La fabbrica del consenso. Il libro sul falso mito di Mussolini nelle lettere degli italiani

di Mario Avagliano

Nella storia d’Italia non vi è stato un uomo politico così passionalmente e visceralmente amato (ma anche così detestato) come Benito Mussolini. Il duce, come lui stesso si definì, ha segnato un’epoca, tracciando la strada del totalitarismo fascista in Europa e nel mondo, che da Hitler a Franco e ai dittatori sudamericani, tanti emuli avrebbe avuto nel Novecento. Durante il Ventennio, la fabbrica del consenso messa in piedi dal regime si concentrò nell’esaltazione di Mussolini, avvolgendo la sua figura di un alone di divinità e di immortalità (anche grazie ai numerosi attentati a cui era sopravvissuto), oltre che del crisma dell’infallibilità, in coerenza con l’architettura para-religiosa del fascismo.
La penetrazione capillare del mito del duce nelle menti e nel cuore degli italiani è testimoniata dal corpus straordinario (anche nei numeri) di lettere, cartoline, telegrammi a lui diretti che è conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato e che costituisce l’oggetto del libro «Duce! Tu sei un Dio!» (Baldini & Castoldi, pp. 320, euro 16,90) di Alberto Vacca, che ne propone un’accurata e intelligente selezione antologica, suddivisa cronologicamente dal 1932 al 1943 e per temi e suggestioni.

In modo singolare, lo stesso Mussolini denominò «Sentimenti per il duce» la serie dei fascicoli che raccoglieva questo tipo di corrispondenza. E in effetti il sentimento è la cifra prevalente di queste missive, che rappresentano un termometro attendibile di quel che pensavano milioni di italiani dell’epoca del duce. Gli aggettivi e le definizioni altisonanti accostate al suo nome e alla sua figura si sprecano, a volte con ricchezza espressiva, a volte con l’eccesso di retorica del tempo: «amatissimo», «sommo», «buono, grande, sapiente, intelligente e generoso», «augusto», «magnifico», «Prode», «Giusto», «santo», «benedetto». In percentuale a scrivere di più sono le donne, che, come rileva Vacca, subirono in modo particolare il fascino del duce («ti amo tanto, più di me stessa […] ardo dal desiderio di conoscerti», scrive una diciassettenne). Ma molte lettere sono anche di sacerdoti o monaci, e numerosi bambini e adolescenti, sull’onda del coinvolgimento emotivo delle organizzazioni giovanili di regime, delle sfilate, del mito della romanità e dell’Impero.
I toni delle lettere, lo stile di scrittura (ufficiale o informale), la qualità stessa dei messaggi variano a seconda della personalità del mittente, dell’estrazione sociale e del suo livello di istruzione. Ed è davvero impressionante in questa antologia la ripetitività del concetto di investitura divina del duce – giustamente ripreso nel titolo del libro – da parte dei mittenti delle più varie categorie sociali e classi anagrafiche. Questo è un elemento conosciuto ma spesso sottaciuto dalla storiografia, anche se non sorprendente, visto che lo stesso papa Pio XI, dopo la firma del Concordato del 1929, definì Mussolini «l’uomo della Provvidenza» che era riuscito a ridare «Dio all’Italia e l’Italia a Dio».
È interessante esaminare quali altre rappresentazioni abbia avuto la figura del duce nell’immaginario degli italiani. Vacca ha individuato tre ulteriori importanti categorie: il «Salvatore d’Italia», al quale affidare ciecamente le chiavi del destino della Patria; il «Difensore della civiltà romana e cristiana», «Artefice della Conciliazione fra la Chiesa e lo Stato»; e almeno fino al 1939-1940, l’«Angelo della pace». L’approvazione a Mussolini continuò anche duranti gli anni della guerra mondiale e perfino in quel 1943 che segnò la fine del suo regime. Ancora in aprile un domenicano chiamato in servizio come cappellano militare gli mandava a dire: «Sei il nostro Padre. Noi ti amiamo e siamo pronti a dare la vita per Te. Tu sei la Patria che crede, combatte e vincerà».
Certo, nel corso del Ventennio, i sentimenti degli italiani non furono unanimemente improntati al consenso a Mussolini. L’adesione dell’opinione pubblica al fascismo fu altissima ma non monolitica. Lo stesso Vacca, in un altro saggio, Duce truce, ha analizzato e antologizzato le lettere dei critici del fascismo. Una minoranza di italiani, anche se più consistente di quanto si possa pensare. Peraltro, dopo il primo anno di guerra, a seguito dei rovesci militari sui vari fronti esteri e delle pesanti difficoltà economiche, anche il popolo che aveva mitizzato Mussolini iniziò a interrogarsi su di lui. Ma le menzogne della propaganda dell’epoca sulle sue capacità quasi divine, il suo buonismo, la sua generosità, hanno attraversato il lungo dopoguerra repubblicano e sopravvivono tuttora nel sottostrato di ampie fasce dell’opinione pubblica. Il duce resta quindi una presenza ingombrante, con cui il nostro Paese non ha ancora fatto del tutto i conti. Questo libro contribuisce a svelare le ragioni di fondo della longevità del mito di Mussolini e della sua eredità scomoda e pesante.

(Il Messaggero, 19 settembre 2013)

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Il premio FiuggiStoria 2013 a Claudio Fracassi con “La battaglia di Roma 1943"

Premiati nelle altre sezioni Necci, Santagati e Tangherlini

Verranno consegnati, sabato 28 settembre, in una cerimonia che si terrà nella duecentesca chiesa di Santo Stefano nell’antico Borgo di Anticoli, l’odierna Fiuggi, i riconoscimenti della quarta edizione del Premio Fiuggi-Storia. Il Premio è promosso dalla Fondazione Giuseppe Levi Pelloni e dalla Biblioteca della Shoah-Il Novecento e le sue Storie, in collaborazione con il Comune di Fiuggi, l’Osservatorio sulla Comunicazione Sociale, la Banca Credito Cooperativo di Fiuggi, MediaEventi e Albergatori di Fiuggi. Claudio Fracassi con “La battaglia di Roma 1943. I giorni della passione sotto l’occupazione nazista” edito da Mursia, è il vincitore della seconda edizione del Premio FiuggiStoria per la saggistica. Per la sezione biografie il riconoscimento va ad Alessandra Necci per il libro dedicato alla vita di Nicolas Fouquet, Sovraintendente delle Finanze di Luigi XIV, “Re Sole e lo Scoiattolo” edito da Marsilio. Ad Orazio Andrea Santagati il premio per la sezione romanzo storico per il libro “L’amico del Fuhrer” (Iris4Edizioni).
Il Fiuggi Storia 2013 Opera Prima va al libro “Siria in fuga” di Laura Tangherlini edito da Poiesis. Il FiuggiStoria-LazioMeridionale, sezione voluta dallo storico Piero Melograni e dedicata a don Celestino Ludovici autore di una preziosa “Storia di Anticoli”, ex aequo a Roberto Salvatori per il libro “Guerra e Resistenza a sud di Roma. 8 settembre 1943-5 giugno 1944” edito da Publiesse per conto del Comune di Bellegra e a Loreto Marco D’Emilia per il libro dedicato ad allievi e docenti del Liceo Tulliano di Arpino, “Un’istituzione e i suoi protagonisti, cento biografie rappresentative di una storia secolare”, edito in Arpino nel 2013 dall’Associazione Ex alunni ed amici del Tulliano. Menzione speciale a Francesco Crupi per il libro dedicato alla vita e all’opera dell’architetto Cleto Morelli, uno dei più importanti urbanisti del Novecento, “Cleto Morelli: La forza della coerenza. L’architettura e l’urbanistica di un intellettuale del territorio”. E a Roberto Lughezzani per La lunga strada sconosciuta. Una famiglia ebrea nella morsa del nazifascismo (Marlin Editore). Il trofeo, raffigurante la Menorah di Anticoli, è opera dell’oroscultore Leonardo Rosito.

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Diario proibito. L'Aquila anni Quaranta e la RSI

di Mario Avagliano

Quando mi è stato proposto di scrivere la prefazione per il romanzo storico di Mario Fratti, Diario Proibito. L'Aquila anni Quaranta (grauseditore), ambientato all’epoca della Repubblica Sociale e del primo dopoguerra, ho provato molta curiosità. Cosa spingeva un drammaturgo di fama mondiale, che vive dal 1963 a New York, vincitore di ben sette “Tony Award” (l’Oscar del teatro), autore di decine di opere, spesso a fondo sociale, rappresentate in tutti i teatri del mondo (tra i quali il musical Nine, liberamente ispirato al film 8½ di Federico Fellini, che ha superato la cifra record di duemila repliche), a ripescare dai cassetti un testo scritto negli anni Cinquanta? Pagina dopo pagina, ho capito che Fratti, al pari di quanto fatto in alcune sue opere teatrali (da Tangentopoli a Mafia), in questo suo primo (e per ora unico) testo narrativo, con il suo stile crudo, privo di pudicizia, che spesso colpisce duro alla testa come una sassata, fatto di dialoghi serrati e di frasi secche come fucilate, aveva un intento di denuncia. Sotto tiro c’è l’Italia di ieri e di oggi. L’Italia complice di Mussolini e del nazismo, delle sue violenze e delle sue bestialità. L’Italia che non ha mai epurato i fascisti, anzi li ha riciclati nei posti di comando. L’Italia che tuttora stenta a fare i conti con il Ventennio e con Salò, propagandando il mito di un fascismo buono.
Siamo nel dopoguerra inoltrato. Il protagonista del romanzo è un giovane adulto, impiegatuccio senza infamia e senza gloria, che vivacchia in quel di Venezia, affittuario di una camera nell’appartamento di due donne sole, ossessionato in modo quasi compulsivo dal sesso, solitario o a pagamento. La febbre lo costringe a restare a casa e mentre mette in ordine una vecchia valigia dei documenti, spunta fuori un quaderno dalla copertina scura: il suo diario proibito e dimenticato. Fogli di quando, imberbe sedicenne, aveva aderito a Salò, anche per lo sfizio di vestire la divisa lucida da soldato e uscire armato con una scintillante pistola nella fondina. Fogli vecchi che puzzano, in ogni senso, non solo all’olfatto, e che se qualcuno li avesse trovati nel ’45, avrebbero provato che chi li aveva vergati era un ufficiale “nero”. La scelta dell’io narrante e della sua identificazione nell’adolescente fascista (al quale Fratti arriva addirittura ad attribuire la sua età dell’epoca e il suo nome, Mario) a primo acchito è spiazzante e imbarazza chi legge. L’autore, abruzzese di nascita, come ha spiegato nell’introduzione, utilizza per costruire la sua storia molti ricordi autobiografici ma in realtà già da ragazzo era tutt’altro che seguace di Mussolini. Era animato da vividi sentimenti antifascisti e i suoi amici del cuore erano i partigiani che poi vennero chiamati i “Nove Martiri di L’Aquila”, anche se lui non trovò il coraggio di seguirli in montagna. Tuttavia, man mano che il romanzo va avanti, l’identificazione tra l’autore e il ragazzo di Salò (poi adulto) protagonista della storia mostra tutta la sua potenza evocativa. All’imbarazzo iniziale del lettore, subentra la vergogna. È come guardarsi allo specchio e non piacersi, anzi provare disprezzo per se stessi. È come guardare allo specchio, da italiani, una pagina di storia che abbiamo voluto dimenticare (e che qualcuno addirittura vuole equiparare alla Resistenza), e che invece Fratti ci costringe a rimestare. Inchiodandoci, senza possibilità di scampo, alla lettura di torture, vessazioni, violenze di ogni tipo che subiscono gli oppositori politici, le donne, tutti coloro che finiscono nelle grinfie del Comando di Presidio fascista guidato da un maggiore che per il suo sadismo e il suo opportunismo ricorda da vicino gli aguzzini della banda Koch. Il panorama del collaborazionismo fascista dipinto da Fratti è putrido e fosco. Le pagine del romanzo sono affollate da puttane, delatori, spie, approfittatori, antisemiti o gente che è pronta a mutare atteggiamento verso i fascisti o i ribelli a seconda dell’andamento della guerra. Un panorama che fa ribrezzo, ma di cui vi sono numerose testimonianze storiche. D’altronde Fratti, proprio all’epoca della stesura del romanzo, si era documentato sulle violenze fasciste ai partigiani, per scrivere il radiodramma “Il nastro”, vincitore del premio Rai ma mai trasmesso alla radio. Certo, va detto che non fu sempre così: la Repubblica Sociale non fu solo un covo di violenti, sadici o opportunisti. Ci fu chi, pur nell’errore della scelta, mantenne un contegno dignitoso e aderì alla Rsi in buona fede oppure facendosi gabbare dalla propaganda fascista e nazista che, come è descritto bene nel romanzo, fece di tutto per alimentare l’odio verso gli Alleati. Sullo sfondo, e neppure tanto sullo sfondo delle pagine di Fratti, emerge anche un’altra Italia, quella dei partigiani animati da amor di patria che resistono fieri alle torture e di chi si oppone con coraggio alla barbarie nazista e fascista. Italiani che, in qualche modo, colpiscono anche il ragazzo di Salò, che a volte simpatizza con loro ma, fino alla fine, mai trova la forza di emanciparsi dall’influenza magnetica e dal condizionamento psicologico del maggiore. Il romanzo si conclude con un pugno nello stomaco, nel pieno degli anni Cinquanta. L’ex ragazzo di Salò, ora impiegatuccio, torna al lavoro dopo la malattia e rivela l’identità del suo capo: il maggiore fascista, diventato ricco imprenditore, che forse ha goduto dell’amnistia Togliatti e nell’Italia che si avvia verso il miracolo economico finanzia in parti uguali Msi e Dc, frequentando i comitati civici anticomunisti e le sacrestie. Il commento amaro finale è: “Qualcosa mi lega ancora a lui. Quello che ho taciuto”. Il silenzio della Storia. Un silenzio che dura ancora oggi. E che lega irrimediabilmente l’Italia fascista a quella del ventunesimo secolo.

(Prefazione al libro di Mario Fratti)

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Storie - La "sorella" di Anne Frank

di Mario Avagliano

All’inizio degli anni Quaranta due ragazzine, una dai capelli neri acconciati con cura, che indossava “sempre bluse e gonne immacolate con calzettoni bianchi e lucide scarpe di vernice”, l’altra “un maschiaccio biondo”, con i vestiti in disordine che giocava a biglie e faceva capriole sulla piazza, giocavano allegre per le strade di Merwedeplein, ad Amsterdam. Anne Frank ed Eva Schloss erano nel pieno dell’adolescenza e non immaginavano quale sarebbe stato il loro futuro. Di Anne sappiamo tutto, anche grazie al suo straordinario diario. La storia di Eva, invece, almeno in Italia, è ignota a molti, e ce la racconta lei stessa nel libro Sopravvissuta ad Auschwitz (Newton Compton Editori), arrivato in questi giorni in libreria. Nelle pagine della sua memoria scorrono le immagini della sua infanzia in Austria, della campagna antisemita, dell’avvento dei nazisti e della fuga nel 1938 in Belgio e poi in Olanda, dove Eva stringe amicizia con la loquace Anne, che conquista tutti con le sue storie e il suo eloquio brillante e che scherzosamente le amiche chiamano “Signora Qua Qua”.
I tempi felici non sono destinati a durare. Nel maggio del 1940 i tedeschi invadono l’Olanda e già a partire da agosto emanano le prime leggi contro gli ebrei. Due anni dopo, scatta l’imposizione di portare sugli abiti una stella di David gialla, con la scritta Jood, e la famiglia Schloss, come tante altre, decide di entrare in clandestinità. L’11 maggio 1944, però, giorno del suo quindicesimo compleanno, a causa di una delazione Eva viene arrestata dai nazisti assieme alla madre Fritzi e deportata ad Auschwitz. La sua salvezza è merito in parte del caso e in parte della forza di volontà della mamma, che nel lager lotta con tutte le sue forse per proteggerla. Quando nel gennaio del 1945 il campo viene liberato dall’Armata Rossa, Eva torna a casa con la madre e inizia la ricerca disperata del padre e del fratello maggiore Heinz, che purtroppo sono morti. Ad Amsterdam, però, il suo destino s’incrocia di nuovo con Anne Frank, o meglio con ìl padre di lei Otto, che intreccia una relazione sentimentale con la madre Fritzi, che poi sfocia nel 1953 nel matrimonio. Incredibilmente, quindi, la sua vita si lega di nuovo a quella ragazzina dai capelli scuri conosciuta anni prima. Nel 1986, trasferitasi a Londra da quarant’anni, Eva, che ha lavorato come fotografa professionista, usando all’inizio la Leica con cui Otto Frank aveva immortalato la sua Anne, all’inaugurazione di una mostra itinerante su Anne Frank per la prima volta racconta la sua storia. Da quel momento in poi diventa una Testimone e inizia a girare il mondo per far conoscere la sua esperienza, a cui è stata dedicata anche la pièce teatrale And They Came for Me: Remembering the World of Anne Frank.

(L'Unione Informa e moked.it del 22 ottobre 2013)

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Storie – Alle origini dei Protocolli in Russia

di Mario Avagliano

Negli anni Venti Adolf Hitler – a quel tempo pittore dilettante pressoché sconosciuto – scriveva che l’accanito tentativo di dimostrare la falsità dei Protocolli dei Savi di Sion ne provava l’autenticità. Negli anni Trenta Julius Evola, nella prefazione all’edizione dei Protocolli curata da Preziosi, affermava che non era necessario accertare l’autenticità del testo, perché la realtà storica ne dimostrava la veridicità. La veridicità o l’autenticità di un falso che, come scriverà all’alba della seconda guerra mondiale Henri Rollin, sarebbe divenuto il più diffuso nel mondo dopo la Bibbia.
Nei volumi dedicati ai Protocolli dal dopoguerra in poi si analizza la storia, spesso romanzata, di questa calunnia, alla ricerca, quasi sempre, di uno o più falsari in terra francese, senz’affatto spiegare in modo chiaro le origini dell’intera questione. Rara eccezione è l’analisi lessicale e filologica dei Protocolli operata ne Il manoscritto inesistente da Cesare G. De Michelis, che firma la prefazione anche di uno stimolante saggio appena uscito in libreria: L’ombra del kahal. Immaginario antisemita nella Russia dell’Ottocento di Alessandro Cifariello (Viella 2013 – pp. 278).
In questo libro Cifariello esamina la preistoria dei Protocolli in un ambiente russofono ed analizza la questione ebraica in Russia e la diffusione dei miti attorno agli ebrei e alla comunità ebraica nella letteratura russa dell’Ottocento. Cifariello si sofferma in particolare sulla subcultura antiebraica propria della cultura russa del XIX secolo e sulla giudeofobia, ovvero quella recondita paura degli ebrei che, inizialmente sotto-testo narrativo, diventerà successivamente accusa reale capace di scatenare distruzione e morte attraverso i pogrom antiebraici.
Il titolo del saggio di Cifariello riecheggia quello pubblicato nel 1869 da Jacob Brafman, ebreo convertito, diventato giudeofobo, che era intitolato appunto Il libro del Kahal. Brafman utilizzò il termine Kahal, che indicava la forma di autogoverno delle comunità ebraiche dell’Europa orientale, in modo distorto, con il significato di potenza occulta che, attraverso una cospirazione planetaria, attuava il programma di dominazione del mondo e di disgregazione fisica e morale dell’Impero russo.
Di grande interesse è anche la rassegna operata da Cifariello della lunga serie di testi pubblicati sulle pagine di riviste e quotidiani russi, in cui i due schieramenti contrapposti – i giudeofili e i giudeofobi (tra cui figurano personalità di spicco come Suvorin e lo stesso Dostoevskij) – si combattono a colpi d’inchiostro sul campo della questione ebraica. Una rassegna che attesta il passaggio d’idee e miti della giudeofobia dalle riviste ai romanzi, e dimostra quanto la bellettristica, ovvero la letteratura dilettantesca, sia stata parte di un più complesso sistema culturale, assieme alla pubblicistica e alla pamphlettistica reazionaria e conservatrice, e come abbia generato al proprio interno, a cominciare dagli avvenimenti storici della seconda metà degli anni settanta dell’Ottocento, un particolare genere di romanzo: quello giudeofobico, in cui il complotto ebraico viene presentato a tinte fosche, a volte persino con gli strumenti del romanzo gotico o del mistero.
Ne sono esempio le opere di cinque scrittori, oggi (fortunatamente) dimenticati, ma molto popolari nel periodo d’attività: Boleslav Michajlovič Markevič, Nikolaj Petrovič Vagner, Vsevolod Vladimirovič Krestovskij, Ieronim Ieronimovič Jasinskij, Savelij Konstantinovič Efron-Litvin. L’ombra del Kahal è, dunque, una profonda analisi letteraria sulle origini, tra storia e mito, dell’antisemitismo russo. Un’opera preziosa per indagare sulle origini dei Protocolli.

(L'Unione Informa e Moked.it del 29 ottobre 2013)

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Storie – Amore al tempo della Shoah

di Mario Avagliano

Una storia d’amore al tempo della Shoah. Siamo nella Francia occupata dalle truppe naziste. La promessa della bella Fernande e del poeta André (figura ispirata a Jean Cocteau) è un gesto sentimentale e di speranza: se sopravvivranno alle persecuzioni naziste, torneranno insieme nella villa sotto il faro bianco, a picco sul mare del sud.
Dopo Conta le stelle, se puoi, in cui aveva cancellato la guerra e l’olocausto per regalare ai suoi personaggi un destino diverso e piú giusto, Elena Loewenthal nel suo nuovo libro, La lenta nevicata dei giorni (Einaudi), il cui titolo richiama una poesia di Primo Levi, racconta di nuovo quel buco nero della Storia, durante e dopo, tra Parigi, la Costa Azzurra e l’Europa infiammata dalla guerra.

Un mondo in cui, nonostante tutto, al centro di ogni moto resta la vita, che attecchisce anche in quel deserto dei sentimenti imposto da Hitler e dai suoi scherani.

(L'Unione Informa e Moked.it del 5 novembre 2013)

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Storie – La Shoah raccontata ai bambini

di Mario Avagliano

E’ possibile parlare della persecuzione degli ebrei ai bambini? Quale linguaggio, quali parole, quali immagini utilizzare? Dopo il fortunato libro ad illustrazioni sulla Resistenza (Fulmine un cane coraggioso), Anna Sarfatti e Michele Sarfatti firmano un altro pregevole volume, intitolato L’albero della memoria. La Shoah raccontata ai bambini (Mondadori, pp. 64), impreziosito dai disegni di Giulia Orecchia.
Il libro segue in versi e disegni, con sensibilità e tenerezza e con il supporto di un appendice storico-documentaria, le vicissitudini di Samuele Finzi (detto Sami) e della sua famiglia, che vivono a Firenze, dove conducono una vita serena, secondo i precetti della tradizione ebraica. Nel giardino della loro casa c’è un vecchio olivo, nella cui cavità Sami ripone i suoi “tesori” di bambino.

Nel 1938, con le leggi razziali, la vita dei Finzi cambia per sempre: i genitori devono abbandonare il lavoro, Sami la scuola e gli amici, gli zii sono costretti ad emigrare. Con lo scoppio della guerra il clima persecutorio nei confronti degli ebrei si fa sempre più duro e, dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca, i Finzi entrano in clandestinità. Sami trova rifugio in collina, col falso nome di Emilio Zini, presso i nonni dell’amichetta Francesca. I genitori vengono arrestati e spariranno nel buio dei lager. I tesori di Sami restano nell’olivo. Dopo la liberazione, tornerà a Firenze a recuperarli, trovando una vecchia fotografia che lo ritrae assieme ai genitori e il vecchio orologio del padre, che fa ancora tic tac e che accosta al cuore.
Il libro ad illustrazioni di Anna e Michele Sarfatti è un modo intelligente di parlare di Shoah ai bambini della scuola dell’infanzia e primaria, senza indulgere alla retorica e alle immagini crude o forti, e riflettendo anche sul periodo delle leggi razziali e delle responsabilità fasciste e italiane, che spesso è trascurato o messo in ombra. E i due autori colgono l’occasione per utilmente spiegare anche alcune nozioni di cultura ebraica, dalla sukkàh al Bar Mitzvà.

(L'Unione Informa e Moked.it del 12 novembre 2013)

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Shalom7 - Presentato a Roma il volume ‘Di pura razza italiana' di Avagliano e Palmieri

Grande successo ieri a Roma per la "prima" del libro Di pura razza italiana di Mario Avagliano e Marco Palmieri (Baldini & Castoldi), che si è tenuta in una sala gremita di folla a Palazzo Valentini, sede della Provincia, a cura della Comunità ebraica di Roma e del Centro di Cultura ebraica. Due ore serrate di interventi e letture del libro, a cura dell'attore Alessio Di Caprio.

Dopo il saluto del commissario Riccardo Carpino, il presidente della Comunità ebraica, Riccardo Pacifici, ha sottolineato l'importanza di un libro che scalfisce il muro di silenzio che per lungo tempo ha coperto il tema delle leggi razziste italiane del 1938, in occasione del 75° anniversario della loro emanazione, pronunciando anche un duro J’accuse nei confronti delle istituzioni: «L'Italia non ha mai chiesto scusa agli ebrei, a differenza di quanto hanno fatto la Germania e la Francia».

Del libro hanno discusso, con i due autori, lo storico Amedeo Osti Guerrazzi e i giornalisti-storici Aldo Cazzullo e Roberto Olla.

Amedeo Osti Guerrazzi lo ha definito «un libro estremamente importante e completo, perché sulle leggi razziste c'è stata una immensa rimozione di massa, un oblio condiviso, che ha coinvolto l'intera popolazione e nessuno ha voluto vedere, sapere, capire cosa stava succedendo. Questo volume contribuisce a fare luce sulla galleria degli orrori dell’antisemitismo italiano».

Anche Aldo Cazzullo - autore di una appassionata recensione sul Corriere della Sera del 19 novembre - ha sottolineato che «questo libro chiama in causa la coscienza di tutti gli italiani. Una vulgata molto diffusa racconta che Mussolini fu uno statista provvido fino al '38, quando commise l'errore di legarsi a Hitler che lo trascinò nella persecuzione degli ebrei e nella guerra. Questo libro ha il grande merito di smascherare questa vulgata».

«Un libro necessario - ha aggiunto Roberto Olla, che ha moderato il dibattito toccando punti caldi e centrali che hanno coinvolto anche il pubblico in sala con interventi e domande - perché il binario su cui correvano le opere di divulgazione su questo tema era troppo stretto nel dualismo fra le leggi razziste volute dal regime da un lato e i giusti italiani dall'altro. Per questo è un libro da divulgare, se vogliamo che il nostro presente faccia i conti col nostro passato».

E’ stato letto anche un messaggio del ministro dei Beni culturali Massimo Bray, il quale ha scritto tra l’altro: «L’approvazione delle leggi razziali rappresenta, ancora oggi, una ferita aperta e una pagina buia della nostra storia del secolo scorso. A 75 anni dalla loro promulgazione, il volume che oggi viene presentato ha il pregio di voler costituire un ulteriore e prezioso tassello per la ricostituzione di una imprescindibile memoria collettiva, radice di ogni vero spirito democratico e speranza per un futuro di pace, a difesa della persona e dei suoi diritti inalienabili».

Nella parte finale dell’incontro, Mario Avagliano si è soffermato sulla genesi del libro Di pura razza italiana, nato da uno stimolo dello storico Michele Sarfatti, che in varie occasioni aveva evidenziato un gap della ricerca sullo «spirito pubblico» della popolazione italiana non ebrea di fronte alle leggi razziali. «L’enorme mole di relazioni dei fiduciari del regime, di diari, di lettere, di documenti e di articoli della stampa coevi che abbiamo esaminato – ha affermato Avagliano – hanno smentito le affermazioni di Renzo De Felice, secondo cui gli italiani subirono le leggi razziste. Man mano che siamo venuti in possesso di questi documenti, è venuto fuori il ritratto di un’Italia molto piccola, fatta di persecutori, complici, approfittatori, sciacalli, opportunisti o tutt’al più di indifferenti. pochi i gesti di solidarietà, e quasi sempre in ambito privato».

«Ed è proprio questo il principale intento del libro, fare i conti, attraverso la rigorosa analisi del documenti e delle fonti, con un passato troppo a lungo coperto da una cattiva coscienza”, ha concluso l’altro autore, Marco Palmieri.

(Shalom7, 21 novembre 2013)

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