Libri. ‘L’Italia di Salò 1943 -1945′. Le voci ritrovate della galassia della Rsi

di Renato de Robertis

Idealisti, camice nere ‘22, gentiliani, funzionari di Stato, militari che avevano compreso tutto o capito poco, gente comune, aristocratici anti-americani, giovanotti con il gusto dannunziano dell’azione, uomini e donne che non si riconoscevano in quel sovrano che aveva abbandonato la capitale, uomini realisti alla ricerca di uno stipendio, ausiliare che aiutavano i propri uomini; italiani insomma; solo italiani sicuri o smarriti, perché per loro “si apre un periodo difficile e complesso poiché il governo e la monarchia non hanno fatto granché per preparare concretamente lo sganciamento dall’alleato tedesco.” Poi, venti anni di Stato fascista, bello o brutto, non potevano mica sparire in una lunga sera di luglio. Le scelte da farsi erano tante: da una parte un Badoglio pasticcione, dall’altra un Mussolini stanco. Ma, prima di tutto, gli uomini non riuscivano a bruciare la divisa, non sapevano dimenticare il sangue versato nel deserto o nella steppa ghiacciata.

I ragazzi italiani non accettavano il Si salvi chi può! Come Raimondo Vianello. Il suo colonnello gli disse di scappare in quel 9 settembre del 1943. Nella vita si perde in un attimo; si sta pure dalla parte sbagliata; ma il ragazzo Raimondo non potevano abbandonare la battaglia, “Morti ce ne sono stati da tutte e due le parti, ma chi è andato su, sapeva di finire male. Non va abiurato.” Sono molte le testimonianze storiche ritrovate da “L’Italia di Salò” di Mario Avagliano e Marco Palmieri. Questa ricerca storiografica ha il merito di scavare tra i diari e gli epistolari, tra le relazioni ufficiali dei ministri e le informative delle polizie, tra la corrispondenza censurata e i notiziari della Repubblica sociale. Colpisce il ricorso alle lettere dei soldati: il ricorso alla storia minore che aiuta a comprendere la grande storia. Ed ecco i militari che si arruolarono, come Emanuele Frezza di Barletta che non concepiva il combattere con altri eserciti dopo aver avuto accanto i tedeschi per tre anni. I partigiani comunque capivano la “buffonata di un Re  e d’un Badoglio che, fuggendo, ordinano la resistenza a un popolo che ha in odio le armi. E l’errore madornale dei partiti. Scambiano gli uomini fuggiti per i monti con soldati pronti alla resistenza” lo scriveva il partigiano Claudio Sartori, sul foglio “Il ribelle”.

Il lavoro storiografico di Avagliano e Palmieri sollecita domande: dopo pochi giorni, successivi alla dichiarazione dell’armistizio, perché 94.000 militari italiani rientrano nell’esercito alleato italo-tedesco? Lo storico ha l’occasione per decifrare la complessità nazionale del ’43; la quale realizzava, nel giro di pochi mesi,  un esercito di quasi mezzo milioni di repubblichini. Un esercito che però non era solo un fatto politico, ma rappresentava un evento spontaneo, “Prima dell’8 settembre non mi sono sentito né fascista né antifascista, ho sempre cercato di fare il mio dovere  nel migliore dei modi. Però quel giorno sono cambiato, ti dirò che oltre a sentire il mio amore per la patria tradita mi sono sentito fascista…” lo scriveva un sergente di Lucca alla mamma, alla sua coscienza di italiano.

“L’Italia di Salò” è una raccolta di dati preziosi e di voci perdute. Lo Stato sorto sul lago, dichiarato fantoccio, era però composto di funzionari che, solo pochi mesi prima, avevano lavorato per l’apparato statale monarchico; funzionari meridionali, che, con la guerra tedesca, non avevano nulla in comune, volevano lavorare e poi si ritrovarono a pagare di persona.  In generale, questa ricostruzione  dice che “L’Italia di Salò” è una realtà da decifrare maggiormente, non solamente una realtà riferita da una storiografia politica, la quale non volle approfondire l’analisi sul consenso a quella repubblica nata lungo sponde nebbiose.

Dal 1943 1945, fiducia e sfiducia facevano egualmente male. Soldati sbandavano. I bandi di reclutamento spaventavano, “Sulla carta la chiamata riguarda circa 186.000 uomini… ma se ne presentano 87.000”, perché gli americani avanzavano, la guerra stava finendo, la gestione del reclutamento era difficile per le quattro divisioni repubblichine organizzate in pochi mesi. Allora, il capitano degli alpini Eugenio Bonardi testimoniava alla famiglia, “Non pensavamo più che avremmo vinto la guerra, ma consideravamo doveroso di vender cara la pelle e di ridare il senso dell’onore all’esercito italiano così duramente vilipeso.”

Gli italiani di quel triennio parlano in questa ricerca storiografica fatta bene. E ci sono le voci guascone dei veterani di Spagna. Le parole dei funzionari imborghesiti del Ministero dell’Interno. Con le reclute che bussavano alle caserme, però “né alloggi, né coperte” erano stati approntati e “il vitto sarebbe stato completamente insufficiente.” Vicende all’ italiana. Naturalmente. Caserme in cui si scopriva la passione dei diciottenni che si arruolavano per una rivolta generazionale contro la monarchia. (Chi fu che scrisse che i ragazzi di Salò anticipavano di tanto il 1968?) Quando scorgevano i giovani della X Mas o della Gnr, gli anziani comunque scrivevano, “I nostri soldati si vedono di nuovo circolare ovunque rispettati e quelli che danno l’esempio sono i giovanissimi  delle ultime classi, di 15 16 17 anni. Ciò vuol dire che il nostro tempo non è andato completamente perduto…” come si legge in una lettera genovese.

Avagliano e Palmieri scrutano nella galassia repubblichina. Guardano pure nell’ anomalia guerriera che fu la Decima Mas, un esercito nell’esercito, una concezione spartana: tutti insieme al rancio, promozioni solo conquistate sul campo, tante polemiche contro il vecchio Graziani. Marò del sud o del nord. Universitari romani che chiedevano di esser chiamati al fronte, pur avendo l’esenzione universitaria; volontari che aderivano, nel 1945, giorni prima della sconfitta; fascisti clandestini in Sicilia, in nome della Rsi, ossia nove studenti guidati da Cataldo Grammatico, detto Dino, tutti personaggi da romanzo alla Buttafuoco. Anime battute, anime bruciate. Esistenzialismo nero, “O si vince o si muore!” scritto da un volontario della Gnr.

Con Mussolini ammazzato, la nostalgia parlava ad una patria morta nel settembre ’43 – come insegnò Renzo de Felice -; ma i giovani repubblichini non volevano mica smettere di parlare; ecco, allora, la voce finale di Giorgio Pisanò, “E avevamo vent’anni. Con la vita davanti per dimostrare a noi stessi e agli altri di che pasta fossimo fatti”, giacché non era più questione di sistemi ideologici ma di pasta, di pelle, di sangue.

Mario Avagliano Marco Palmieri, ‘L’Italia di Salò 1943-1945’, Il Mulino, pagg. 473, euro 28.00

(@barbadilloit, 22 marzo 2017)

Il fascismo e i ragazzi della bella morte

di Generoso Picone

«L'Italia di Salò» è il titolo del libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri (Il Mulino, pagg. 489, euro28) che venerdì alle 18 sarà presentato presso il Circolo della Stampa di Avellino. Con Avagliano interverranno Federica Caprio, Berardino Zoina, Luigi Anzalone e Generoso Picone.

«Noi eravamo quelli là ragazzi alla deriva, le ultime scorie di una mareggiata, delusi, incattiviti, avevamo commesso violenze e soperchierie, posseduti da quella rabbia, quella volontà cattiva di trovare un responsabile su cui sfogare tutte le delusioni, la miseria in cui era precipitata la vita». Nelle parole Carlo Mazzantini, all'ultima pagine del suo romanzo «A cercar la bella morte», c'è il senso profondo, tragico e disperato, della scelta compiuta dalla cosiddetta generazione dei ragazzi di Salò. Lui era uno di questi, diciottenne nel momento dell'armistizio dell'8 settembre 1943 si unì a un battaglione di camicie nere e andò a combattere in Valsesia per essere il 25 aprile 1985 a Milano testimone delle ultime ore della Repubblica sociale italiana catturato, rischiò la fucilazione per poi essere liberato. Nel 1986 pubblicò il racconto della sua esperienza, una autobiografia dai toni dostoevskijani, dove si recupera quello che Italo Calvino nel 1947 aveva fatto dire al suo Kim de «I sentieri dei nidi di ragno»: «Basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell'anima, e ci si trova dall'altra parte». Mazzantini non avrebbe mai ammesso di aver compiuto un passo falso, come il Marco Laudato del «Tiro al piccione» di Giose Rimanelli - altro romanzo del 1945 apprezzato da Calvino, forse una delle prime testimonianze letterarie su quei giorni, al suo autore si deve la dizione «la parte sbagliata» utilizzata nel presentare il testo a Cesare Pavese - si ritrovò consapevole in quella che Giorgio Bocca avrebbe definito «la pentecoste dei diversi», una stagione unica anche se dannata, il girone dantesco con il quale Pier Paolo Pasolini inaugurò nel 1975 la trilogia della morte, «Salò o le 120 giornate di Sodoma» che sarebbe rimasto il suo ultimo film.

Ragazzi alla deriva sono loro i protagonisti de «L'Italia di Salò» di Mario Avagliano e Marco Palmieri, un ulteriore importante tassello nel percorso di ricerca e divulgazione sugli anni del fascismo, delle persecuzioni razziali, della lotta partigiana e della Seconda guerra mondiale. Se ne narra la vicenda collocandoli nella fase cruciale che dall'8 settembre 1943 va fino all'amnistia Azara del 1953, proponendosi di dare voce ai diari e agli epistolari, alle corrispondenze e alle relazioni informative per un' indagine «dal basso» che pur considerando il denso filone storiografico sull'argomento punta a cogliere il merito sostanziale di un'esperienza tanto intensa Chi scelse Salò lo fece non per Benito Mussolini, o almeno non esclusivamente per lui. C'è un'espressione di Mario Gandini, altro reduce della Rsi, sufficientemente eloquente: «Non ci aspettavamo niente, niente proprio, e anche al posto di Mussolini ci fosse stata Greta Garbo sarebbe statolo stesso, voglio dire saremo stati ugualmente in quei campi a sparare».

Ma perché, giusto quando quel mondo stava crollando? Con quale obiettivo giovani e giovanissimi come Dario Fo, Raimondo Vianello, Benito Loreni, Giulio Bedeschi, Ugo Tognazzi, Dante Troisi Giuseppe Berto, Gaetano Tumiati, Mario Sironi, Ardengo Soffici e tanti altri, e solo per rimanere in un ambito di società civile, andarono a cercare la bella morte? La risposta di Avagliano e Palmieri: « La cesura del 25 luglio e quella dell'8settembre 1943 per molti italiani non rappresentarono un taglio netto con il precedente ventennio, bensì una svolta in continuità i cui seguito e la cui naturale conseguenza furono l'adesione e la partecipazione all'esperienza della Rsi, che a sua volta non fu un evento senza propagazioni e conseguenze sulla storia e politica e sociale del dopoguerra». Perché recuperando lo slancio vitalistico del primo fascismo si pensò di mettere da parte il periodo del regime in doppiopetto e così, in una simbolica uccisione dei padri, si immaginò disfidare il destino scommettendo su un futuro prevedibilmente drammatico che però avrebbe lasciato in eredità all'Italia democratica il polo degli esclusi: una sorta di magazzino di segue simulacri del fascismo della celtica assai prossimo al nazismo che avrebbe contribuito a fondare l'Msi come il partito degli esuli in patria, così detto da Marco Tarchi. Esuli al cui vittimismo corrisponderà l'assenza di pietas da parte dei vincitori, con la malcelata ipocrisia di utilizzarli nell'occasione opportuna. Rimarrà il sentimento di una giovinezza bruciata in tragedia, con conseguenze anche buie nella storia nazionale, e soprattutto la sensazione che Avagliano e Palmieri consegnano con grande cura di non aver sciolto ancora del tutto i nodi del sistema democratico italiano.

Editoria, da Avagliano e Palmieri "L'Italia di Salò", la recensione di Askanews

di Simonetta Ramogida

L’Italia teatro di una sanguinosa guerra civile all’indomani dell’annuncio dell’armistizio: nei venti mesi che vanno dall’8 settembre 1943 all’uccisione di Mussolini e alla fine della guerra nell’aprile del 1945, il nostro paese non solo continuò ad essere un campo di battaglia tra eserciti stranieri – gli Alleati che avanzavano da sud e i tedeschi che occupavano il centro-nord – ma diventò anche teatro di una sanguinosa “guerra civile” e “contro i civili”, che vide coinvolti su fronti opposti coloro diedero vita alla Resistenza e coloro che rimasero fedeli al fascismo, aderendo alla Repubblica di Salò.

Restava ancora da scandagliare in profondità lo spettro delle motivazioni che indussero oltre mezzo milione di italiani – uomini e donne, spesso giovanissimi – ad aderire e combattere, in molti casi volontariamente, per la Rsi.

Mario Avagliano e Marco Palmieri, con l’ultimo saggio storico “L’Italia di Salò”. 1943-1945, edito da il Mulino, ripercorrono quella pagina di storia dai risvolti a volta inconfessabili per i tanti italiani che in molte occasioni scelsero di stare dalla parte sbagliata. Mentre, “per una generazione di italiani cresciuta fin dalle aule scolastiche nel mito del duce e forgiata da slogan fideisti, come il famigerato Credere obbedire combattere, l’adesione alla Rsi e l’impegno nella guerra civile in molti casi, fu una conseguenza naturale e ovvia di quel percorso formativo”.

Nel dopoguerra, però, il punto di vista resistenziale è stato oggetto di innumerevoli studi e ricerche e ha rappresentato una narrativa dominante. Al contrario – secondo Avagliano e Palmieri – la vicenda dei tanti italiani che scelsero di combattere dalla parte sbagliata è rimasta a lungo marginale, finendo per rappresentare un vuoto, un autentico tassello mancante nel panorama storiografico e della memoria di quel complesso periodo, che segnò lo spartiacque tra la dittatura fascista e la democrazia.

L’originalità dell’ultimo lavoro dei due autori, che nutrono la passione per la storia e per la ricerca storiografica, è che affronta questa pagina di storia, sulla base delle fonti disponibili, lettere, diari, testamenti ideologici, posta censurata, relazioni sul morale delle truppe e sullo spirito pubblico, notiziari della Gnr, note fiduciarie, carte di polizia e dei servizi segreti, e della memorialistica postuma, scevra dai condizionamenti politici che l’hanno caratterizzata e dalla pregiudiziale politico-ideologico-culturale che ha portato molti testimoni a tenere a lungo nascoste le tracce di un passato inconfessabile.

 

Roma, 31 marzo 2017 (askanews)

I repubblichini del Meridione escono dall'oblio della storia

di Antonella Freno

La Calabria è   al centro della storia della Repubblica sociale italiana, quella meno nota della Repubblica di Salò, che affonda le sue radici anche al di fuori dei suoi incerti confini geografici difesi militarmente dai tedeschi, nell’Italia centro-settentrionale.

E’ una storia avvincente, fatta di sacche di consenso residuo per Mussolini, di operazioni sotto copertura, di agenti segreti inviati dai nazisti e dai fascisti e di organizzazioni clandestine dedite ad attentati e opera di propaganda che vede la  nostra terra uno dei centri di questa guerriglia e di questa sorta di “resistenza nera”.

A raccontare la storia della Repubblica Sociale Italiana, creata da Mussolini dopo essere stato liberato dai tedeschi dalla prigione sul Gran Sasso dove era stato rinchiuso all’indomani della destituzione il 25 luglio 1943, ampliando l’analisi per la prima volta a tutte le sue innumerevole sfaccettature, compreso la poco nota e spesso dimenticata vicenda del fascismo clandestino al sud già liberato dagli Alleati, è l’ultimo documentatissimo libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri, “L’Italia di Salò” edito da Il Mulino,  in distribuzione da pochi giorni.  Già nel passato lo storico Avagliano, membro dell’Irsifar, Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla resistenza si era occupato della storia del Novecento, con particolare riferimento al fascismo, alla RSI, alla persecuzione razziale degli ebrei, dirigendo, con Marco Palmieri, la collana storica Il Filo Spinato.

Attraverso le lettere, i diari, i documenti del tempo, la ricerca racconta i motivi dell’adesione di tanti italiani, oltre mezzo milione solo i militarizzati, più altrettanti iscritti al partito, alla Rsi e la loro partecipazione diretta ai crimini e agli eccidi degli occupanti tedeschi.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre, aderirono alla Rsi diversi calabresi, sotto le armi in altre zone d’Italia e all’estero, prigionieri degli Alleati che rifiutarono di cooperare e internati dei tedeschi che accettarono di arruolarsi, mentre molti altri diedero vita ad organizzazioni clandestine neofasciste dietro le linee Alleate.

Lo fecero per vari motivi: per fedeltà al duce e al fascismo, per amor di patria, per vendicare il presunto tradimento del regime fascista e degli alleati tedeschi, ma anche per opportunismo, carrierismo, imitazione dei compagni o timore di essere fucilati.

Le prime forme di organizzazione del fascismo clandestino in Calabria – come scrivono Avagliano e Palmieri nel capitolo del libro dedicato alla storia poco nota e spesso trascurata del fascismo clandestino al sud – sono legate alla figura del prìncipe Valerio Pignatelli.

 Il volume racconta come ,nel luglio del ‘43 ,Pignatelli viene incaricato dal sottosegretario di Salò Barracu di organizzare un corpo di volontari chiamato Guardie ai Labari, incaricato di azioni di guerriglia e sabotaggio nei territori occupati dagli Alleati, di «raccogliere – come lui stesso ha riferito in seguito – elementi fascisti e, in caso di sbarco Alleati, svolgere con essi azioni da franco tiratori, fiancheggiando le truppe regolari, specie alle spalle e sulle linee di comunicazione del nemico.

Preparare perciò le basi in Aspromonte, nelle Serre e, in ultimo, in Sila». Tale progetto subisce uno stop per via della caduta del regime, ma a metà settembre, dopo la liberazione di Mussolini, Pignatelli si reca in Calabria per organizzare la struttura clandestina. Lo accompagna la moglie Maria De Seta, figlia dell’ammiraglio Francesco Elia e sua attiva collaboratrice.

Pigna, come lo chiamano i suoi uomini, stabilisce la base a Cosenza e trova subito l’appoggio di diversi notabili e possidenti locali e dei loro giovani rampolli. Vi rimane fino a metà dicembre quando si trasferisce a Napoli. La sua organizzazione, inoltre, è collegata con gli altri gruppi clandestini fascisti in Calabria, impegnati in azioni di sabotaggio e di preparazione della guerriglia sulle montagne della Sila, raccogliendo armi e vettovaglie. Uno dei loro leader è l’avvocato Luigi Filosa, futuro parlamentare del Msi, ex federale di Cosenza, attorno al quale gravitano molti giovani, ma anche personaggi del passato regime, ex squadristi e dirigenti delle province di Catanzaro e Cosenza.

I fascisti calabresi organizzano ben 18 tra attentati dinamitardi, lanci di bombe a mano e altre azioni di carattere intimidatorio.

Un rapporto del Sim datato 21 ottobre 1944, indirizzato al procuratore del tribunale di Napoli, fa riferimento a ben 215 persone denunciate, riconducibili a un gruppo avente come scopo quello di «ricostituire il Partito fascista, a sfondo anticomunista, procurarsi armi, munizioni e fondi per lo sviluppo dell’organizzazione».

Particolarmente bellicosa è l’azione del gruppo di Nicastro, composto da alcuni studenti delle scuole superiori.

Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre 1943, in occasione dell’anniversario della marcia su Roma, nel paese vengono lanciate bombe a mano e fatti esplodere tubi di gelatina, oltre alla diffusione di volantini.

Un mese più tardi vengono fatti esplodere due ordigni alle porte delle tipografie che stampano i giornali antifascisti Era Nuova e Nuova Calabria. All’inizio di dicembre sono colpite l’abitazione dell’antifascista Marcello Nicotera e la caserma dei carabinieri.

Nel crotonese, invece, viene segnalato un trasporto clandestino di bombe a mano che porta al rinvenimento di un deposito di armi da guerra in un casolare di proprietà del marchese Gaetano Morelli, maggiore in congedo.

Quest’ultimo, arrestato con altri membri dell’organizzazione, confessa di far parte di un movimento fascista da lui stesso finanziato, guidato dall’avvocato ed ex federale di Cosenza Luigi Filosa, intento a ritardare l’avanzata delle truppe alleate e stabilire contatti con la Rsi.

Successivamente altri elementi dell’organizzazione, interrogati nel processo, ammettono «di essersi riuniti per raccogliere fondi, procurarsi armi e munizioni in tutte le maniere, aiutare i tedeschi e gli italiani nell’Italia repubblicana e favorire il loro arrivo nelle province occupate dagli inglesi e collaborare con loro per scacciare definitivamente le truppe anglo-americane dal suolo d’Italia».

Filosa invece fugge a Bari, dove progetta di passare nel territorio della Rsi, ma viene arrestato il 16 maggio 1944.

Il processo presso il Tribunale militare territoriale di Catanzaro vede alla sbarra 88 imputati e si conclude con sentenze di condanne tra i 2 e i 10 anni di reclusione. Subito dopo la chiusura del cosiddetto processo degli ottantotto, anche il principe Pignatelli viene condannato a 12 anni di reclusione da scontare nel penitenziario dell’isola di Procida, ma anche la sua, come gran parte delle condanne, finirà cancellata dalle amnistie del dopoguerra. I movimenti del fascismo clandestino, inoltre, si saldano anche con l’ondata di protesta popolare contro i richiami alla leva del Regno del Sud, che divampano in tutto il sud.

Ne emerge un saggio che narra pagine di storia italiana e calabrese davvero misconosciute e che per la prima volta getta uno sguardo “allargato” alla vicenda della Repubblica di Salò che non si limita solo alle regioni militarmente occupate ma che – come dice il titolo – guarda in modo ampio ed esaustivo all’Italia di Salò in tutte le sue componenti.

(versione leggermente più sintetica pubblicata sulla Gazzetta del Sud del 30 marzo 2017)

 

Salò, Ritratto di una scelta

di Letizia Magnani

Sui “ragazzi di Salò” in tanti hanno scritto, da Indro Montanelli a Giorgio Bocca. Molti hanno parlato di quella scelta “sbagliata”, che però a 17 anni aveva il sapore dell’estremo. Fra costoro ci sono visi noti dello spettacolo, testimoni del ‘900, da Dario Fo, a Giorgio Albertazzi e Raimondo Vianello. Sono stati “ragazzi di Salò”: uomini di una certa destra, ad eccezione di Dario Fo, ma, da più adulti certamente non fascisti, i quali, però, in quei venti mesi, fra il 12 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 videro in Salò chi una soluzione eroica, chi perfino rivoluzionaria, chi infine una via di salvezza.

E’ quanto raccontano, facendo parlare voci fino ad ora rimaste silenti, Mario Avagliano e Marco Palmieri nel volume, pubblicato dal Mulino, “L’Italia di Salò”. Avagliano e Palmieri non sono primi ad opere storiche di grande intelligenza e capaci, con fonti di prima mano, di raccontare storie già note, con un punto di vista nuovo. In questo caso a parlare sono le lettere, i diari, le testimonianze scritte di quell’Italia malconcia, ardita, “sbagliata” e sconfitta. Forse sconfitta perché “sbagliata”. Da qui le citazioni dello storico Roberto Vivarelli e dello scrittore Carlo Mazzantini, che, nel romanzo “A cercar la bella morte”, racconta la Repubblica Sociale Italiana, quella Salò che Mussolini fonda sotto il protettorato del tedesco.

E se il duce sul Garda stava per lo più a Villa Feltrinelli, a Gargnano, non c’è dubbio che la vera capitale della RSI sia stata Salò “Perché lì c’era la Stefani – spiega oggi Avagliano – e quindi i dispacci della RSI uscivano datati Salò”. La propaganda era fondamentale.

A Salò si ritrovarono “Gli entusiasti, che erano fedeli al duce e al fascismo, chi era più tiepido e vedeva in Salò un’occasione. Fra costoro inseriamo gli opportunisti, i cinici, chi non vide altra strada per sé. Poi c’erano i recalcitranti, che aderirono perché costretti dalla paura dei tedeschi, della pena di morte, dalla costrizione. Infine ci sono gli oppositori e i disertori, ma anche un mondo variegato fatto di banditi, violenti, nazisti”. “Colpisce – prosegue Avagliano – il fatto che vi aderiscano mediamente persone già grandi d’età, o giovanissimi, fra cui molte donne, che in pratica erano nati durante il ventennio”. Per molti, insomma è una sorta di ritorno alle origini, alla Marcia su Roma, alle idealità del fascismo della prima ora, violenza compresa.

Solo così si capisce l’esaltazione della morte come simbolo. C’era certo l’eco del nazismo, ma per i due autori si tratta di qualcosa di più profondo: “Fortissima è la simbologia della morte, in collegamento con l’iconografia del movimento squadrista originario, ma anche a dimostrazione del clima crepuscolare, privo di reali speranze”.

Dalla simbologia ai dati, Avagliano e Palmieri non tralasciano niente, ricordando che sono stati 550 mila i giovani, le donne e gli anziani che aderirono a Salò, in tre fasi distinte: “la prima è quella del rifiuto dell’armistizio immediatamente dopo il suo annuncio, a cui segue l’esodo verso il nord per seguire Mussolini subito dopo il suo rientro in Italia. Infine c’è la riorganizzazione e il reclutamento delle forze armate della Rsi nella forma dell’Esercito nazionale repubblicano, formalmente apolitico, della milizia di partito e delle formazioni autonome al servizio dei tedeschi”.

Il libro insomma ribalta l’immagine dei combattenti di Salò come avventurieri, idealisti o poveri illusi e va invece in profondità, raccontando lati inediti, come il grande seguito di Salò nei giovani del Sud Italia: “L’ambizione per i più era quella di far rinascere il fascismo delle origini, questo anche il motivo per il quale in non pochi aderirono a Salò nel Mezzogiorno, e pur non essendo costretti dall’occupazione, lo fecero convintamente”. Un fenomeno, questo, di cui poco si è parlato e che il libro invece illumina con fonti inedite.

 

(Il Giorno-La Nazione e Il Resto del Carlino, 25 marzo 2017)

«L’Italia di Salò», 20 mesi di guerra civile vista dal basso

di Roberto Chiarini

Avagliano e Palmieri la rileggono a partire da scelte e motivazioni dei giovani aderenti  

Per molti, decisivi furono il «tradimento» di Badoglio e la voglia di dire che gli italiani non erano vigliacchi

In nessuna nazione europea come in Italia l’eredità del fascismo e, marcatamente, del fascismo repubblicano sorto sulle sponde del lago di Garda ha segnato i caratteri della politica e della stessa democrazia. Le ragioni dell’inossidabile persistenza della sua eredità nella vita della Repubblica sono molteplici. Ha pesato innanzitutto la durata ventennale del regime instaurato da Mussolini. Non di meno, ha costituito un pesantissimo lascito la guerra fratricida che si combatté nei Seicento giorni di Salò. È comprensibile che quel nodo politico e morale resti perciò tuttora il più visitato dalla storiografia. Negli ultimi tempi i riflettori si sono accesi in particolare su quella delle due parti in lotta che è stata a lungo più trascurata o negletta. Parliamo di coloro che andarono a cercare «la bella morte».

Ora, del vasto e variegato mondo di «vinti» disponiamo di uno studio - Mario Avagliano e Marco Palmieri, «L’Italia di Salò 1943-1945» (Il Mulino, 489 pagine, 28u) - che affronta sistematicamente l’argomento. Avvalendosi di una base documentaria particolarmente ricca, gli autori hanno riletto quei venti mesi di guerra civile «dal basso», partendo dalle motivazioni, dalle scelte, dai comportamenti adottati dai giovani (più di mezzo milione) che scelsero o subirono l’atroce destino di combattere o semplicemente schierarsi a fianco del risorto regime fascista. Avagliano e Palmieri ci conducono per mano ad esaminare l’avventura, umana e politica, vissuta dai «figli di stronza»: dai primi che impugnarono le armi contro gli Alleati senza aspettare la chiamata di Mussolini a quanti dopo l’armistizio restarono fedeli all’alleato tedesco o, internati in Germania, decisero in un secondo tempo di arruolarsi nell’esercito di Graziani, passando per i prigionieri degli Alleati non cooperatori per finire con quanti si arruolarono nell’Esercito Nazionale Repubblicano o nelle varie formazioni «nere»: dalle SS italiane alla Guardia Nazionale Repubblicana, dalla XMas alle Brigate Nere allo stesso reparto femminile delle Saf, per non dire delle famigerate bande Koch e Carità, responsabili delle più barbare atrocità.

A correre a Salò furono innanzitutto ex avanguardisti ed ex balilla. Li spinse la delusione sofferta a seguito della destituzione del duce, ma ciò che li fece davvero ribellare fu «il tradimento» perpetrato da Badoglio e dal re con la firma dell’armistizio. «Mi arruolai- protesta uno di essi, Gianfranco Finaldi - per dimostrare che noi italiani non eravamo fatti tutti della stessa pasta, non eravamo un popolo di vigliacchi». Più del fervore per la causa del fascismo, mosse i ragazzi di Salò la morale del «soldato fascista» alla quale erano stati educati a scuola e spesso anche in famiglia. Non tutti idealisti. Non furono tutti idealisti, peraltro, i giovani che scelsero o si adattarono a servire il nuovo regime fascista. Nelle loro file numerosi furono - l’ha ammesso lo stesso federale di Milano, Vincenzo Costa - autentici sciacalli che decisero di vestire la divisa solo per «camuffare i propri bassi istinti, le loro furfanterie». Del resto, un’Italia educata a «libro e moschetto», sprofondata da ultimo in una guerra civile, era difficile che non desse spazio alla sua «peggiore gioventù» e non incoraggiasse le imprese più disumane. Per il resto dei militi di Salò - la gran maggioranza - scattarono vuoi un malinteso amor di patria, vuoi il riflesso condizionato dell’obbedienza all’autorità costituita inculcato dal regime.

(Il Giornale di Brescia, 28 marzo 2017)

Il lato nascosto di Salò: la "resistenza nera" al Sud

di Roberto Chiarini

Dai «figli di stronza» di Elio Vittorini ai «quindicenni sbranati dalla primavera» di Francesco De Gregori, passando per i «non uomini» segnati dal «marchio di Caino» per finire con gli «esuli in patria» figli di nessuno: il destino di chi ha aderito alla Repubblica sociale è stato di reprobi sul piano morale e di feroci persecutori dei partigiani su quello politico.

 
 

Insomma, ha oscillato a lungo tra il «disconoscimento totale» della loro umanità e la taccia di essere «gregari» di un «regime fantoccio» al servizio dello straniero occupante, fautore di una causa aberrante che riservava un futuro di schiavitù e di oppressione ai popoli dell'intera Europa. Risultato: non solo nel dibattito politico ma anche nella considerazione storiografica, sui «ragazzi di Salò» ha gravato un pesante cono d'ombra fatto di silenzio e di disprezzo. Esattamente quel che si meritano dei sanguinari che non si sono fermati di fronte al baratro di una guerra fratricida in cui avrebbero cacciato il proprio Paese pur di soddisfare la loro sete di violenza.

Ci sono voluti, prima le possenti spallate inferte da Renzo De Felice al pregiudizio che riduceva il fascismo a regime dittatoriale imposto di forza a un popolo di democratici, poi il coraggioso cambio di passo impresso agli studi sul Ventennio da Claudio Pavone con lo sdoganamento della categoria storiografica di guerra civile per liberare la considerazione dei «Balilla che andarono a Salò» dal vizio della loro demonizzazione. Stiamo parlando praticamente dell'intera generazione dei nati nel 1924 e '25. Se infatti si sommano ai volontari i giovani chiamati alla leva che o per un'atavica sudditanza all'autorità costituita o per un malinteso spirito di servizio o per un più elementare, comprensibile desiderio di sfuggire alla pena di morte riservata ai renitenti, si raggiunge la somma di più di 500mila ragazzi che alla fine misero comunque in gioco la loro vita per una causa che, bene o male, sapevano persa in partenza.

Al confino morale e politico comminato loro dai vincitori si è paradossalmente sommato il cieco spirito di rivalsa dei «vinti» e dei loro epigoni, cui il rancore ha fatto velo a un'auspicabile rielaborazione critica della «scelta sbagliata» da loro compiuta.

Ora di questo vasto e variegato mondo di vinti disponiamo di un'opera sistematica. Sulla scorta di un'accurata investigazione di fonti archivistiche edite e inedite nonché della cospicua letteratura accumulatasi nel frattempo in materia, Mario Avagliano e Marco Palmieri con il saggio L'Italia di Salò. 1943-1945 (Il Mulino, pagg. 490, euro 28) ci mettono in condizione di articolare un giudizio sull'argomento a ragion veduta. La loro è una «storia dal basso», condotta cioè seguendo passo dopo passo il percorso compiuto da quegli italiani che, a diverso titolo e con diverse talora opposte - motivazioni, scelsero o subirono l'atroce destino di combattere o semplicemente di schierarsi a fianco del risorto regime fascista. Già il federale di Milano Vincenzo Costa aveva riconosciuto che, accanto agli idealisti, si nascondevano anche degli autentici sciacalli che vestirono la divisa per «camuffare i propri bassi istinti, le loro furfanterie». Entrando più nel dettaglio, Mario Cervi ha introdotto la distinzione tra i «fanatici, gli entusiasti, i rassegnati, i dubbiosi, i riluttanti», mentre Giorgio Bocca li ha suddivisi in «politici, romantici, onesti, illusi, profittatori scaltri, imprevedibili». Insomma, non si trattò solo di giovani invasati, di sanguinari, di accecati dall'odio ideologico. Corse a Salò, bene o male, tutta una generazione di giovanissimi nati, allevati e cresciuti a «libretto e moschetto», quindi «naturalmente» fascisti. Questo non impedì a molti di loro di maturare, alla luce della barbarie scatenata, di procedere poi a una sofferta revisione critica delle proprie originarie convinzioni fino ad aderire alla causa della libertà.

Avagliano e Palmieri hanno il merito di esaminare nel dettaglio tutti i capitoli della vicenda, umana e politica, vissuta dei «figli di stronza», arricchendoli peraltro di una ricca documentazione: dai giovani che non aspettarono la nascita dello Stato fascista per impugnare le armi contro gli Alleati ai soldati che all'indomani dell'8 settembre o solidarizzarono con i tedeschi o che, una volta internati in Germania, decisero di rivestire la divisa della Rsi nonché ai prigionieri non cooperatori fino a quanti si arruolarono nelle varie formazioni «nere» (dalle SS italiane alla Guardia Nazionale Repubblicana, dalla X Mas alle Brigate Nere, allo stesso reparto femminile delle Saf per non dire delle famigerate bande Koch e Carità, resesi responsabili delle più barbare atrocità) o nell'Esercito nazionale repubblicano. Sono pagine di storia non del tutto sconosciute. Molte sono già state messe in chiaro dalla nutrita serie di memoriali e diari redatti dai reduci, oltre che da numerosi studi condotti dagli storici sull'argomento.

Forse la meno nota al largo pubblico è la pagina scritta dalla cosiddetta resistenza nera, ossia dal fascismo clandestino che si organizzò nell'Italia liberata. Una forma di insorgenza fascista si manifestò soprattutto in Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. L'elenco delle organizzazioni animatrici della lotta agli Alleati, solo abbozzate o semplicemente ostentate, sarebbe lungo. Si va dal Movimento giovanile di rinascita nazionale di Catania alla Lega Italica di Caltanisetta, al gruppo Onore di Roma, al Movimento dei giovani italiani repubblicani di Firenze, soprattutto alla Guardia ai labari, formazione costituitasi ancor prima della caduta di Mussolini per espressa volontà del duce su mandato del segretario Scorza. Solo a partire dal 1944, comunque, il fascismo clandestino diede concreti segni di vita, sviluppando una qualche forma di propaganda, persino azzardando conati rivoltosi. Nel complesso, però, l'impatto della sua azione fu assai modesto. Non riuscì né a stabilire un saldo coordinamento tra le varie realtà operanti né a dotarsi di una leadership riconosciuta. Il suo stesso esponente di maggior rilievo e visibilità, il bizzarro principe Valerio Pignatelli della Cerchiaia, finì col rimanere invischiato nella ragnatela da lui costruita senza riuscire a far compiere un salto di qualità al movimento clandestino. È vero che il mandato delle varie organizzazioni non era di serrare le file del popolo fascista ormai in disarmo. Era, più modestamente, di non lasciare nulla di intentato per contrastare l'invasione del nemico facendo leva sull'acuta sofferenza sociale della popolazione. A Palermo nell'ottobre del '44 la pessima situazione alimentare fece scattare una vivissima protesta nei confronti delle autorità occupanti. La repressione che ne seguì provocò numerose vittime, tanto che si parlò apertamente di una «strage del pane». Ancor più grave fu la rivolta suscitata dalla chiamata alle armi dei nati da parte del Regno del Sud tra il 1914 e il 1924. Il moto, avviatosi a Catania si estese poi a molti altri centri. Non fu, comunque, in grado di far rialzare la testa a un fascismo agonizzante.

(Il Giornale, 27 marzo 2017)

 

 

Luciano Salce non aderì alla Rsi

di Mario Avagliano e Marco Palmieri

 Il regista Luciano Salce non aderì alla Rsi. Ce lo ha comunicato, tramite il giornalista Antonio Carioti, il figlio Emanuele, che ha condotto un'approfondita ricerca sul padre, trovando alcuni documenti che provano che dopo l'8 settembre fu un internato militare nei campi tedeschi.
Una informazione nuova che quindi corregge quella dell'adesione alla Rsi che era riportata in numerosi saggi storici pubblicati a partire dagli anni Cinquanta (dai quali anche noi avevamo attinto) e in svariati articoli dei maggiori quotidiani e di molti portali web.
Nella seconda edizione di "L'Italia di Salò" il nome di Salce verrà stralciato dall'elenco degli aderenti.
Salce (Roma 1922-1989) fu regista, attore e sceneggiatore. Al Salce regista si devono alcuni film-cult del cinema italiano come Il federale (1961) con Tognazzi, La voglia matta (1962) con Tognazzi e Spaak, La cuccagna (1962) con Luigi Tenco, Ti ho sposato per allegria (1967) con Vitti e Albertazzi, Fantozzi (1975) con Villaggio.

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