde, avvocato, moglie del fratello Georg, con il figlio Michael, visse per dodici anni nel terrore. I nazisti le impedirono di esercitare la professione e il figlio venne schedato come “meticcio” e non poté frequentare le scuole.
Nel dopoguerra Hilde aderì alla Ddr, dove fu vicepresidente della Corte Suprema e poi ministro della Giustizia, in prima linea nel processo di denazificazione della Germania orientale, implacabile contro i criminali nazisti che condannò a morte.
Hilde era definita sprezzantemente “la sanguinaria” dai tedeschi dell’ovest, che non avevano provveduto ad un’analoga pulizia. Adenauer, infatti, in nome della guerra fredda, consentì nei gangli dello Stato la presenza di molti nazisti non pentiti: magistrati, funzionari, ufficiali di polizia e dell’esercito, ma anche giornalisti ed editori.

(L’Unione Informa e Moked.it del 3 novembre 2015)

  • Pubblicato in Storie

Storie - I nazisti della porta accanto

di Mario Avagliano

  Si sapeva che gli Stati Uniti nel dopoguerra reclutarono scienziati nazisti per i loro progetti di ricerca scientifica e che durante la guerra fredda Cia e Fbi in Europa orientale si servirono di SS e ufficiali nazisti come spie antisovietiche, ma erano solo parzialmente note le dimensioni di questo arruolamento che riguardò addirittura migliaia di persone.

A raccontare questa pagina vergognosa della storia americana è il libro “I nazisti della porta accanto. Come l’America divenne un porto sicuro per gli uomini di Hitler” (Bollati Boringhieri, pp. 350), di Eric Lichtblau, giornalista del New York Times, già Premio Pulitzer, che ha potuto esaminare materiale desecretato negli ultimi anni e rapporti d’intelligence riservati, che gli hanno permesso di aggiungere nomi, storie e dettagli.
Scopriamo così che tra gli ufficiali delle SS reclutati dalla Cia c’era anche il tenente Otto von Bolschwing, che a 28 anni aveva scritto un trattato sull’eliminazione degli ebrei dalla Germania, nel quale passava in rassegna ogni forma di persecuzione per rendere un inferno la loro esistenza. Von Bolschwing aveva collaborato strettamente con Eichmann, salvo tradire Hitler nella parte finale della guerra, passando informazioni agli Usa e fingendosi oppositore del nazismo. Nel dopoguerra si trasferì in America, dove divenne dirigente d’azienda e morì a 72 anni.
Un altro criminale eccellente ai quali i servizi segreti statunitensi ripulirono il passato fu Karl Wolff, braccio destro di Himmler, che trattò la resa con Allan Dulles in persona, futuro direttore della Cia, e in virtù della sua attività di superspia vide il suo nome sparire dalla lista degli imputati del processo di Norimberga.
E tante altri nomi e storie emergono dal saggio. Morto Hitler, circa 10 mila tedeschi implicati a vario titolo col nazismo riuscirono ad emigrare negli Stati Uniti, spesso spacciandosi come vittime di quel sistema. Mentre invece erano carnefici o loro complici.

(L’Unione Informa e Moked.it del 27 ottobre 2015)

  • Pubblicato in Storie

Storie – Hitler e l’Inghilterra

di Mario Avagliano

Lo scoop del tabloid londinese Sun sulla foto di Elisabetta d’Inghilterra che nel 1933, all’età di 7 anni, si esibisce nel saluto nazista nella residenza estiva del castello di Balmoral, in Scozia, imitando il braccio teso di sua madre e di suo zio, poi diventato re col nome di Edoardo VIII, riaccende il dibattito sui rapporti oscuri tra i Windsor e il nazismo. E diversi storici inglesi chiedono di aprire gli archivi reali di Buckingham Palace.
Le simpatie naziste di Edoardo VIII era note. Dopo l’abdicazione, causata dallo-scandalo del rapporto d’amore con la divorziata Wallis Simpson, il duca di Windsor fu ospite di Hitler in Germania, nel 1937, e flirtò col regime nazista, finché il governo britannico non lo nominò governatore delle Bahamas proprio per allontanarlo dall’Europa.
La questione su cui si dibatte è se le simpatie di Edoardo fossero condivise dal resto della famiglia Windsor, e in particolare dal fratello minore Alberto, duca di York, futuro re Giorgio VI, che qualche anno dopo, il 3 settembre del 1939, avrebbe dichiarato guerra alla Germania, dopo l’invasione della Polonia.
Su questo punto, il mistero è ancora fitto. La studiosa Karina Urbach, autrice di “Go betweens for Hitler”, un libro inchiesta su questo argomento, ha dichiarato all’Observer che negli archivi reali ogni materiale dopo il 1918 è inaccessibile. E anche i laburisti chiedono di fare chiarezza, rendendo disponibili i documenti agli storici.

(L'Unione Informa e Moked.it del 4 agosto 2015)

  • Pubblicato in Storie

Quando i razzisti salirono in cattedra.... in Germania e in Italia

di Mario Avagliano

Erano belli, brillanti, intelligenti e colti. Furono responsabili della morte di milioni di ebrei. Il nazismo in Germania non fu solo un movimento guidato da folli in preda a deliri di onnipotenza. Hitler si avvalse di una poderosa macchina burocratica e di propaganda che, per funzionare, aveva bisogno di uomini preparati. Giuristi, dottorandi in economia o in storia, giovani laureati costituirono un’élite di intellettuali che svolse un ruolo fondamentale sia dal punto di vista teorico e organizzativo, sia come apparato di esercizio quotidiano del potere.
Ma che cosa spinse questi uomini a mettersi al servizio del nazismo? Un poderoso saggio di uno storico francese, Christian Ingrao, intitolato «Credere, distruggere. Gli intellettuali delle SS» (Einaudi, pp. 405, euro 34), cerca di dare una risposta a questo interrogativo, seguendo i percorsi biografici e culturali di ottanta di loro.

Secondo la tesi di Ingrao, che ha fatto già discutere in Francia e in Germania, grosse colpe sono addebitabili alla cultura bellica e alle vicende della Grande Guerra, che ebbero particolare influenza sui bambini tedeschi di allora, tanto più quelli provenienti dalle aree di confine, che subirono occupazione ed espropri da parte delle Nazioni vincitrici del conflitto. Werner Best, ad esempio, a undici anni durante la guerra perse il padre, il quale gli lasciò una lettera in cui esortava lui e il fratello «a diventare uomini, tedeschi e patrioti».
Gli studenti tedeschi degli anni 1918-1924, futuri intellettuali delle SS, espressero con la massima chiarezza questa angoscia escatologica e costituirono il grosso delle truppe delle varie formazioni paramilitari sorte in quel periodo. La loro militanza proseguiva la lotta contro il trattato di Versailles, che aveva umiliato i tedeschi, per la salvaguardia della nazione assediata da un «mondo di nemici», esterni ed interni, ed ebbe come valvola di sfogo finale l’adesione in massa al movimento nazista.
Il partito di Hitler, col suo progetto di rifondazione della germanità e di affermazione della superiorità della razza nordico-ariana, riuscì ad intercettare il loro consenso, rappresentando il transfert di una rivincita anche ideale di una generazione, il sogno di un invincibile Grande Reich millenario.
La storia divenne così la ragione legittimatrice di una «scienza combattente», di un corpo elitario di intellettuali che, rileva Christian Ingrao, mobilitò a partire dal 1939 il razzismo e l’antiebraismo nella giustificazione della guerra e nella produzione dell’immagine del nemico e in molti suoi elementi non ebbe il timore di sporcarsi le mani nel genocidio degli ebrei, partecipando in prima persona agli eccidi di massa, prima nell’Est europeo e poi anche nel Reich.
La maggior parte degli intellettuali SS sopravvisse all’apocalisse del 1945, subendo molto spesso duri processi, in qualche caso il patibolo e di frequente il carcere.
La parabola degli intellettuali italiani dell’epoca presenta alcuni punti in comune e parecchie divergenze con i loro coetanei d’oltralpe. Anche il consenso degli intellettuali italiani al fascismo trovò, almeno in parte, le sue radici nella prima guerra mondiale, nella delusione conseguente alla cosiddetta vittoria mutilata e nelle ambizioni di costruire un’Italia nuova e potente, erede della Roma imperiale, protagonista in Europa e nel Mediterraneo. Il partito fascista di Benito Mussolini, tuttavia, all’inizio non fu antisemita, anzi molti ebrei militarono nelle sue fila, anche con incarichi di rilievo. La svolta razzista e antiebraica, che negli anni Venti coinvolgeva solo una minoranza di uomini di cultura, prese corpo a seguito della conquista dell’Etiopia.
Giornalisti, artisti e scrittori parteciparono attivamente all’intensa campagna di propaganda antisemita orchestrata dal regime tra il 1937 e il 1938 e dopo l’emanazione delle leggi razziali, avvenuta nell’autunno del 1938, per oltre sei anni intellettuali, docenti universitari, magistrati, avvocati e funzionari di basso e di alto livello prestarono la propria opera al servizio della persecuzione. Un bel libro appena uscito, «Baroni di razza» di Barbara Raggi (Editori Riuniti, pp. 216, euro 22,90), spiega, come recita il sottotitolo, «come l’Università del dopoguerra ha riabilitato gli esecutori delle leggi razziali». Rimasero tutti (o quasi) al loro posto, perfino Nicola Pende, firmatario del famigerato Manifesto della Razza. L’epurazione annunciata dal nuovo Stato democratico non ci fu e l’apparato burocratico, culturale, amministrativo del fascismo “subentrò” a se stesso, in una sostanziale continuità.
I baroni del potere culturale, scientifico, professionale e universitario, che avevano fatto il bello e il cattivo tempo durante il Ventennio mussoliniano, scansarono le dure sentenze della Storia, transitando senza colpo ferire nella Repubblica. Così Gaetano Azzariti, che era stato presidente del Tribunale della Razza, divenne nel 1957 presidente della Corte Costituzionale. E a questo gioco, rivela lo studio di Barbara Raggi, si prestarono anche figure luminose dell’antifascismo, come Guido Calogero, che scrisse una lettera già nel 1944 per difendere Antonio Pagliaro, insigne linguista e glottologo, che aveva fatto parte del Consiglio superiore della demografia e della razza. Grazie a Calogero anche Pagliaro venne degnamente riabilitato nel 1946 e concluse la sua carriera col rango di professore emerito. Segno di un processo di defascistizzazione dell’Italia che fu largamente incompiuto, falsato, come scrive Pasquale Chessa nell’introduzione, dal peccato originale di «un algoritmo del perdono morale etico e politico”.

(Il Mattino, 9 dicembre 2012)

  • Pubblicato in Articoli

Storie – Sam Pivnik e le storie infinite di Auschwitz

di Mario Avagliano

Auschwitz ha smesso di parlare all'oggi? No, e forse non lo farà mai. E fin quando ci saranno sopravvissuti o parenti prossimi di coloro che sono finiti dentro quell'inferno, continueranno ad emergere storie dalla "notte e nebbia" del passato, infrangendo la direttiva nazista che voleva cancellare dalla faccia della terra ogni traccia del passaggio nei lager di milioni di esseri umani.
Una di queste vicende, mai prima di ora raccontate, è quella di Sam Pivnik, figlio di un sarto ebreo, nato a Bedzin in Polonia, che il 1° settembre 1939, giorno del suo tredicesimo compleanno, quando i nazisti invadono il suo Paese, vede spazzata ogni possibilità di futuro. Da quel momento, si legge in «L’ultimo sopravvissuto» (Newton Compton Editori, 326 pagine), il suo libro di memorie appena uscito in Italia, cessa la sua vita normale: conosce il ghetto, i divieti imposti dai tedeschi, il coprifuoco, gli stenti, il terrore per le strade. A seguito di un rastrellamento, tutta la sua famiglia viene deportata ad Auschwitz-Birkenau. Lui è l’unico, insieme al fratello Nathan, a sfuggire alle camere a gas.
Quando Mengele passa in infermeria a selezionare gli ebrei destinati alla morte, il suo dito punta verso il ragazzo polacco, ma Sam si butta ai suoi piedi, inonda di lacrime i suoi stivali, piange, pregandolo di risparmiarlo o di ucciderlo con un colpo di pistola, invece di mandarlo nelle camere a gas. E incredibilmente Mengele lo lascia in vita.
Sopravvissuto alle crudeltà delle SS e dei Kapo, ai lavori forzati nella miniera Fürstengrube e alla “marcia della morte” nel rigido inverno polacco, Sam è infine il 3 maggio 1945 tra i prigionieri sulla nave Cap Arcona, bombardata dalla Royal Air Force, convinta che fosse carica di soldati nazisti che tentavano di fuggire in Norvegia. Ma ancora una volta, miracolosamente, riesce a salvarsi.
Nel dopoguerra Sam si trasferirà a Londra dagli zii e parteciperà alla guerra d’indipendenza del 1948, come membro del Machal, i Volontari per Israele.
Resta da chiedersi perché ha raccontato la sua storia soltanto ora. “E’ una domanda semplice, ma la risposta non lo è – scrive lui stesso -. Quando sono arrivato a Londra dopo la guerra nessuno voleva più sentire di quello che era successo (…) La coscienza mi chiese di dimenticare, di costruirmi una nuova vita, Quello che voi leggerete una o magari due volte in questo libro è ciò che io rivivo ogni giorno e ogni notte della mia vita. Come ogni altro sopravvissuto all’Olocausto. Non è una lamentela. Non lo faccio per essere compatito. È un fatto. E un altro fatto è che un giorno ho capito che dovevo raccontare questa storia. Ufficialmente e poi stamparla. Perché ogni storia dell’Olocausto dovrebbe essere raccontata”.

(L'Unione Informa, 25 dicembre 2012)

  • Pubblicato in Storie

Storie – Salvare dal macero “Il nazismo e i lager”

di Mario Avagliano

Salvare dal macero un libro può essere un'operazione intelligente di Memoria. Tanto più se quel volume è "Il nazismo e i Lager" di Vittorio Emanuele Giuntella, l'opera di un grande storico che conobbe l’esperienza concentrazionaria come internato militare (la legge istitutiva del Giorno della Memoria, com’è noto, riguarda non solo la Shoah, ma anche i deportati politici e gli internati militari). Tra le tante iniziative in corso in tutta Italia, voglio quindi segnalare per la sua originalità quella promossa dal Museo Storico della Liberazione di via Tasso e dal suo battagliero presidente Antonio Parisella. Quello stesso Museo sulle cui mura, il 27 gennaio scorso, alcuni neofascisti hanno scritto ignobili frasi negazioniste, del tipo “Shoah, solo falsità e menzogne” e “Israele boia” (detto per inciso, al solito, nessuna traccia è stata finora trovata dei responsabili).

L’obiettivo è quello di salvare le ultime 1000 copie del libro di Giuntella, "condannate" alla distruzione dal distributore. Un saggio che, secondo Parisella, “costituisce uno dei classici della letteratura concentrazionaria, come ‘I sommersi e i salvati’ di Primo Levi. La prima e fondamentale messa a fuoco di tutte le implicazioni politiche e sociali - dentro e fuori i Lager - dell'organizzazione della persecuzione e dello sterminio. Come per Primo Levi, il Lager emerge pienamente come il luogo dove - con maggiore efferatezza e concentrazione di violenza - il nazismo realizzava il suo modello di organizzazione sociale che intendeva costruire fuori dei Lager ovunque in Europa”.
Quest'anno ricorre il centenario della nascita di Vittorio Emanuele Giuntella e il Museo, non essendo abilitato ad operazioni commerciali, grazie al contributo di alcuni amici ha deciso di fare omaggio di copie del volume a coloro che faranno - nella sede di via Tasso - una sottoscrizione minima di 15 € (prezzo di copertina 24 €).
L’iniziativa ha avuto un grande successo e il 26 e il 27 gennaio le copie a disposizione del Museo sono andate esaurite. Presto ne arriveranno altre. Intanto Parisella rivolge “un appello a biblioteche, istituti, musei, scuole, associazioni perché - nei prossimi mesi - promuovano analoghe iniziative per far conoscere il libro e diffonderlo”.

(L'Unione Informa, 30 gennaio 2013)

  • Pubblicato in Storie

Quel Fuhrer con una faccia da spot

di Mario Avagliano

Hitler simil-bambino, dipinto dall’estroso artista padovano Maurizio Cattelan in ginocchio e quasi in lacrime nel Ghetto di Varsavia ed esposto al pubblico col titolo “Him” (Lui) proprio nel quartiere della capitale polacca in cui molti ebrei furono uccisi o deportati nei campi di concentramento. Hitler testimonial di uno shampoo venduto in Turchia con lo slogan “per maschi al 100 per cento”. Hitler a cartoni animati, con un’acconciatura color ciliegia o in costume da panda e bracciale con la svastica, che spopola sulle magliette e sui muri di Bangkok, in Thailandia.
E ancora: Hitler miagolante, riprodotto in uno strano incrocio di gatti dal manto bianco, i Kitler, con macchie nere che rimandano ai baffi ed alla pettinatura del dittatore tedesco. Hitler scrittore best-seller in diversi paesi arabi, in funzione anti-Israele, con il suo manifesto razzista Mein Kampf.
C’era una volta il Male assoluto. Oggi Adolf Hitler non è più un tabù. E la sua immagine, il suo profilo, addirittura i suoi slogan deliranti e i suoi simboli minacciosi vengono utilizzati indifferentemente per motivi di marketing, per pubblicizzare prodotti di largo consumo, per ragioni di politica internazionale oppure col pretesto dell’arte, del cinema e della letteratura.
Insomma, Hitler Er Ist Wieder, vale a dire "È tornato", come titola il provocatorio romanzo dello scrittore esordiente Timur Vermes, pubblicato in Germania lo scorso anno con una copertina tutta bianca, ornata solo dalla celebre frangia nera del Führer. Un libro che in pochi mesi è schizzato a sorpresa in cima alle classifiche tedesche, è in via di pubblicazione in inglese, in francese e altre quindici lingue (in Italia per Bompiani) e presto forse sarà anche oggetto di una versione cinematografica.

Vermes ha immaginato un redivivo Hitler che si sveglia a Berlino, nella Germania di Angela Merkel, nell’estate del 2011, dopo un letargo durato 66 anni. Scambiato per un imitatore di mezza età che fa la caricatura del dittatore, partecipa a uno show televisivo di un turco-tedesco e grazie ai suoi tic, alle sue pose e ai suoi monologhi fuoco-e-fiamme, che scatenano grande ilarità nel pubblico, diventa una star della tv e del web. Su YouTube i post dei suoi video, in cui racconta barzellette politically-incorrect (proprio come faceva in privato, nella realtà storica), vengono cliccati da milioni di persone.
Si ride, ma a denti stretti, in quanto nella finzione del romanzo, dopo il trionfo come comico e show-man, Hitler torna alla politica. E la sua ricetta populista, da “eroe” dell’antipolitica (nel suo programma s’impegna, tra le altre cose, a combattere le cacche di cane e l’eccesso di velocità), fa breccia nel cuore dei tedeschi, tra chi è deluso dai partiti, chi ignora la storia e chi fatica a sopravvivere a causa della crisi economica.
La satira su Hitler non è una novità assoluta. Il primo a mettere alla berlina il Führer fu il grande comico ebreo Charlie Chaplin nell’irriverente film Il grande dittatore, uscito nel 1940. «Ridere fa bene, ridere degli aspetti più sinistri della vita e persino della morte», affermò Chaplin.
Tuttavia allora il mondo non conosceva l’orrore della Shoah e dei campi di sterminio. Ecco perché, nonostante la vena ironica dello script, il record di vendite del romanzo di Vermes, che ha superato in classifica gente del calibro di Ken Follet e Paulo Coelho, ha suscitato un acceso dibattito in Germania.
Operazione nostalgia? Il quarantaseienne Timur Vermes nega decisamente. Il suo intento, ha dichiarato alla stampa tedesca, è al contrario quello di spiegare che anche nel mondo di oggi esiste il pericolo di un novello Adolf Hitler, in versione 2.0, che sfrutti in chiave elettorale un mix esplosivo di comicità, internet e populismo.
Secondo il quotidiano Süddeutsche Zeitung, invece, il successo del romanzo Er Ist Wieder si spiega con la «strana ossessione per Hitler» che si è sviluppata negli ultimi tempi in Germania: «Hitler appare regolarmente sulle copertine delle riviste; invade i canali televisivi con una frequenza che ci impedisce di fare zapping senza vederlo alzare il braccio; e nelle riunioni familiari non manca mai una parodia del “Führrerrr” con due dita sotto il naso, garanzia di ilarità. Questa fissazione per Hitler – sulla figura comica o sull’uomo come incarnazione del male – rischia di far passare in secondo piano i fatti storici». Per dirla in altri termini, è come se, consciamente o inconsciamente, parlando in modo eccessivo di Hitler, si volessero oscurare le responsabilità del popolo tedesco, scaricandole tutte sul dittatore.
E a Berlino già si guarda con preoccupazione all’appuntamento del 2015, anno in cui scadranno i diritti di proprietà sul Mein Kampf del Land della Baviera e l’opera di Hitler (la cui diffusione e vendita è vietata dal dopoguerra in Germania) potrà essere pubblicata liberamente. Per evitare un uso improprio e rigurgiti del nazismo, la Baviera ha già incaricato uno storico affermato, Christian Hartmann, consulente del film La caduta, che raccontava gli ultimi giorni del Führer, di predisporre un'edizione critica commentata, mettendo in rilievo le manipolazioni e le menzogne di quel testo. Sarà sufficiente?

(Il Mattino, 19 febbraio 2013)

  • Pubblicato in Articoli
Sottoscrivi questo feed RSS