Al via il centenario della Grande Guerra

"Con la mostra 'Verso la Grande Guerra', inaugurata sabato 3 novembre al Vittoriano e aperta al pubblico dal 4 novembre, prende il via ufficialmente la commemorazione del centenario della Prima Guerra Mondiale'', afferma Paolo Peluffo, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e presidente del Comitato per la commemorazione. ''La Grande Guerra e' stato un passaggio fondamentale nel processo di costruzione del nostro Paese perché è nell'affratellamento delle trincee il primo momento vero in cui si sono 'fatti' gli italiani".

La mostra è inserita nel programma di iniziative messo a punto dal Comitato Storico Scientifico per il centenario della prima guerra mondiale istituito con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri il 3 agosto e presieduto da Peluffo e, per il Comitato dei Garanti, da Giuliano Amato e costituito dal ministro per gli Affari europei Moavero e dai sottosegretari all'Interno, agli Esteri e alla Difesa, ai Beni Culturali, Istruzione, Infrastrutture e Sviluppo economico. Il Comitato, che finora si e' riunito due volte, ha stabilito che la data di inizio delle celebrazioni e' stata fissata anche per l'Italia nell'estate del 2014, anno in cui la prima Guerra mondiale e' scoppiata ed anno in cui le commemorazioni avranno avvio in tutti i Paesi coinvolti. Tale decisione e' stata assunta, anche se l'Italia ha preso parte al conflitto contro l'Impero Austro-Ungarico nel 1915 e contro la Germania nel 1918, tenuto conto della valenza sovranazionale e della dimensione europea
dell'evento, e delle conseguenze che comunque si sono riversate nel Paese dal 1914 in poi: la non belligeranza dell'Italia e', comunque, una tappa della storia della Grande Guerra.
"Il protagonista del centenario della guerra sarà il popolo italiano, saranno gli italiani, la gente comune, i soldati, le famiglie, un po' come nel capolavoro di Monicelli, La grande guerra, del 1959", continua Peluffo. "Commemorazioni, come per la mostra inaugurata oggi al Vittoriano, che puntano a raccontare la guerra attraverso la storia, innanzitutto, la cultura, la letteratura e l'arte, l'economia, l'alimentazione, dal momento che il centenario della Guerra incrocerà l'Expo 2015, in un grande esercizio di memoria collettiva. Memoria da convogliare in un 'Memoriale del popolo in armi', un grande spazio collettivo costruito con il  coinvolgimento e la partecipazione di tutti gli italiani. Ogni italiano, infatti, ha un legame con la prima Guerra mondiale. Si è, inoltre, ritenuto di inserire le varie iniziative in una prospettiva di 'pace', far conoscere la Guerra e le sue conseguenze per trasmettere il grande valore della pace".

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Il fatale 1911, l’anno del Cinquantenario d’Italia e delle Esposizioni di Roma, Torino, Firenze

di Mario Avagliano

  Il 1911 non è un anno qualsiasi per l’Italia. Si celebra il cinquantenario della fondazione della Nazione, il cui popolo di lì a poco si sarebbe forgiato nelle trincee della Grande Guerra, primo luogo fisico d’incontro tra piemontesi e siciliani, lombardi e campani, pugliesi e toscani. In quei mesi di festeggiamenti l’Italietta giolittiana, come viene sprezzantemente definita da qualcuno la nostra penisola, dimostra un’incredibile vitalità e capacità d'innovazione e di creatività. Torino, Firenze e Roma, le tre capitali storiche del Paese, ospitano una serie straordinariamente ricca di iniziative nell'ambito dell'Esposizione Internazionale del 1911, la grande manifestazione realizzata per propagandare il traguardo dello Stato Unitario.

La storia di quell’avvenimento così importante del vissuto italiano è stata ricostruita in modo sapiente ed esaustivo da Stefania Massari, già direttore dell’Istituto Nazionale per la Demoetnoantropologia e stimata studiosa e saggista, in un prezioso volume intitolato Il fatale Millenovecentoundici. Le Esposizioni di Roma, Torino, Firenze (Palombi editore, pp. 304, euro 40), arricchito da un corredo iconografico in larga parte inedito e di particolare fascino e suggestione, che consente di far rivivere l'atmosfera bohémien ed elegante di quegli anni di primo Novecento.
La città della Mole Antonelliana, la città che diede i natali a Dante Alighieri e la Città Eterna sono le sedi naturali scelte per illustrare e documentare a tutta la Nazione ed al mondo intero i prestigiosi risultati raggiunti dall’Italia nel campo dell'arte, dell'artigianato, dell'industria, del lavoro e della tecnica.
Il 29 aprile, in una Torino scintillante («durante l’Esposizione mi fa pensare ad una bella signora in tutto lo sfoggio delle sue eleganze», scrisse il poeta Guido Gozzano), alla presenza di re Vittorio Emanuele III e dei rappresentanti dei trentuno paesi ospiti, si inaugura l'Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro, mostra volta a presentare al mondo i notevoli progressi tecnici e scientifici del nostro Stato, che inseriscono l'Italia tra le Nazioni della più moderna Europa capitalista.
A Firenze, punto di attrazione e polo artistico e turistico di livello internazionale, il cinquantenario viene celebrato «con patriottico animo e con giusta baldanza», secondo una annotazione della Rivista delle Esposizioni della Editrice Sonzogno, con l’organizzazione di due mostre internazionali di pittura e di fiori: la "Mostra del Ritratto italiano dalla fine del XVI secolo al 1861", che si tiene da marzo a luglio, e l"Esposizione Internazionale di Floricoltura" svolta a maggio.
A Roma, invece, è il sindaco Ernesto Nathan il 27 marzo ad aprire i festeggiamenti del giubileo laico. Quello stesso giorno si inaugura la “Rassegna Internazionale d'arte contemporanea” a Valle Giulia. Nella capitale l’asse portante dell’esposizione è una sorta di viaggio in Italia attraverso quattordici padiglioni regionali, che riproducono gli elementi di maggiore bellezza del territorio rappresentato, circondati da una quarantina di “gruppi etnografici”, veri e  propri quadri viventi, dove ad esempio Napoli viene ricostruita attraverso uno spaccato del vecchio quartiere di Santa Lucia e la Sardegna attraverso i nuraghi e le case del Campidano.
Per l’occasione a Roma viene realizzata una mole enorme e straordinaria di lavori pubblici con nuove strutture e infrastrutture, alcune delle quali stabili (come i due ponti sul Tevere: il ponte Flaminio, poi Risorgimento, e il ponte Vittorio Emanuele II; e l’Altare della Patria, ovvero il Vittoriano, aperto al pubblico il 4 giugno), che imprimono una traccia indelebile allo sviluppo e al tessuto urbanistico dell'intera città, regalandole un nuovo volto che tutti oggi possono ammirare.
Il saggio di Stefania Massari analizza e ripercorre le diverse fasi dell'Esposizione Internazionale, riflesso della complessa realtà italiana dell’epoca, ormai entrata in una fase post-risorgimentale e, in varie zone del Paese, interessata da una impetuosa modernizzazione, attraverso la nascita delle prime grandi industrie. Una Nazione giovane, che guarda fiduciosa al futuro, anche se è interessata dai primi furori bellici (nel 1911 scoppia la guerra italo-turca, conosciuta anche come la guerra di Libia) che porteranno poi al fascismo e alla dittatura.

(Le Strade dell'Informazione, 28 novembre 2012 - www.lestradedellinformazione.it)

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La propaganda e la guerra quando la parola è un'arma

di Mario Avagliano
 
“Arriva la guerra nel paese e quindi ci sono bugie a iosa”, recita un proverbio tedesco di fine Ottocento. Ma se la censura è un artificio di tradizione antica, è durante la Grande Guerra del 1915-1918 che la manipolazione dell’informazione diventa di massa e piega la stampa alle ragioni belliche degli Stati.
L’utilizzo della rivoluzione mediatica al servizio del potere, come strumento di propaganda nei confronti dell’opinione pubblica, è uno dei risvolti più negativi del primo conflitto moderno. Ed è una novità che poi sarà alla base delle strategie di formazione del consenso messe in atto dalle dittature di ogni credo politico, estendendosi ad altri mezzi di comunicazione, come la radio, il cinema e la fotografia.
È il tema centrale dell’interessante saggio “Narrare il conflitto. Propaganda e cultura nella Grande Guerra”, a cura di Stefano Lucchini e Alessandro Santagata (Fondazione Corriere della Sera, pp. 151, euro 14), che aggiunge un ulteriore tassello agli studi sulla propaganda e sulla mobilitazione degli animi.
A inizio secolo il potere politico ed economico del giovane Stato italiano imparano a gestire il nuovo giornalismo di massa e così quando il Paese entra in guerra, la legittimazione del conflitto e il consenso della popolazione rientrano a pieno titolo fra le priorità belliche. “Anche le parole sono in armi”, titola nel 1915 il Corriere della Sera di Luigi Albertini, che in quella fase è il giornale che più di tutti incarna lo sforzo propagandistico e patriottico voluto dal governo e dal Comando Supremo.
Esemplare il caso di Luigi Barzini, all’epoca uno dei giornalisti più famosi al mondo, noto per le sue corrispondenze sulla rivolta dei boxer in Cina e sulla guerra russo-giapponese. Le sue cronache di guerra subiscono i tagli della censura, come lamenta nelle lettera alla moglie, tanto da indurlo a chiedere ad Albertini di farlo tornare a casa. Ma il direttore fa orecchie da mercante e col tempo anche Barzini si adegua, pagando dazio allo stile enfatico e retorico del tempo, mitizzando la guerra in montagna, la vita in trincea e gli assalti degli “eroici fanti”. Tanto che fra le truppe circola la battuta: “Se trovo Barzini gli sparo”.
La stampa rinuncia al suo ruolo principale, quello di vigilanza. “I giornalisti della Grande Guerra – osservano gli autori – scelgono di servire quel potere, rinunciando a una cronaca obiettiva dei fatti in favore di una verità superiore di interesse nazionale”, con la missione di “fabbricare la vittoria” e di influenzare il cosiddetto “fronte interno”. Una tragica scelta di asservimento alla politica che poi ha avuto tristi epigoni durante il fascismo, ma che in certi ambienti è continuata anche nel secondo dopoguerra.
Ma le menzogne, anche quelle di guerra, hanno le gambe corte. E così quando a fine ottobre del 1917 si decide, in ritardo, di tagliare la parte finale del noto bollettino di Cadorna, che attribuiva alle truppe la disfatta di Caporetto, le copie dei giornali con la prima versione non emendata erano già arrivate all’estero e poco dopo si diffusero altre stesure apocrife ciclostilate. E anche le critiche epistolari alla guerra da parte dei soldati a volte infransero il muro della rigidità della censura.
Il volume è arricchito da un incisivo saggio introduttivo di Mario Isnenghi, che traccia un ritratto dell’azione occulta  svolta da scrittori, artisti e filosofi dell’Intervento, da giornali spesso foraggiati da governi stranieri ma anche, nei confronti dei soldati, ad opera degli ufficiali del servizio “P” dell’esercito, dove “P” non va letta solo come “propaganda” ma anche come “psicologia”. Alternando – a seconda delle fasi del conflitto – la disciplina di coercizione e la disciplina di persuasione. Per convincerli dell'utilità di una guerra che in pochi amavano.

(Il Messaggero, 25 ottobre 2015)

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Storie – La Grande guerra

di Mario Avagliano

Giovedì 15 ottobre, alle 15.30, sarà inaugurata la mostra filatelica “Quirinale porte aperte alla filatelia”, organizzata dal Gruppo parlamentari amici della filatelia e dalla Federazione fra le società filateliche italiane, con il supporto del Quirinale e di Poste Italiane e con la cura scientifica di Bruno Crevato-Selvaggi. La mostra, che sarà aperta al pubblico fino al 28 ottobre, si articola in tre sezioni: “La grande guerra”, “La liberazione”, “Cento gemme della filatelia italiana”. La mostra è stata resa possibile dal grande numero di prestatori che hanno aderito, offrendo il loro materiale: decine di collezionisti privati italiani ed esteri e diverse istituzioni pubbliche. Nella sezione per il centenario della prima guerra mondiale, saranno esposti vari pezzi storici relativi ad ebrei combattenti e caduti, facenti parte della collezione di Gianfranco Moscati. Tra questi, figurano preziosi documenti, fotografie e lettere appartenute a Pia Del Vecchio (parente stretta per linea materna di Moscati), che militò tra le trincee della Grande Guerra dapprima come infermiera volontaria e subito dopo come capo infermiera volontaria della CRI. L’ardimento e lo spirito di abnegazione di Pia del Vecchio faranno sì che venga decorata dal comandante della III Armata duca Emanuele Filiberto di Savoia e che riceva inoltre, il 4 dicembre del 1919, la Medaglia al Merito d’argento dal Presidente della Croce Rossa Italiana per i servizi resi in zona di guerra. Un grande esempio del patriottismo e dei sacrifici compiuti dagli ebrei italiani per la loro Patria. Si è spesso dimenticato il contributo, anche di sangue, degli ebrei alla Grande Guerra, all’insegna dell’adesione agli ideali della nuova Italia. Un contributo che tuttavia, appena venti anni dopo, non servirà a salvare la comunità ebraica dalla persecuzione e dalla Shoah.

(L’Unione Informa e Moked.it del 13 ottobre 2015)

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Le Alpi e la guerra, percorsi di memoria

di Mario Avagliano

Gli amanti della montagna, che conoscono le malinconiche canzoni degli alpini, sanno bene che la Grande Guerra sulle Alpi, nei 400 chilometri che separano il Passo dello Stelvio da Caporetto, è stata “un conflitto speciale, crudele e romantico al tempo stesso”. Una guerra combattuta su un territorio affascinante e impervio, unico al mondo, che spesso ha visto affrontarsi, seppure con divise militari diverse, uomini molto legati ai loro monti. È quanto racconta Stefano Ardito, una delle firme più note del giornalismo di montagna e di viaggi italiano, in “Alpi di Guerra Alpi di pace. Luoghi, volti e storie della Grande Guerra sulle Alpi” (Corbaccio, pp. 265, euro 19,60).
Se nelle zone di pianura la prima guerra mondiale ha lasciato ben poche tracce, invece le Alpi centrali e orientali, dal Passo dello Stelvio alle Alpi Giulie, dove sono state combattute battaglie ad alta quota, tra pareti di roccia e ghiacciai, sono oggi un museo all’aperto di quel conflitto, percorso ogni anno da decine di migliaia di turisti, escursionisti e alpinisti. Infatti sulle Dolomiti, sull’Adamello, sul Pasubio, sullo Jôf di Montasio e su decine di altri massicci, è possibile visitare i sentieri di arroccamento, le vie attrezzate, le fortezze, i bunker, le teleferiche e le caverne artificiali costruite in quegli anni dai militari italiani e austro-ungarici.
In questo libro Stefano Ardito ci conduce in una sorta di tour su quelle vette, raccontando - senza la “retorica della Vittoria” di stampo risorgimentale - diciassette episodi esemplari della Grande Guerra sullo sfondo delle Alpi, dalle prime battaglie sul Monte Piana nel maggio del 1915 fino al crollo del fronte sulle Alpi e sul Piave alla fine di ottobre del 1918, compresa la leggendaria costruzione della Strada delle 52 gallerie da parte dei genieri italiani sul Pasubio e quella della Citt nel ghiaccio scavata dagli austro-ungarici sulla Marmolada.
Sui monti si combatté un conflitto all’antica, cavalleresco, dove il coraggio personale aveva ancora un valore. Il mito degli alpini italiani e dei Kaiserjäger austriaci nacque in quegli anni. Ma anche in quei paesaggi da fiaba, tra aquile e camosci, si manifestava l’orrore della guerra, come le nuove armi di distruzioni di massa, i gas asfissianti e la crudeltà dei comandanti, che mandavano all’assalto i loro uomini contro reticolati e mitragliatrici, pur sapendo che l’attacco si sarebbe risolto in un massacro.
Con apprezzabili capacità narrative, Ardito ripercorre storie conosciute e altre meno note, come la cattura e la morte di Cesare Battisti, la guerra lampo del giovane tenente Erwin Rommel sulla cima del Matajur o le vicende delle due guide Sepp Innerkofler e Julius Kugy e del capitano Giovanni Sala e del sottotenente romano Enrico Jannetta, mago dell’arrampicata, accompagnando alla descrizione delle vicende quella dei luoghi della loro memoria, che ancora oggi è possibile visitare, alcuni comodamente in auto o in funivia, altri con qualche ora di cammino in montagna o arrampicandosi sui ghiacciai. “Solo così – conclude Ardito -, apprezzando l’ambiente ostile dove i nostri nonni o bisnonni hanno dovuto vivere e uccidere (e non di rado essere uccisi) si capiscono la sofferenza e il dolore della guerra”.

(Il Messaggero, 1 settembre 2015)

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La Grande Guerra digitale

di Mario Avagliano

Finora la storia della prima guerra mondiale del 1914-1918, che solo sul fronte italiano provocò oltre 700 mila vittime e più di un milione tra mutilati e feriti, era stata raccontata attraverso saggi storici, libri cult come Addio alle armi di Ernest Hemingway, oppure film come Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick o La Grande Guerra di Mario Monicelli. In vista del centenario del 2014, l’Europa ha pensato di raccogliere le storie personali dei reduci, andando a rovistare nei cassetti e nei bauli dei familiari di chi visse quell’esperienza, alla ricerca di lettere, diari, disegni, ritagli di giornali, cimeli risalenti a quel periodo cruciale.

La creazione di un portale internet dedicato da parte di Europeana, il grande archivio digitale europeo, e i collection day, gli appuntamenti di raccolta dei materiali, che hanno toccato, a partire dal 2011, Germania, Belgio, Francia, Gran Bretagna, Slovenia, Danimarca, Lussemburgo, Irlanda, Cipro e, per quanto riguarda l’Italia, Trento (il 16 marzo scorso), hanno consentito di collezionare già 56 mila reperti della Grande Guerra, digitalizzati e pubblicati on line. Lettere d’amore dal fronte, bracciali realizzati in trincea con le pallottole dei nemici, divise di soldati, armi, immagini dei campi di prigionia, consultabili anche su pc, tablet e smartphone.
Ora il progetto Europeana 1914-1918, che in l’Italia vede impegnati l’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, il Museo Centrale del Risorgimento e la Fondazione Museo storico del Trentino, sbarca a Roma. Tutte le persone in possesso di materiali della prima guerra mondiale potranno partecipare il 15 maggio alla giornata di raccolta presso la Biblioteca Nazionale centrale (viale Castro Pretorio, 105), dalle ore 10 alle 18. Un team di esperti sarà a disposizione per la digitalizzazione dei reperti e la registrazione dei racconti. Coloro che non possono prendere parte al collection day, potranno registrarsi sul sito www.europeana1914-1918.eu e caricare direttamente il materiale nell’archivio on line.
“L’Italia - commenta Rossella Caffo, direttore dell'ICCU - attribuisce un’importanza strategica a questo progetto. I materiali raccolti nel nostro Paese saranno pubblicati anche sul sito www.14-18.it, il portale italiano della Grande Guerra”.
La volontà è quella di riunire “virtualmente” su questo portale i documenti e le testimonianze relative all’Italia. E nonostante sia passato un secolo da quegli eventi, la ricerca già comincia a dare sorprendenti frutti, come gli spartiti musicali composti nel Cellelager dai militari italiani catturati dagli austriaci dopo la disfatta di Caporetto, messi a disposizione da Alessandra Ghidoli, nipote del sottotenente e violinista Alceo Rosini; le prime fotografie dei campi di prigionia italiani, ad Avezzano e in Sardegna; e l’immagine straordinaria e inedita della proclamazione della dichiarazione di guerra dell’Italia, il 24 maggio 1915, in una piazza del Quirinale gremita di folla.

(Il Messaggero, 8 maggio 2013)

 

La Grande Guerra. Storie dal cuore d’Italia

di Mario Avagliano

Anche la Grande Guerra ha avuto il suo selfie. Lo scatto è datato 12 luglio del 1916, quando in una Trento ancora austriaca, il boia si fece ritrarre sorridente, circondato da sei o sette militari e civili, mentre esibiva in pubblico il corpo di Cesare Battisti, condannato a morte per “alto tradimento” in un processo farsa, in quanto colpevole di essersi comportato da italiano fra gli austriaci. Otto minuti di agonia, ucciso mediante strangolamento nella Fossa della Cervara, sul retro del Castello del Buonconsiglio, stringendo lentamente la corda attorno al suo collo.
Josef Lang, l’aguzzino coi baffi e il cappello a bombetta venuto apposta da Vienna per la macabra esecuzione, dovette compiere due volte l’atto, perché la prima il cappio si spezzò. Ma il previdente boia aveva portato una seconda corda in valigia. Terminato il suo lavoro, si prestò volentieri ad un autoscatto che avrebbe danneggiato l’immagine dell’Austria agli occhi dell’opinione pubblica mondiale. Annotò, caustico, lo scrittore austriaco Karl Kraus: “Non solo abbiamo impiccato, ma ci siamo messi anche in posa”.
Oggi l’imponente mausoleo dedicato al martirio di Battisti, opera dell’architetto veronese Ettore Fagiuoli, che si ispirò alla tomba parigina di Napoleone a Les Invalides, è semi-abbandonato. Mancano le indicazioni stradali e l’erba attorno al monumento è alta.
È una delle tredici storie raccontate da Federico Guiglia nel libro “Dov’è la vittoria”, una sorta di diario di viaggio nel tempo tra i monumenti della Grande Guerra, che copre tutta l’Italia, da Bolzano a Giardini Naxos, ed esce in occasione del centenario dell’inizio del conflitto per il nostro Paese (24 maggio 1915).
Uno dei monumenti più suggestivi è il Sacrario Militare di Fogliano Redipuglia, in provincia di Gorizia, il memoriale più grande d’Italia e tra i maggiori al mondo, dove riposano le spoglie di centomila giovani vittime della prima guerra mondiale, di cui quarantamila identificati e gli altri ignoti. Una curiosità sul nome: non c’entra né il re né la Puglia, è un termine che deriva dallo sloveno e significa “terra di mezzo”.
“Impossibile restare insensibili nel leggere così tanti nomi in fila uno dopo l’altro, sotto la scritta ‘presente’, grande e ripetuta una, due, decine di volte”, annota Guiglia. Centomila storie di solitudine che toccano nord, centro e sud d’Italia, senza distinzioni.
Visto dall’alto il sacrario, dove è salito anche Papa Francesco rivolgendo il suo appello al “mai più guerra”, evoca la tastiera di un pianoforte. Fu voluto da Benito Mussolini e dal suo regime, progettato dall’architetto Giovanni Greppi e dallo scultore Giannino Castiglioni e inaugurato il 18 settembre 1938.
Tra i tanti soldati sepolti, l’unica donna è una crocerossina, Margherita Kaiser Parodi Orlando, medaglia di bronzo al valor militare. È nella prima fila e ha una croce che ne sovrasta l’identità sulla lapide. Mentre bombardavano, Margherita non abbandonò l’ospedale mobile in cui operava. Fece valere il coraggio della carità. Morì a ventun anni per febbre spagnola nell’immediato dopoguerra.
Qui giace anche la salma di Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, comandante della Terza Armata. “Il duca invitto”, era stato ribattezzato per non aver perso una battaglia. Morì nel 1931 e chiese l’onore d’essere seppellito a Redipuglia tra i soldati noti e ignoti. “Sarò con essi – scrisse nel suo testamento – vigile e sicura scolta alle frontiere d’Italia, al cospetto di quel Carso che vide epiche gesta ed innumeri sacrifici, vicino a quel mare che accolse le salme dei marinai d’Italia”.
Tra i tanti monumenti, non poteva mancare il Vittoriano di Piazza Venezia, conosciuto anche come l’Altare della Patria, una delle più grandi opere dell’Ottocento, progettata dal grande architetto Giuseppe Sacconi e costruita per il primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II. Un cantiere dalla durata lunghissima: la prima pietra fu posta nel 1885, l’ultima cinquant’anni dopo, nel 1935. Nel frattempo, nel 1921, presso il monumento era stata sepolta la salma del Milite ignoto.
Negli anni Settanta l’Altare della Patria fu oggetto di una violenta polemica, di carattere ideologico, e venne appellato in vari modi pur di ridicolizzarlo: “macchina per scrivere”, “torta nuziale”, “panettone”. Disconoscendone il valore architettonico e artistico e considerandolo, a torto, un simbolo del fascismo invece che del Risorgimento.
Fu il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi a riscoprirlo e a far riaprire al pubblico il Vittoriano il 20 settembre 2000, anniversario di Porta PIa. Veniva così riconsegnato ai romani un grande monumento coi suoi 17 mila metri quadrati di superficie e 81 metri d’altezza. Con le sue statue e sculture, le sue decorazioni, i suoi musei. E i valori incisi sul marmo: l’unità della nazione che equivale alla libertà dei cittadini. “Una piccola città di memorie civili – chiosa Guiglia – dentro la grande Città eterna, un perfetto crocevia di Roma, che vuol dire amor all’incontrario”.

(Il Messaggero, 24 maggio 2015)

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La Grande Guerra. Poveri diavoli ed eroi, le storie dei combattenti

di Mario Avagliano

L'ultimo reduce della Grande Guerra del '15-'18, il bersagliere Delfino Borroni, è scomparso nel 2008 all'età di 110 anni. E gli eroi italiani della prima guerra mondiale, pur essendo l'Italia uscita vittoriosa da quel conflitto, sono nomi sconosciuti e poco o per niente giocati nel discorso politico e storico del nostro Paese, pur essendo presenti nella toponomastica di tutte le città d'Italia, con l'intitolazione di vie, piazze, scuole e istituzioni.
Il 4 novembre, giorno del trionfo italiano nel 1918, dopo la battaglia di Vittorio Veneto, non è neppure più festa. E anche il bellissimo film di Mario Monicelli con Alberto Sordi e Vittorio Gassman, intitolato appunto "La Grande Guerra", che contribuì alla demitizzazione della storiografia patriottica e romantica di quel conflitto, è inspiegabilmente tra i meno programmati dalle reti televisive.
Avvicinarsi a quegli italiani dell'Ottocento, sbattuti in trincea in quella prima immane carneficina massificata della Storia, non è affatto semplice, anche perché essi furono "oggetto di manipolazione e costruzione postuma a uso e consumo di questa e quella causa", in particolare quella fascista, come osserva Paolo Brogi in "Eroi e poveri diavoli della Grande Guerra" (Imprimatur, pp. 208, euro 15). C'è infatti un problema di fonti e di versioni dalle quali ricavare criticamente ciò che ci resta di quelle gesta.

È quel che prova a fare il libro di Brogi, che raccoglie una ventina di storie di eroi molto diversi fra loro, che costituiscono un campione rappresentativo di quell'esercito di italiani, 5 milioni e 200 mila, spediti al fronte, su un totale di 10 milioni di uomini validi. In pratica, uno su due, di cui 650 mila morirono in battaglia e un altro milione rimase ferito o mutilato per il resto della vita (22 mila ciechi, 75 mila storpi, 12 mila invalidi totali).
Seguiamo così la vita romanzesca di Enrico Toti, il bersagliere-ciclista con la gruccia, esemplare iperrealistico con quella sua menomazione dovuta a un incidente sul lavoro, il suo interventismo estremo, le sue imprese ciclistiche in giro per il mondo e la sua tenacia combattentistica ad ogni costo, nonostante gli fosse stata negata la matricola di militare a causa della sua inabilità.
Come non emozionarsi di fronte al coraggio dell' "irridente" Cesare Battisti - nulla a che fare col terrorista rosso, per carità - cittadino di quel Trentino che era ancora sotto l'Austria, che fu tra gli alfieri dell'intervento italiano e concluse il suo comizio al Campidoglio con l'invocazione: "Italiani! Tutti alla frontiera con la spada e col cuore!" Catturato dagli austriaci, fu processato per alto tradimento e impiccato il 12 luglio del 1916.
E poi il leggendario asso dell'aviazione Francesco Baracca, eroe gentiluomo, che dopo aver abbattuto un velivolo nemico, andava a soccorrere i piloti nemici, e sul suo aereo aveva fatto disegnato il cavallino rampante che poi divenne il logo della Ferrari. Il volontario quindicenne Roberto Sarfatti, ebreo, morto caporale in un'azione di attacco e figlio di quella Margherita Sarfatti, giornalista e scrittrice, che nel dopoguerra sarà amante di Benito Mussolini e contribuirà alla sua fama nel mondo con il libro-biografia "Dux", tradotto in varie lingue. Fino agli intellettuali e fini letterati Renato Serra e Scipio Slataper, depositari anche di accenti critici verso la guerra, oltre che di dedizione alla causa.
Non manca un accenno alle donne, come la maestra Luigia Guappi di Bologna e la pollivendola Gioconda Girelli di Milano che avevano vestito l'abito del soldato per recarsi a combattere.
Ma Brogi non ricorda solo gli eroi. Ogni guerra, Grande o piccola che sia, porta con sé drammi umani, atti di violenza, senso di orrore e di impotenza e anche gesti contrari, testimonianze a volte estreme di voglia di pace.
Non si può ignorare, in occasione del centenario del primo conflitto mondiale, il fenomeno dei renitenti alla leva (470 mila) e dei disertori (350 mila), molti dei quali motivati da sincero pacifismo. Un migliaio di loro, come ricordano Alberto Monticone e Enzo Forcella in "Plotone di esecuzione", pagò questa scelta con la fucilazione. Come il fante torinese, operaio, che scrisse in punta di morte: "Compagni la morte non mi fa paura, se anche i miei superiori mi dissero che questo è un posto d'onore, il mio sangue vorrò spenderlo per una causa giusta e leale, per far risorgere la vera società di fratellanza e di umanità".
E accanto agli eroi, ci sono i tantissimi italiani che sotto le bombe e il fuoco di trincea persero di fatto la vita, inghiottiti nel buco nero della follia. L'ultimo denso paragrafo del libro di Brogi è dedicato ai soldati usciti di senno in battaglia, per lo choc della guerra, che furono emarginati dalla società e, a volte, per il mal di vivere si suicidarono.
Si è detto, giustamente, che le trincee della Grande Guerra furono il campo-scuola in cui si forgiò l'Italia, perché per la prima volta piemontesi e siciliani, lombardi e campani, laziali ed emiliani, si incontrarono e fraternizzarono.
Ma l'altra faccia della medaglia, oltre ai morti, è rappresentata da quegli oltre 40 mila soldati che finirono nella rete dei manicomi di guerra, le cui vicende Brogi racconta con l'ausilio di documenti inediti, come le cartelle cliniche rintracciate nell'archivio dell'ospedale psichiatrico di Cogoleto a Genova. Con un termine inglese oggi questo insieme di disordini mentali è stato catalogato come post traumatic stress discorder. Allora, nel '15-'18, la definizione fu più cruda: "scemi di guerra".

(Una versione più breve è stata pubblicata su Il Messaggero del 27 luglio 2014)

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