Storie – Carabinieri per la libertà

di Mario Avagliano

   Non solo Salvo D’Acquisto. Seimila carabinieri furono deportati nei lager nazisti e 2700 morirono dopo l’otto settembre 1943 per opporsi al nazifascismo e aiutare ex prigionieri alleati, renitenti alla leva, ebrei. Sono le vicende di cui parla il libro “Carabinieri per la libertà. L’Arma nella Resistenza: una storia mai raccontata” (Mondadori, pp. 168), del giornalista del Corriere della Sera Andrea Galli.
I carabinieri furono protagonisti delle quattro giornate di Napoli in occasione delle quali perfino i colleghi già pensionati si rimisero l’uniforme.
Per la difesa di Roma dopo l’armistizio si mobilitarono anche gli allievi della Scuola dei Carabinieri, comandati dal capitano Orlando De Tommaso, che morì combattendo alla Magliana il 9 settembre 1943.
Ancora nella Capitale, la rete clandestina del generale Filippo Caruso, collegata al Fronte Militari guidato dal colonnello Giuseppe Montezemolo, riuscì a condurre un’opera di resistenza e sabotaggio che si snodò in tutta l’Italia centrale.
Tra i più coraggiosi, c’erano il tenente colonnello Giovanni Frignani e il capitano Raffaele Aversa, protagonisti il 25 luglio dell’arresto di Mussolini, e poi arrestati e uccisi alle Fosse Ardeatine.
Tra le Marche e l’Abruzzo, il capitano Ettore Bianco e il tenente Carlo Canger organizzarono bande armate reclutando volontari di ogni estrazione.
A Milano era attiva la “banda Gerolamo”, dal nome di battaglia del maggiore Ettore Giovannini.
E l’elenco potrebbe continuare a lungo. Uomini come il carabiniere Martino Giovanni Manzo, che il 12 settembre 1943 a Napoli resisté fino all’ultimo proiettile e rimasto inerme, catturato, fu poi ucciso con ben tredici commilitoni a Teverola. Di lui Galli scrive, citando i ricordi di una nipote: «Prima di entrare nell’Arma era stato contadino. Aveva un unico codice di comportamento: lavorare duro perché altrimenti sarebbe morto di fame. L’impegno che mise nei campi fu lo stesso con cui indossò la divisa da carabiniere. Non voleva cambiare il mondo, soltanto fare il proprio dovere».
 
(L’Unione Informa e Moked.it del 13 dicembre 2016)

  • Pubblicato in Storie

Storie - Il Montezemolo partigiano

di Mario Avagliano

   Il 23 settembre del 1943 i tedeschi circondavano il Ministero della Guerra, sede del comando di Roma Città Aperta, arrestando il conte Guido Calvi di Bergolo, genero del re e a capo della struttura, e altri ufficiali, e deportandoli in Germania. L'unico a sfuggire al blitz nazista era il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, che - indossati abiti civili - se la svignava attraverso i sotterranei del Ministero, sbucando in via Nazionale e dandosi alla macchia.
Iniziava cosi l'attività resistenziale di Montezemolo, di cui ho parlato ieri a Firenze, nella bella sede del Consiglio regionale della Toscana. Beppo, così era chiamato in famiglia, reduce di tre guerre (i due conflitti mondiali e la guerra di Spagna), disilluso dal fascismo come milioni di italiani, invece di nascondersi, diede vita al Fronte militare clandestino, che raccoglieva migliaia di militari, carabinieri e civili (tra cui don Pietro Pappagallo), collaborava strettamente con il Cln ed era collegato con Brindisi e il governo Badoglio.
Il Fronte compì atti di sabotaggio, rifornì di armi ed esplosivi le bande partigiane, sottrasse migliaia di militari dalle chiamate di Salò, svolse un'intensa attività di intelligence al servizio degli Alleati e produsse anche documenti falsi come carte di identità e certificati di battesimo che servirono a diverse famiglie di ebrei per sfuggire alla caccia all'uomo scatenata da nazisti e fascisti. Un'organizzazione capillare e importante, con  gruppi collegati in tutta l'Italia occupata.
Dopo lo sbarco alleato ad Anzio, in vista dell'insurrezione, i gruppi clandestini intensificarono le riunioni e gli incontri. Tedeschi e fascisti ne approfittarono per catturare molti esponenti della Resistenza, anche attraverso l'opera di delatori. Come avvenne per Montezemolo, considerato da Kappler il suo "più temibile nemico", che venne imprigionato nel carcere di via Tasso e barbaramente torturato.
Verrà ucciso dai tedeschi il 24 marzo del 1944 alle Fosse Ardeatine assieme ad altri 334 italiani, di cui circa 70 ebrei, gridando "Viva l'Italia! Viva il re!". Gli sarà assegnata la medaglia d'oro alla memoria. La sua vicenda straordinaria e il suo eroismo verranno a lungo dimenticati, in quanto esponente di quella resistenza moderata, monarchica, militare per troppo tempo negletta e che solo dal presidente Ciampi in poi si è finalmente iniziato a studiare e a riscoprire.

(L’Unione Informa e Moked.it del 27 settembre 2016)

  • Pubblicato in Storie

Il Partigiano Montezemolo - il coraggio della coerenza

di Anna Maria Barbato Ricci

   Un recente libro di Mario Avagliano, storico impegnato a scrivere le tante verità sottaciute sul periodo della seconda guerra mondiale in Italia, punta i riflettori su un eroe dimenticato e ingiustamente non conteggiato nelle vicende della Resistenza.

Con “Il partigiano Montezemolo - Storia del capo della resistenza militare nell’Italia occupata”, con prefazione di Mimmo Franzinelli, noto autore di saggi di storia contemporanea (Dalai Editore), l’Autore restituisce all’analisi storica ed alla divulgazione oltre la ristretta cerchia degli addetti ai lavori la figura integerrima ed eroica del Tenente Colonnello Giuseppe (Beppo) Cordero Lanza di Montezemolo, che, nella vacatio post 8 settembre, assunse coraggiosamente le redini della Resistenza militare nel pezzo della Penisola (la maggior parte, Roma compresa) occupate dai repubblichini di Salò e dai nazisti, diventando la Primula Rossa indicata come il nemico numero uno del Generale Kappler.
Fu un personaggio di alto vigore morale e d’adamantina coerenza che, abilmente, fu regista della resistenza operata da quella parte dell’esercito che non si macchiò di viltà e fellonia, ma si schierò, in ossequio al giuramento alla Patria ed al Re (che, forse, non fu altrettanto coerente, allontanandosi per mettersi al sicuro ed abbandonando persino il genero Calvi di Bergolo in balia dei tedeschi), per l’Italia a costo dell’estremo sacrificio.
Il libro ricostruisce, con il sostegno dei cinque figli del Colonnello, fra cui il Cardinale Andrea e la straordinaria donna Adriana, la storia di quest’uomo di eccezionale nobiltà d’animo ed intelligenza superiore.
L’amatissima moglie Amalia, detta Juccia, era la sua compagna d’elezione ed il loro legame fu d’incredibile sostegno morale per Montezemolo, quando, venduto al nemico da un traditore e catturato, fu rinchiuso nel terribile carcere di via Tasso, nella cella n. 5.
Malgrado fosse malamente torturato, non un fiato sull’organizzazione resistenziale militare che egli guidava uscì dalle sue labbra.
La sua condanna alla fucilazione ed all’oltraggio delle Fosse Ardeatine, in fondo, può intendersi come il tragico riconoscimento di cotanto coraggio e fedeltà alla Patria. Morì, infatti, proclamando: “Viva l’Italia”!

(BLOG quartadicopertina.ilcannocchiale.it, 19 settembre 2012)

  • Pubblicato in News

Libri: a Mario Avagliano due premi per “Il partigiano Montezemolo”

(AGI) - Roma, 17 set. - Lo storico e giornalista Mario Avagliano si e' aggiudicato due prestigiosi premi letterari con il suo ultimo libro "Il partigiano Montezemolo" (Dalai editore), una biografia minuziosa e commovente del capo della resistenza militare e monarchica nella Roma del 1943-44, che colma una lacuna nella storiografia sulla Resistenza. Si tratta del Premio "FiuggiStoria 2012", promosso dalla Fondazione Levi-Pelloni, come migliore biografia dell'anno, e del Premio "Gen. Div. Amedeo De Cia", promosso dall'Istituto bellunese di ricerche sociali e culturali, per i saggi di storia militare. Un doppio riconoscimento ad un saggio di grande successo di pubblico e di critica, recensito dai principali quotidiani e media nazionali e giunto in pochi mesi gia' alla seconda edizione.

Aldo Cazzullo, sul Corriere della Sera ha scritto che si tratta di "una biografia che non indulge mai alla retorica o all'agiografia, tenendo ferma la barra di una ricostruzione puntuale e documentata in ogni dettaglio, come e' testimoniato dal ricco apparato di note. Ne viene fuori un libro di storia scritto con il rigore dello specialista e con freschezza narrativa. Insomma, un 'romanzo' non romanzato, che svela un eroe italiano di prima grandezza, che se non fosse stato trucidato alle Fosse Ardeatine, sarebbe stato senza ombra di dubbio un protagonista dell'Italia del dopoguerra". E lo storico Mimmo Franzinelli ha aggiunto che "questa documentatissima biografia rimedia a un'ingiustificata trascuratezza e reinserisce la figura di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo nel circuito storiografico".

  • Pubblicato in News

Montezemolo, il partigiano moderato

Per questo saggio lo scrittore salernitano Avagliano sarà premiato con il “Fiuggi storia 2012”.

  di Alfonsina Caputano

  Un personaggio che era considerato dal comandante della Gestapo a Roma Herbert Kappler il più temuto degli avversari e dal capo delle Forze Alleate, il generale Alexander, il militare più ammirato. Ma anche un uomo che amava la sua famiglia ed era animato da un sano sentimento di patriottismo, che fu la bussola che orientò tutte le scelte. Tutto questo era il colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo, comandante del Fronte militare clandestino e martire delle Fosse Ardeatine. La sua figura sopra le righe, di partigiano con le stellette, è stata delineata dal giornalista e storico Mario Avagliano nel libro “Il partigiano Montezemolo” (Dalai Editore). Il volume oggi varrà all’autore il premio “Fiuggi Storia 2012” nella sezione biografie.

In che modo si è avvicinato alla figura di Montezemolo?
Il primo contatto con Montezemolo, antenato di Luca di Montezemolo, lo ebbi quando studiai la figura del cavese Sabato Martelli Castaldi, medaglia d’oro alle Fosse Ardeatine e suo collaboratore. In quell’occasione raccolsi del materiale, che poi ho approfondito.
Chi era Montezemolo?
Un colonnello di origine piemontese e di nobile lignaggio, che aveva fatto la grande Guerra e combattuto nella guerra civile spagnola. Militare di carriera, monarchico e anticomunista, Montezemolo era ufficiale dello Stato Maggiore dell’Esercito e segretario particolare di Badoglio dopo il 25 luglio 1943.
Quale fu il ruolo che ricoprì dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943?
Comandava il Fronte militare clandestino che avrebbe dovuto coordinare le formazioni partigiane romane con diramazioni in tutta l’Italia occupata dai nazifascisti. Inoltre a lui fu affidata l’organizzazione dei servizi segreti. Due ruoli importanti che ricopriva celandosi dietro l’identità dell’ingegnere Giacomo Cataratto.
Come giunse ad essere fucilato alle Fosse Ardeatine insieme ad altri 334 civili?
Fu catturato il 25 gennaio 1944 e portato nelle carceri di via Tasso dove fu torturato per 58 giorni. Ma dopo l’attentato a via Rasella nel 24 marzo 1944, in cui furono uccisi 33 tedeschi, fu inserito nella lista di coloro che dovevano essere fucilati nella rappresaglia.
Com’era il Montezemolo uomo?
Dalle testimonianze si desume che dovesse essere un uomo dal carattere coraggioso e determinato. Quando morì, a 42 anni, aveva avuto già cinque figli dalla moglie Amalia, la figlia del medico di famiglia e quindi non una nobile, che sposò per amore e che affettuosamente chiamava Juccia.
Perché, secondo lei, di un eroe come Montezemolo non si ha memoria storica?
Perché non rispettava i cliché dei partigiani. Il suo personaggio è stato oscurato dalla storiografia post bellica come è accaduto a molti altri protagonisti della Resistenza di matrice moderata. Con questo saggio spero di aver, almeno in parte, contribuito a farlo conoscere anche alle giovani generazioni.
 
(La Città di Salerno, 22 settembre 2012)

  • Pubblicato in News

"L'Italia s'è ridesta", le pagine di Aldo Cazzullo su Mario Avagliano e il Mezzogiorno

di Aldo Cazzullo

I migliori tra i libri recenti sulla Resistenza, sui militari internati durante la seconda guerra mondiale, sugli ebrei, sul colonnello Montezemolo – il monarchico piemontese divenuto a Roma capo dell’opposizione in armi all’invasore nazista –, li ha scritti uno studioso di Cava dei Tirreni, Mario Avagliano. Il suo primogenito, Alessandro, è cresciuto a Roma. Una volta gli chiesi se si sentisse romano. Lui, che non ha ancora sedici anni, rispose fiero: «Io sono del Sud».

Guardai suo padre, che distolse lo sguardo, per nascondere la commozione. Ricordo quando in un circolo di Cava, dopo che un neoborbonico aveva fatto la sua tirata contro il Nord invasore e persecutore, Mario Avagliano rispose di non sentirsi meno orgoglioso di lui di essere meridionale, ma l’orgoglio non significa prendersela con Garibaldi; significa non rassegnarsi ad abitare case abusive, a lavorare in nero, a dare il voto in cambio di un’elemosina.
Antimeridionali sono i neoborbonici. Termine ormai riduttivo, per definire un movimento assai più vasto, molto attivo sul web, che ha già dato vita a partiti sicilianisti e presto germinerà una Lega del Sud, per la gioia di Borghezio e degli altri leghisti che disprezzano i meridionali e non vedono l’ora di separarsi da loro. Questo movimento si basa su una leggenda di cui gli storici meridionali seri come Rosario Villari ridono – il Regno delle Due Sicilie presentato come il più ricco e avanzato d’Europa –, costruita assemblando fandonie e pezzi di verità, per formulare una tesi consolatoria e per questo affascinante, ma nefasta e controproducente: il Sud è Sud a causa del Nord; la responsabilità dei mali della nostra terra non è nostra, ma di altri italiani. Per cui, non avendo colpe, non ci possiamo fare nulla.
Intendiamoci: è vero che per troppo tempo si è parlato troppo poco della guerra civile che ha insanguinato il Sud dopo il Risorgimento, con atrocità da entrambe le parti. È vero che Napoli prima dell’unificazione era di gran lunga la più grande città italiana, e dopo non lo è più stata. È vero che la politica dell’Italia liberale nei confronti del Sud – spesso condotta da meridionali come Crispi, Di Rudinì, lo stesso Pica – può e dev’essere criticata. Ma ai leghisti del Sud non importa nulla del revisionismo. Altrimenti racconterebbero, accanto all’esecuzione comandata da Nino Bixio, anche il primo e più sanguinoso eccidio di Bronte, la caccia all’uomo in cui venne bruciato mezzo paese e furono linciati sedici tra ufficiali, possidenti, civili. Altrimenti non presenterebbero come una guerra del Nord contro il Sud quella che in realtà vide come prime vittime i patrioti meridionali della Guardia nazionale, che venivano massacrati da quella strana alleanza tra briganti in senso tecnico, partigiani dei Borboni e nostalgici del potere temporale del clero: non esattamente un’alleanza per il progresso.
Ma è inutile dilungarsi nella confutazione. Non è la storia che interessa ai leghisti del Sud. Interessa soffiare sul fuoco del rancore verso il Nord che già esisteva e che vent’anni di invettive bossiane hanno rinfocolato, costruire il mito della grandezza perduta, inasprire le divisioni tra italiani. In perfetta sintonia, anzi complicità, con i nordisti, per cui il Nord non è la Germania a causa del Sud. La colpa è sempre degli altri.
In realtà il Sud è stato, ed è, grande. Ma non certo per i Borbone, dinastia di origine straniera, accanita avversaria del liberalismo e delle Costituzioni e sostenitrice dell’Antico Regime: monarchia assoluta, forca, tortura, Inquisizione, censura, ghetti; e molto oro, certo, che però non era dello Stato e tantomeno del popolo, ma del re. Il Sud è stato, ed è, grande per Vico e Croce, per Falcone e Borsellino (e Chinnici, Cassarà, Mattarella, La Torre, Livatino, Siani, Beppe Alfano, Peppino Impastato…), per la letteratura siciliana che è la più importante del Novecento italiano, per il contributo che i meridionali hanno dato con il loro lavoro alla ricostruzione del paese e al boom economico. Il Sud è la nostra identità, è un’Italia elevata all’ennesima potenza, rappresenta i nostri vizi peggiori e le nostre doti migliori, il familismo e la solidarietà, la spregiudicatezza e la lealtà, la violenza e il coraggio.

(da "L'Italia s'è ridesta" di Aldo Cazzullo, Mondadori, pp. 185-187)

  • Pubblicato in News

Il 9 novembre al Museo Storico della Guardia di Finanza presentazione "Il partigiano Montezemolo"

  Domani 9 novembre, presso il Museo Storico della Guardia di Finanza a Roma (Piazza Mariano Armellini 20), alle ore 17.30, sarà presentato il libro “Il partigiano Montezemolo” (Dalai editore) di Mario Avagliano, storico dell’Irsifar, giornalista e vicepresidente dell’Anpi Roma, giunto in poche settimane alla seconda edizione e vincitore del Premio Fiuggi Storia 2012 e del Premio “Gen. De Cia” sui libri di storia militare. Una biografia minuziosa e commovente del capo della resistenza militare dell’Italia occupata, che agiva nella Roma del 1943-44 e morì alle Fosse Ardeatine.

Intervengono Felice Cipriani, giornalista e saggista, e il capitano Gerardo Severino, direttore del Museo Storico della Guardia di Finanza. Sarà presente l’autore, Mario Avagliano.

IL LIBRO

Un mese dopo la liberazione di Roma, il generale Alexander, capo delle Forze Alleate in Italia, inviò una lettera privata alla marchesa Amalia di Montezemolo, moglie del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo esprimendole profonda ammirazione e gratitudine per l’opera del marito.
Chi era questo colonnello di origine piemontese e di nobile lignaggio (imparentato con Luca Cordero di Montezemolo), ufficiale dello Stato Maggiore dell’Esercito, segretario particolare di Badoglio dopo il 25 luglio 1943, e quale ruolo svolse il Fronte Militare Clandestino di Roma (FMCR) da lui guidato nella guerra contro i tedeschi?
La vicenda del partigiano con le stellette Montezemolo, militare di carriera, monarchico convinto, anticomunista ma in ottimi rapporti con Giorgio Amendola, costituisce un esempio significativo sotto diversi aspetti di come la storiografia abbia per troppo tempo oscurato o sottovalutato personaggi e movimenti della Resistenza di matrice moderata.
Colmando tale lacuna, il saggio di Mario Avagliano Il partigiano Montezemolo (Dalai editore), giunto in poche settimane alla seconda edizione e vincitore del Premio Fiuggi Storia 2012 e del Premio “Gen. De Cia” sui libri di storia militare, ricostruisce la vita di questo valoroso ufficiale attraverso un certosino lavoro di ricerca negli archivi dello Stato Maggiore dell'Esercito, l’intervista di vari testimoni dell'epoca, l’analisi di centinaia di documenti, saggi e libri di memoria, molti dei quali inediti o rari e introvabili, e la consultazione degli archivi familiari, dal cardinale Andrea Montezemolo alla marchesa Adriana Montezemolo fino al primogenito Manfredi e ai nipoti Carlo, Saverio e Ludovica Ripa di Meana.
Ripercorrendo le tappe della vita di Montezemolo – dalla Grande Guerra alla Guerra di Spagna, al suo ruolo nel secondo conflitto e nel colpo di stato che destituì Mussolini e poi come capo della resistenza militare in Italia e a Roma, fino alla tragica morte alle Fosse Ardeatine – il libro contempera l’efficace ritratto storico del Paese con la commovente storia familiare di un padre, marito e militare, descrivendo con efficacia l’abbaglio di una generazione di italiani per il fascismo e il loro riscatto durante la Resistenza.
Il Fronte Militare Clandestino di Montezemolo agì anche in Toscana e nella Maremma, con il Raggruppamento Monte Amiata.
La biografia è corredata da alcuni documenti e da un apparato iconografico di fotografie del personaggio e dei familiari. La prefazione è a cura di Mimmo Franzinelli.
Il saggio di Avagliano ha un andamento narrativo ed è anche piacevolissimo da leggere. Come ha scritto Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera, Il partigiano Montezemolo è: “Un romanzo ‘ non romanzato’, che svela un eroe italiano di prima grandezza”.

Mario Avagliano, giornalista e storico, è membro dell'Istituto Romano per la Storia d'Italia dal Fascismo alla Resistenza (Irsifar), della Società Italiana per gli Studi di Storia Contemporanea (Sissco) e del comitato scientifico dell’Istituto “Galante Oliva”, e direttore del Centro Studi della Resistenza dell'Anpi di Roma-Lazio. Collabora alle pagine culturali de «Il Messaggero» e de «Il Mattino». Ha pubblicato tra l’altro: Muoio innocente. Lettere dei caduti della Resistenza romana (Mursia, 1999); Generazione ribelle. Diari e lettere 1943-1945 (Einaudi, 2006); Gli internati militari italiani (Einaudi, 2009); Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia (Einaudi, 2011), Voci dal lager (Einaudi, 2012).

  • Pubblicato in News

Storie - Pino Levi Cavaglione e il giorno da leoni

di Mario Avagliano

«Marco [Moscati] è ritornato da Roma. I suoi sono sfuggiti alla razzia. Le notizie che egli porta sono raccapriccianti. I tedeschi hanno agito con meticolosa ferocia. Bambini lattanti, donne incinte, vecchi paralizzati non hanno trovato pietà. Venivano caricati sui camion gremiti altri infelici, con selvaggia furia». È quanto scrive nel suo diario il 20 ottobre 1943 il comandante delle bande partigiane dei Castelli Romani, Pino Levi (il cognome Cavaglione lo aggiungerà nel dopoguerra, in omaggio alla madre Emma, deportata e morta ad Auschwitz).
La biografia di questo incredibile personaggio, nato a Genova nel 1911, figlio di Aronne (Nino) Levi, è stata ricostruita per la prima volta nel libro «Il Ponte Sette Luci» (Metauro) di Lidia Maggioli e Antonio Mazzoni, presentato alla Casa della Memoria il 5 dicembre scorso.

Pino, all’epoca giovane avvocato, era un giovane fuori dal comune, che amava la letteratura, la storia, la fotografia, la musica lirica, il pugilato e leggeva in francese e inglese. Antifascista della prima ora, nel 1937 fu iscritto nel casellario politico centrale del Ministero dell’Interno, diventando uno dei 160mila sovversivi italiani. Quello stesso anno raggiunse Carlo Rosselli e gli amici di GL a Parigi per arruolarsi nelle brigate internazionali in Spagna; proposito dal quale dovette recedere per l’intervento del padre Aronne, che andò a prenderlo in Francia e lo riportò a casa.
Arrestato dal regime fascista il 10 maggio 1938, iniziò il suo lungo girovagare per il centro-sud della penisola, al confino prima per antifascismo e poi, dopo l’entrata in guerra, quale «ebreo antifascista». Liberato dal governo Badoglio, Pino dopo l’8 settembre sfuggì all’arresto dei nazifascisti a Genova e si recò a Roma, dove fu assegnato alle bande dei Castelli Romani. Dopo appena quaranta giorni ne diventò il comandante militare, su nomina del Cln. Il 16 novembre i genitori, che si nascondevano a Genova col falso nome di coniugi Parodi, vennero catturati dai nazisti. Il 6 dicembre furono deportati ad Auschwitz, da dove purtroppo non fecero ritorno.
Il titolo del libro (Il Ponte Sette Luci) prende lo spunto dall’azione militare più clamorosa realizzata dalla Resistenza romana. Nella notte di pioggia tra il 20 e il 21 dicembre la banda dei Castelli Romani, con la collaborazione del Fronte Militare Clandestino, portò a termine un’azione spettacolare dal punto di vista bellico. Vennero fatti saltare in aria, quasi nello stesso momento, un convoglio carico di esplosivi sulla Roma-Cassino, nei pressi di Labico, e il ponte Sette Luci della ferrovia Roma-Formia, a circa 25 km da Roma, mentre vi transitava un treno carico di militari tedeschi, provocando circa 400 tra morti e feriti. Gli ordigni per gli attentati e le informazioni sui treni erano stati forniti da Giuseppe Montezemolo.
La paternità dell’azione, per prudenza, fu avvolta da segreto: il Cln non ne diede notizia sulla stampa clandestina e i tedeschi, persuasi che i partigiani italiani non erano così efficienti da compiere azioni di belliche di tale portata, la attribuirono ai paracadutisti inglesi.
Pino Levi Cavaglione nel suo diario così scrisse: «No, dannati tedeschi, questa volta il colpo non vi è venuto dal cielo, non vi è venuto dagli aviatori inglesi. Vi è venuto da noi! Da noi che in questo momento ci sentiamo orgogliosi di essere italiani e partigiani e non cambieremmo i nostri laceri abiti bagnati e fangosi per nessuna uniforme. E vi odiamo, vi odiamo a morte».
Trasferito a Zagarolo e a Palestrina, l’intrepido avvocato conobbe Aldo Finzi, sottosegretario agli interni di Mussolini ai tempi del delitto Matteotti, che collaborò con lui e con la Resistenza. Finzi il 24 marzo 1944 verrà ucciso alle Fosse Ardeatine, assieme a Marco Moscati, catturato a Roma, dove si era recato per recuperare un carico di armi.
Dopo la liberazione, Pino Levi Cavaglione diventò funzionario dell’Alto Commissariato per l’epurazione di Genova. Nel 1946 sposò Margherita Garello, con la quale ebbe due figli: Marco (come l’amico del cuore Moscati) e Maura. Avvocato, militò nel Pci, fino all’invasione delle truppe sovietiche in Ungheria nel 1956, che lo indussero a lasciare il partito e ad iscriversi al Psi.
Nel 1945 uscì la prima edizione del suo diario, «Guerriglia nei Castelli romani», ristampato due volte. Lo recensirà anche Cesare Pavese, con le seguenti parole: «le sue scene hanno davvero l’incredibile verità di un documento fotografico». Il film «Un giorno da leoni» di Nanni Loy s’ispirerà proprio all’azione del Ponte Sette Luci e alle pagine di Pino, mirabile esempio di un racconto della Resistenza senza l’aurea del mito.
Anche la sua avventurosa vita, come quella di Primo Levi, si concluderà prima del tempo, per sua stessa mano, il 27 febbraio 1971.

(L'Unione Informa, 12 dicembre 2012)

  • Pubblicato in Storie
Sottoscrivi questo feed RSS