Storie – Mal d’Africa

di Mario Avagliano

  La “conquista” dell'Impero di Etiopia, datata 9 maggio 1936, è al centro dell’interesse dell’editoria. Tre libri sono usciti di recente sull’argomento, affrontandolo da diverse prospettive, e svelando con documenti coevi, memorie o la forza della narrativa il grande bluff di Mussolini.
Il saggio storico "L'ora solenne" di Marco Palmieri (Baldini & Castoldi, pp. 316) racconta come vissero gli italiani quella fase storica, in cui si registrò il massimo dei consensi per il regime fascista e per l’impresa militare, che in realtà venne compiuta al prezzo di violenti eccidi, anche con l'impiego di gas, con i ribelli che continuarono a resistere e solo una piccola parte del territorio effettivamente controllata dalle forze militari italiane.
Il romanzo storico "I fantasmi dell'Impero" (Sellerio, pp. 542), di Marco Consentino, Domenico Dodaro e Luigi Panella, ha come filo conduttore un'inchiesta del magistrato militare Vincenzo Bernardi (che prende spunto dalla figura reale del capo della giustizia militare dell'Africa Orientale italiana, Bernardo Olivieri) e vede dietro le quinte lo scontro tra i due super-nemici dell'epoca Graziani e Pietro Badoglio, il primo fascistissimo, l'altro legato ai Savoia. Un pretesto per narrare il "cuore di tenebra" del colonialismo italiano, mettendo a nudo i suoi orrori e le sue bassezze, e anche il conflitto sotterraneo che oppose la milizia fascista agli ufficiali dell'esercito.
Infine “Ti saluto vado in Abissinia” di Stefano Prosper (Marlin, pp. 348) descrive le esperienze di un giovane volontario, Mario Prosperi, nella guerra d’Etiopia del 1935-36, tra eccitazione, dubbi e timori davanti ad un futuro nuovo in un paese sconosciuto. Nel corso della sua esperienza africana il giovane approderà a convinzioni più nettamente antifasciste, mettendo in rilievo, con coraggio e determinazione, gli aspetti negativi di quella che si rivelò un’ambiziosa e disastrosa impresa del Regime.

(L'Unione Informa e Moked.it del 14 marzo 2017)

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Una gavetta piena di fame

Il terzo volume della collana Filo Spinato

Una gavetta piena di fame. Due anni di lager e di sofferenze raccontati alla piccola Pucci (Marlin, 334 pagine, 16 euro), nuovo libro della collana "Filo Spinato", diretta da Mario Avagliano e Marco Palmieri, propone il diario del capitano Luigi Salvatori, scritto durante l’internamento nel Terzo Reich.
Si tratta di una testimonianza nitida e toccante dell’esperienza vissuta dai circa 650.000 italiani rinchiusi nei lager nazisti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 con la qualifica di Internati Militari Italiani (IMl), per aver rifiutato di continuare la guerra al fianco dei tedeschi e di aderire alla Repubblica di Salò.
Ritrovato dalla figlia e dal nipote dopo la morte di Salvatori, il diario inizia il 4 dicembre 1944 nel campo di Sandbostel, nella Bassa Sassonia, sotto forma di una lettera alla figlia Pucci (Liliana), di appena cinque anni.

Sono pagine di grande vivezza, in cui l’autore con limpido stile narrativo racconta la guerra e la prigionia, e prosegue con annotazioni pressoché quotidiane dal 23 febbraio fino al 14 settembre 1945, giorno dell’arrivo a Roma. La sua è una cronaca straordinaria dall’interno dei lager sulle condizioni degli IMl e il trattamento subito dai tedeschi, oltre che sulle ragioni della loro scelta.
Di eccezionale valore storico la testimonianza sul periodo dell’occupazione italiana in Grecia, caratterizzata da ruberie, facili costumi e violenze efferate da parte dei soldati italiani nei confronti dei ribelli e della popolazione.

LUIGI SALVATORI (L’Aquila 1911 - Rieti 1989), arruolatosi nell’esercito a diciotto anni, frequentò l’Accademia di Artiglieria e Genio di Torino. Allo scoppio della seconda guerra mondiale prese parte alle operazioni belliche contro la Francia. L’anno seguente combatté sul fronte greco e successivamente sul fronte jugoslavo. Dopo la resa della Grecia fu destinato a Larissa, in Tessaglia, dove il 1° ottobre 1941 gli giunse la promozione a capitano. Qui l’11 settembre 1943 venne catturato dai tedeschi e internato in diversi lager: Leopoli (Polonia), Deblin Irena (Polonia), SandbosteL (Germania), Wietzendorf (Germania), Muhlberg Elbe (Germania). Liberato dall’Armata Rossa il 23 marzo 1945, rientrò in patria e, ripreso servizio nell’esercito, si trasferì A Rieti, chiudendo la carriera col grado di generale di divisione. Tra le varie decorazioni ottenne due croci al merito di guerra per le operazioni belliche a cui aveva partecipato tra il 1940 e il 1943 ed una per l’internamento subito nel Terzo Reich. Il 27 gennaio 2010 gli è stata assegnata “post mortem” la medaglia d’onore riservata agli ex deportati nei lager nazisti. Tranne che in un’occasione, Luigi Salvatori non volte mai parlare dette sue esperienze di prigioniero. Oltre al diario che qui pubblichiamo, dedicato alla figlia Liliana (Pucci), resta inedito un secondo memoriale indirizzato alla moglie Gianna.

Giorno della Memoria 2013, la collana "Filo Spinato" propone due nuovi libri sulla persecuzione degli ebrei

Per il Giorno della Memoria, la collana "Filo Spinato" diretta da Mario Avagliano e Marco Palmieri, propone due libri dedicati alla persecuzione e allo sterminio degli ebrei in Italia e in Europa: La lunga strada sconosciuta. Una famiglia ebrea nella morsa nazista di Roberto Lughezzani (Marlin Editore, pp. 228, euro 16) e Le donne ebree in Sicilia al tempo della Shoah. Dalle leggi razziali alla liberazione (1938-1943) di Lucia Vincenti (Marlin Editore, pp. 108, euro 12).


La lunga strada sconosciuta

Il libro racconta la vicenda di Hela Schein e di Otto e Heinz Skall, nonché di Willi Kleinberg e Gusti Mandler (rispettivamente secondo marito di Hela e seconda moglie di Otto). Una famiglia ebrea che la persecuzione nazifascista e la seconda guerra mondiale separano brutalmente, costringendo i suoi membri a vivere in tre angoli diversi d’Europa: Austria, Cecoslovacchia e Italia. La loro tragica storia, ricostruita con sensibilità da Roberto Lughezzani, ricalca quella di milioni di ebrei: nell’attesa angosciosa della fine, Willi muore di crepacuore, mentre Hela, deportata in Polonia, sparisce nell’orrore del lager; Otto con la seconda moglie Gusti si suicida a Praga per sfuggire alla deportazione a Theresienstadt; Heinz, che ha studiato in Italia, dopo il varo delle leggi razziali finisce nel campo d’internamento di Campagna, e poi a Sala Consilina, in provincia di Salerno. A Campagna diventa amico del vescovo Giuseppe Maria Palatucci, zio dell’eroico Giovanni Palatucci e suo prezioso collaboratore nell’opera di soccorso degli ebrei, mentre a Sala Consilina intreccia una tenera storia d’amore con una giovane insegnante, Rita Cairone, che sposerà dopo la guerra. Heinz resterà fino all’ultimo il custode delle memorie familiari, il depositario delle lettere straordinarie che i suoi gli avevano scritto negli ultimi anni di vita. Sono lettere che si leggono con viva commozione e, contro ogni forma di negazionismo, testimoniano la ferocia con cui il nazismo infierì su milioni di esseri umani, di null’altro colpevoli che di essere ebrei.

Roberto Lughezzani, nato nel 1946 a San Martino Buon Albergo (VR) e laureato in lettere antiche, ha insegnato in un liceo di Verona. In particolare si è occupato di divulgazione della storia della Resistenza veronese, svolgendo le sue ricerche con interviste anche filmate. Da alcuni anni raccoglie le testimonianze, gli scritti e i diari di internati militari italiani nei lager nazisti.

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Le donne ebree in Sicilia al tempo della shoah

Cosa cambiò nella vita delle donne ebree o sposate con ebrei al tempo del fascismo in Sicilia, in particolare dopo il varo delle leggi razziali del 1938? Attraverso testimonianze e interviste, questo libro ricostruisce gli stati d’animo e la reazione delle donne perseguitate, all’interno della vicenda più complessa che riguarda gli ebrei presenti nell’isola durante il Ventennio. La loro fu una storia di coraggio, di amore e di resistenza. Appartenevano per lo più alla classe borghese medio-alta; erano donne colte, che frequentavano i salotti bene delle città. Alcune di esse erano impegnate in attività lavorative, altre avevano preferito occuparsi esclusivamente della gestione familiare. Erano medici, imprenditrici, scrittrici, maestre di danza, madri, casalinghe. Tutte indistintamente da un giorno all’altro si trovarono a subire gravi limitazioni nei loro diritti civili, in un crescendo di tragedie ed angosce, che ebbe termine con l’arrivo degli Alleati nel luglio 1943. Per tre ebree siciliane, che si trovavano nell’Italia del centro-nord, il destino fu quello della deportazione nei lager. E nessuna di loro tornò a raccontare l’orrore che aveva vissuto. trama che si snoda tra passato e presente, dal 1677 ai nostri giorni, con al centro una creatura che decide di raccontarsi attraverso quello che i suoi occhi e quelli di chi l’ha amata, odiata o ne ha subìto il fascino diabolico, hanno visto. Un viaggio lungo quattro libri, che riporterà Raistan a casa… Forse. Gli altri tre capitoli della sua storia sono: RVH. La caduta; RVH. La vendetta; RVH. Morte e Vita.

Lucia Vincenti è nata a Palermo. Laureata in Scienze politiche, da oltre un quindicennio conduce ricerche relative alla storia contemporanea siciliana durante il fascismo. Le sue pubblicazioni sull’argomento sono: Comunità ebraica palermitana in “Rassegna Siciliana di Storia e Cultura” (1998); Storia degli Ebrei a Palermo durante il fascismo (1998); Ieri e oggi, la Sicilia e l’ebraismo. Un mancato ritorno, in “Nuove Effemeridi” (2001); Persecuzioni antisemite in Sicilia durante il fascismo. Oblio di un recente passato, nel catalogo della mostra “Ebrei e Sicilia” (2003); Non mi vedrai più. Persecuzione, internamento e deportazione dei siciliani nei lager (1938-1945) (2004); Il silenzio e le urla. Vittime siciliane del fascismo (2007). Ha rivestito numerosi incarichi e dal gennaio 2003 fa parte del comitato scientifico dell’Istituto Mediterraneo di Studi Universitari, Parco Culturale Raul Wallenberg, Dipartimento di Studi Ebraici. Nel novembre 2000 è stata nominata membro del Comitato Scientifico della Mostra “Ebrei e Sicilia”. Ha tenuto decine di convegni, seminari e incontri presso le scuole e le istituzioni siciliane.

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La collana “Filo Spinato”

Marlin vara una nuova collana, unica in Italia, che raccoglie memorie, diari e lettere riguardanti esperienze di guerra, di prigionia e di deportazione.
Accompagnati dalla riproduzione di documenti e immagini inedite, i volumi in progetto contribuiranno a ricostruire periodi drammatici e importanti della storia italiana ed internazionale, dall’inizio del ’900 ai nostri giorni, rivissuti attraverso le parole di chi ne fu artefice e vittima. La collana è diretta da due specialisti, Mario Avagliano e Marco Palmieri, che analizzano e inquadrano i testi prescelti nel contesto storico da cui sono scaturiti, per consentire al lettore di approfondirne la comprensione e la conoscenza.
Gli altri volumi finora pubblicati sono: Ho scelto il lager di Aldo Lucchini, Gli zoccoli di Steinbruck di Pompilio Trinchieri, Una gavetta piena di fame di Luigi Salvatori.

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I ragazzi di Via Buonarroti. Una storia della resistenza

E' appena uscito il nuovo volume della collana "Il Filo Spinato", dal titolo "I ragazzi di via Buonarroti. Una storia della Resistenza", a cura di Massimo Sestili, con introduzione di Mario Avagliano.

IL LIBRO

La storia dei cinque ragazzi di via Buonarroti – Paolo Petrucci, Paolo Buffa, Enrica Filippini-Lera e Vera e Cornelio Michelin-Salomon – è rappresentativa di quanto accadde in Italia durante l'occupazione nazista, delle diverse forme di resistenza che si svilupparono, dei diversi ambienti sociali e politici che vi parteciparono, dei tanti giovani che rendendosi conto di vivere in un mondo inconciliabile, si schierarono per la libertà e pagarono duramente il loro impegno con il carcere, la deportazione e la morte. Pur nascendo nel contesto dell'antifascismo romano e dell'occupazione nazista di Roma, la storia dei cinque ragazzi si sviluppa prima al Sud, con la missione che coinvolse tragicamente Giaime Pintor; poi al Nord, dove Paolo Buffa si recò in missione come tenente delle N. 1 Special Forces dopo la liberazione di Roma; ed infine ad Aichach in Germania, dove Enrica e Vera vennero deportate. Arrestati anch’essi dai nazisti e processati dal tribunale tedesco di guerra, i tre ragazzi erano stati giudicati innocenti.

Ma per una tragica fatalità, il 24 marzo 1944 si trovavano ancora nel carcere di Regina Coeli e uno di essi, Paolo Petrucci, fu tradotto alle Fosse Ardeatine e trucidato insieme ad altri 334 innocenti con un colpo alla nuca. Un ampio apparato di lettere, fotografie e documenti inediti, frutto di anni di ricerca, aiuta a ricostruire la vita e il destino dei cinque ragazzi di via Buonarroti e rende palpitante la lettura di queste pagine, capaci di commuovere fino alle lacrime.   

L’AUTORE

Laureato in Filosofia e docente di Letteratura e Storia, Massimo Sestili in questi ultimi anni si è interessato dell’errore giudiziario nella letteratura. Ha pubblicato il volume L'errore giudiziario. L'affaire Dreyfus, Zola e la stampa italiana (2004). Ha curato e tradotto opere di Bernard Lazare (Contro l'antisemitismo, 2004, e L'antisemitismo. La sua storia e le sue cause, 2006), di Jules Verne (Un dramma in Livonia, 2009) e di Émile Zola (L'Affaire Dreyfus, 2011). Attualmente si sta interessando della Resistenza e della lotta per la casa a Roma nel secondo dopoguerra. Su questi temi ha pubblicato articoli e interviste. Negli anni è stato promotore di vari corsi di formazione dedicati alla didattica della Storia e della Letteratura nelle scuole. Collabora con varie riviste, tra cui “Patria Indipendente”.  

<<So che vi è un elevato numero  di probabilità di perdere la vita  e che in ogni modo sarà una prova durissima e dolorosa, pure ho deciso  di affrontarla perché tale è il dovere (non verso l’umanità come assieme  di uomini, ma per l’Umanità,  cioè per quei pochi che soli vivono). Se non cadrò forse mi sentirò riscattato e degno di vivere, se andrà altrimenti, la coscienza di non essermi sottratto  al dovere mi aiuterà ad affrontare  la prova suprema>>. (Paolo Buffa) 

Storie – La lunga strada sconosciuta

di Mario Avagliano

Tra il 1933 e il 1945 prima la persecuzione nazifascista e poi la seconda guerra mondiale separarono brutalmente molte famiglie di ebrei, costringendo i loro membri a cercare di sopravvivere in vari angoli d’Europa. E’ il caso di Hela Schein e di Otto e Heinz Skall, nonché di Willi Kleinberg e Gusti Mandler (rispettivamente secondo marito di Hela e seconda moglie di Otto), una famiglia ebrea “frammentata” in quegli anni tra Austria, Cecoslovacchia e Italia.
La loro vicenda è stata raccontata, con garbo e sensibilità, da Roberto Lughezzani nel bel libro La lunga strada sconosciuta. Una famiglia ebrea nella morsa del nazifascismo (Marlin editore).
La tragica storia ricalca quella di milioni di ebrei: nell’attesa angosciosa della fine, Willi muore di crepacuore, mentre Hela, deportata in Polonia, sparisce nell’orrore del lager; Otto con la seconda moglie Gusti si suicida a Praga per sfuggire alla deportazione a Theresienstadt.
L’unico sopravvissuto della famiglia è il giovane Heinz, figlio di Hela e di Otto, che ha studiato in Italia e dopo il varo delle leggi razziali finisce nel campo d’internamento di Campagna, e poi a Sala Consilina, in provincia di Salerno.
A Sala Consilina Heinz intreccia una tenera storia d’amore con una giovane insegnante, Rita Cairone, che sposerà dopo la guerra. Egli resterà fino all’ultimo il custode delle memorie familiari, il depositario delle lettere straordinarie che i suoi gli avevano scritto negli ultimi anni di vita. Sono lettere che si leggono con viva commozione e, contro ogni forma di negazionismo, testimoniano la ferocia con cui il nazismo infierì su milioni di esseri umani, di null’altro colpevoli che di essere ebrei.

(L'Unione Informa, 11 giugno 2013 e portale Moked.it)

Roberto Lughezzani "La lunga strada sconosciuta"
Una famiglia ebrea nella morsa del nazifascismo
Presentazione di Elena Skall

Ft. 12,2 x 20
pp. 228€ 16,00
ISBN 978-88-6043-079-3

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Una vittoria amara. La corrispondenza di due coniugi resistenti dell'Italia del 1943-1945

Fu davvero amara la vittoria della guerra di Liberazione? Di certo non fu tutta rose e fiori, chewing-gum e caramelle, tricolori e bandiere a stelle e strisce. Ce lo raccontano due italiani resistenti di allora, protagonisti del libro Una vittoria amara (Marlin Editore, pp. 528, euro 18): il generale di brigata Giulio Cesare Tamassia, reduce della Grande Guerra, monarchico, anticomunista di ferro, tra i dirigenti del Fronte militare clandestino romano guidato da Giuseppe Montezemolo, e la moglie Bianca Mazzarotto, originaria di Rovigo, scrittrice d’impronta dannunziana ma più liberal del marito, collaboratrice del movimento partigiano in Veneto. Due esponenti di quella Resistenza militare o moderata (spesso l’uno e l’altra) per troppo tempo cancellata dai libri di storia e avvolta dal silenzio e dall’oblio.
A leggere la corrispondenza di Giulio e Bianca e le loro confessioni intime, risulta evidente che nella primavera del 1945 per molti italiani la gioia della riacquistata libertà ebbe un certo retrogusto asprigno, dovuto agli strascichi dolorosi della campagna d’Italia e alle violenze della guerra civile, ma anche alle case distrutte dai bombardamenti, ai parenti e agli amici morti, e alla difficile transizione verso la democrazia di un Paese tutto da ricostruire e in quel momento ancora sotto il giudizio (e sotto lo schiaffo) degli Alleati. Il libro segue, quasi sotto forma di cronaca, il tragico biennio che va dal luglio 1943 al maggio 1945. A scandire gli avvenimenti, è il sapiente intercalare nel carteggio tra i due coniugi e di altri brani tratti dai loro diari, amorevolmente raccolti e ordinati dal figlio Renato, terzo protagonista del racconto, anche se parlante solo per interposta persona, data la tenera età (era nato nel pieno della guerra, nel dicembre del 1940). Dopo l’8 settembre, è l’ora delle scelte per chi è di carriera militare o è sotto le armi. Il cinquantaduenne Giulio, che si trova a Trieste, potrebbe, come milioni di italiani dell’epoca, entrare nella “zona grigia” dell’equidistanza, oppure aderire alla neonata Repubblica Sociale. Invece decide di partecipare alla guerra di liberazione. I motivi principali sono la fedeltà al re, l’amor di patria e il desiderio di preservare l’«indipendenza dell’Italia» dall’invasore tedesco.

Il 20 settembre parte in treno per Roma e si unisce al Fronte militare clandestino. Tamassia, come Montezemolo, ritiene che nella capitale l’attività più importante da svolgere sia quella di sottrarre uomini alla Repubblica Sociale e svolgere un’efficace azione di spionaggio e di intelligence al servizio del governo del Sud, oltre che predisporre un piano per un trapasso indolore al momento dell’arrivo degli Alleati. «Quanto faccio – annota nel suo diario il 19 aprile 1944 – è assolutamente contrario alle inutili violenze e agli sciocchi delitti. Tende a ristabilire ordine disciplina possibilità di lavoro proficuo, restaurazione di valori morali. Chiedo e cerco l’indipendenza d’Italia e per essa la libertà più assoluta di scegliersi la via più conveniente per ritrovare la sua grandezza vera». Le azioni armate, quindi, almeno nel perimetro della città sono considerate «inutili» perché rischiano di provocare «solo dolorose rappresaglie». Cosa che puntualmente avviene dopo via Rasella, con l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Particolare interessante: già nei giorni successivi, come annota Giulio, «C’è chi dice che il fatto è stato organizzato ad arte [dai comunisti] per toglier di mezzo vittime designate [in particolare gli esponenti di Bandiera Rossa e del Fronte militare clandestino] e per disturbare». Una falsa tesi che sarà ripresa più volte nel dopoguerra da estrema destra e estrema sinistra. I tedeschi e la polizia fascista lo ricercano attivamente. La sua prudenza lo salva. Più di una volta sfugge per miracolo alla cattura e ai rastrellamenti. La quarantacinquenne Bianca col piccolo “Renatino” ciondola tra Trento, Venezia e Scomigo, mai tranquilla, sempre rischiando la vita o la libertà, tra bombardamenti, colpi di mitraglia, attività di collaborazione alla Resistenza, corrispondenza con il marito.

Il ritratto dell’Italia in guerra che viene fuori dalle pagine di questo libro è terrificante. Venezia piena di barche, ma «tutte con la croce uncinata a coprire i segni di italianità!». Roma prigioniera, «piena di mendicanti che dicono: ho fame! con bambini in collo avvolti in poveri cenci», sotto l’incubo dei bombardamenti, tanto che «Molta gente durante la giornata si rifugia in Piazza san Pietro e vicino al Vaticano come a luoghi sicuri», ma comunque irridente: «Qualche bello spirito ha scritto a Porta Pia di notte: “Coraggio inglesi, i russi stanno arrivando a Porta Pia”». Uno dei temi più interessanti del libro è il tormentato rapporto con i tedeschi e con gli Alleati. Giulio Tamassia, dal punto di vista militare, ammira «le capacità di resistenza e di manovra dei tedeschi, infinitamente superiori nel campo tattico e nella rapidità di decisione». Ma ne depreca i modi e la brutalità. Quanto agli Alleati, il giudizio dei due coniugi è negativo. Nel mirino ci sono soprattutto i bombardamenti alle città: «Non sono gli italiani, ma i tedeschi che occorre battere». Il 4 giugno 1944 Roma viene liberata ma la guerra li terrà lontani ancora a lungo. Fino a quando il 30 aprile 1945, Bianca, commossa ed eccitata, a Scomigo, potrà finalmente tirare fuori le bandiere ed esporle alle finestre: «Pare un sogno! Tutto è andato benissimo, nel migliore dei modi che mai si potesse sperare, e l’insurrezione partigiana e popolare è stata una cosa meravigliosa». Quello stesso giorno Giulio annota nel suo diario: «Giustizia (o vendetta) è fatta: i capi del fascismo sono stati giudicati da cosiddetti tribunali del popolo e la folla sanguinaria e incosciente ha commesso atti di barbarie sui loro cadaveri. Doveva finire così».

Pane secco e Avemarie. Due militari italiani nei Lager nazisti

VALERIA NICOLIS 
PANE SECCO E AVEMARIE - Due militari italiani nei Lager nazisti 
Introduzione di Mario Avagliano 
 
IL LIBRO 
In queste pagine sono raccolte le vicende simili e diverse di due futuri amici accomunati dall’esperienza di prigionia, Enrico Bertolini e Luigi Montresor. Il Bertolini (1923-1982), nonno materno dell’autrice, aveva da poco compiuto vent’anni quando venne catturato presso Atene dopo l’armistizio dell’8 settembre e diventò un IMI, un internato militare italiano. 
La sua storia, ricostruita a partire dai pochi ricordi condivisi non senza reticenza con i familiari, per quanto frammentaria e incompleta, tratteggia alcuni aspetti dell’esperienza di un giovane soldato italiano alle prese con la prigionia. Il carteggio di Luigi Montresor (1916-1987), catturato presso la caserma di Verona, permette di immergersi in modo più approfondito nella sua vicenda di internato militare, grazie alle lettere scambiate con il padre Pompeo lungo tutto il periodo di prigionia, tra il 1943 e il 1945. 
In queste lettere, dal tono rassicurante ed ottimista, si intravedono vari elementi dell’esperienza dell’internato: dal lavoro ai bombardamenti, dalle difficoltà alle speranze, espressi in uno stile delicato e gentile, tipico della sua personalità. Divenuto, in seguito al rimpatrio, presidente della sezione ANEI del comune di Bussolengo, il Montresor conobbe il compaesano Enrico Bertolini con il quale, sulla base della comprensione che poteva esserci solo tra chi ha vissuto momenti così duri da renderne quasi impossibile la condivisione con chiunque altro, nacque una profonda amicizia che li legò per il resto della vita. 
 
VALERIA NICOLIS, nata a Bussolengo in provincia di Verona nel 1992, studia Teologia presso lo Studio Teologico San Zeno della città capoluogo. Dai racconti della nonna è nata la sua passione per le storie di famiglia, da cui deriva questo lavoro, che le ha consentito di avvicinarsi all’esperienza di un nonno mai conosciuto. 
 
LA CITAZIONE
La bisnonna Nina appese al muro una grossa cartina della Germania e ogni volta che ci passava davanti si fermava a toccare quel punto ripetendo “Mio figlio è qui”, come se consumando la carta potesse sorvolare i chilometri con la punta del dito per posare una carezza sul suo ragazzo. Alla fine della guerra, quella piccola porzione della cartina era così lisa che il nome della città non si leggeva più.

Quelli di Radio Caterina. La resistenza dietro il filo spinato

E questo è l'ultimo nato della collana storica "Il Filo Spinato" della Marlin Editore, diretta da Mario Avagliano e Marco Palmieri
 
ARRIGO BOMPANI 
QUELLI DI RADIO CATERINA 
A cura di Antonio Ceglia 
Presentazione di Angelo Tranfaglia 
 
IL LIBRO 
Il volume accoglie la narrazione delle vicende accadute dall’8 settembre 1943 al 24 agosto 1945, periodo di prigionia del Tenente Arrigo Bompani, dal momento della cattura del reparto da lui comandato, di stanza nell’entroterra ligure. La lunga tradotta lo porta a Sandbostel, nella bassa Sassonia, e Bompani racconta i disagi e le angherie sopportate dagli italiani nei vari Lager. Un lungo accenno ai dinieghi degli IMI (Internati Militari Italiani) alle continue richieste di collaborazione, avanzate dai tedeschi e dai repubblichini, fa risaltare l’eroica dignità dei nostri soldati che, pur vivendo una vita al limite della sopportazione, non cedono alle lusinghe di nazisti e fascisti. 
Grande rilievo assume nel racconto l’episodio della “Caterina”, una radio costruita con materiale di fortuna, consistente in barattoli, grafite di matita ecc., una radio che permetteva agli internati di conoscere, prima dei loro carcerieri, le vicende che si svolgevano in Europa. Con dovizia di particolari vengono descritte le peregrinazioni da un campo di concentramento all’altro e la vita che si svolgeva nel campo di Wietzendorf. 
Durante uno dei trasferimenti il Bompani conobbe lo scrittore Giovanni Guareschi e racconta un gustoso episodio di cui il padre di “Don Camillo” fu protagonista. Il rientro in patria avvenne in un clima di diffidenza e sospetto, come narrato nel finale, dove l’autore cerca di capire e spiegare i motivi dell’indifferenza con cui la popolazione accolse il ritorno dei prigionieri dai campi di concentramento. 
 
 
ARRIGO BOMPANI (Crespellano, Bologna 1914 - Bologna 2013), richiamato alle armi nel 1941 e, con il grado di Tenente, incaricato di sorvegliare la costa e la linea ferroviaria da Savona a Ventimiglia, la mattina dell’11 settembre fu sorpreso da un grosso contingente di truppe tedesche e fatto prigioniero con i suoi uomini. Dopo venti mesi di Lager, rimpatriò nell’agosto del 1945 e venne congedato il 3 ottobre con il grado di Maggiore. Conseguito il diploma di geometra, si impiegò nell’ufficio del Catasto cittadino. Quale ex ufficiale internato nei Lager tedeschi, aderì all’ANEI (Associazione Nazionale Ex Internati) e costituì la sezione di Bologna, diventandone il Presidente. Ha partecipato ad innumerevoli interventi nelle scuole, soprattutto per raccontare l’“altra resistenza” effettuata nei Lager dagli IMI. Per sua iniziativa, sulla facciata del Palazzo del Podestà di Bologna fu apposta una lapide in ricordo dei militari italiani caduti nei Lager e venne eretto all’ingresso del cimitero cittadino un monumento progettato dall’architetto Pancaldi, suo compagno di prigionia. 
 
ANTONIO CEGLIA è nato a Bari nel 1946. Ufficiale di carriera nell’esercito, ha terminato la sua attività come Generale nel 2006 nella città di Bologna. Con Arrigo Bompani ha organizzato un convegno sugli ex internati militari al quale partecipava la figlia di Giovanni Guareschi, Carlotta. Essendo egli stesso figlio di un internato, si è appassionato alla storia dell’amico e, insieme a lui, ne ha raccolto le vicende. 
 
LA CITAZIONE
Ognuno di noi si trovò improvvisamente nudo: tutto fu lasciato fuori del reticolato: la fama e il grado, bene o male guadagnati. E ognuno si trovò soltanto con le cose che aveva dentro. Con la sua effettiva ricchezza o con la sua effettiva povertà. E ognuno diede quello che aveva dentro e che poteva dare e così nacque un mondo dove ognuno contava per uno. Giovanni Guareschi
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