Quando i razzisti salirono in cattedra.... in Germania e in Italia

di Mario Avagliano

Erano belli, brillanti, intelligenti e colti. Furono responsabili della morte di milioni di ebrei. Il nazismo in Germania non fu solo un movimento guidato da folli in preda a deliri di onnipotenza. Hitler si avvalse di una poderosa macchina burocratica e di propaganda che, per funzionare, aveva bisogno di uomini preparati. Giuristi, dottorandi in economia o in storia, giovani laureati costituirono un’élite di intellettuali che svolse un ruolo fondamentale sia dal punto di vista teorico e organizzativo, sia come apparato di esercizio quotidiano del potere.
Ma che cosa spinse questi uomini a mettersi al servizio del nazismo? Un poderoso saggio di uno storico francese, Christian Ingrao, intitolato «Credere, distruggere. Gli intellettuali delle SS» (Einaudi, pp. 405, euro 34), cerca di dare una risposta a questo interrogativo, seguendo i percorsi biografici e culturali di ottanta di loro.

Secondo la tesi di Ingrao, che ha fatto già discutere in Francia e in Germania, grosse colpe sono addebitabili alla cultura bellica e alle vicende della Grande Guerra, che ebbero particolare influenza sui bambini tedeschi di allora, tanto più quelli provenienti dalle aree di confine, che subirono occupazione ed espropri da parte delle Nazioni vincitrici del conflitto. Werner Best, ad esempio, a undici anni durante la guerra perse il padre, il quale gli lasciò una lettera in cui esortava lui e il fratello «a diventare uomini, tedeschi e patrioti».
Gli studenti tedeschi degli anni 1918-1924, futuri intellettuali delle SS, espressero con la massima chiarezza questa angoscia escatologica e costituirono il grosso delle truppe delle varie formazioni paramilitari sorte in quel periodo. La loro militanza proseguiva la lotta contro il trattato di Versailles, che aveva umiliato i tedeschi, per la salvaguardia della nazione assediata da un «mondo di nemici», esterni ed interni, ed ebbe come valvola di sfogo finale l’adesione in massa al movimento nazista.
Il partito di Hitler, col suo progetto di rifondazione della germanità e di affermazione della superiorità della razza nordico-ariana, riuscì ad intercettare il loro consenso, rappresentando il transfert di una rivincita anche ideale di una generazione, il sogno di un invincibile Grande Reich millenario.
La storia divenne così la ragione legittimatrice di una «scienza combattente», di un corpo elitario di intellettuali che, rileva Christian Ingrao, mobilitò a partire dal 1939 il razzismo e l’antiebraismo nella giustificazione della guerra e nella produzione dell’immagine del nemico e in molti suoi elementi non ebbe il timore di sporcarsi le mani nel genocidio degli ebrei, partecipando in prima persona agli eccidi di massa, prima nell’Est europeo e poi anche nel Reich.
La maggior parte degli intellettuali SS sopravvisse all’apocalisse del 1945, subendo molto spesso duri processi, in qualche caso il patibolo e di frequente il carcere.
La parabola degli intellettuali italiani dell’epoca presenta alcuni punti in comune e parecchie divergenze con i loro coetanei d’oltralpe. Anche il consenso degli intellettuali italiani al fascismo trovò, almeno in parte, le sue radici nella prima guerra mondiale, nella delusione conseguente alla cosiddetta vittoria mutilata e nelle ambizioni di costruire un’Italia nuova e potente, erede della Roma imperiale, protagonista in Europa e nel Mediterraneo. Il partito fascista di Benito Mussolini, tuttavia, all’inizio non fu antisemita, anzi molti ebrei militarono nelle sue fila, anche con incarichi di rilievo. La svolta razzista e antiebraica, che negli anni Venti coinvolgeva solo una minoranza di uomini di cultura, prese corpo a seguito della conquista dell’Etiopia.
Giornalisti, artisti e scrittori parteciparono attivamente all’intensa campagna di propaganda antisemita orchestrata dal regime tra il 1937 e il 1938 e dopo l’emanazione delle leggi razziali, avvenuta nell’autunno del 1938, per oltre sei anni intellettuali, docenti universitari, magistrati, avvocati e funzionari di basso e di alto livello prestarono la propria opera al servizio della persecuzione. Un bel libro appena uscito, «Baroni di razza» di Barbara Raggi (Editori Riuniti, pp. 216, euro 22,90), spiega, come recita il sottotitolo, «come l’Università del dopoguerra ha riabilitato gli esecutori delle leggi razziali». Rimasero tutti (o quasi) al loro posto, perfino Nicola Pende, firmatario del famigerato Manifesto della Razza. L’epurazione annunciata dal nuovo Stato democratico non ci fu e l’apparato burocratico, culturale, amministrativo del fascismo “subentrò” a se stesso, in una sostanziale continuità.
I baroni del potere culturale, scientifico, professionale e universitario, che avevano fatto il bello e il cattivo tempo durante il Ventennio mussoliniano, scansarono le dure sentenze della Storia, transitando senza colpo ferire nella Repubblica. Così Gaetano Azzariti, che era stato presidente del Tribunale della Razza, divenne nel 1957 presidente della Corte Costituzionale. E a questo gioco, rivela lo studio di Barbara Raggi, si prestarono anche figure luminose dell’antifascismo, come Guido Calogero, che scrisse una lettera già nel 1944 per difendere Antonio Pagliaro, insigne linguista e glottologo, che aveva fatto parte del Consiglio superiore della demografia e della razza. Grazie a Calogero anche Pagliaro venne degnamente riabilitato nel 1946 e concluse la sua carriera col rango di professore emerito. Segno di un processo di defascistizzazione dell’Italia che fu largamente incompiuto, falsato, come scrive Pasquale Chessa nell’introduzione, dal peccato originale di «un algoritmo del perdono morale etico e politico”.

(Il Mattino, 9 dicembre 2012)

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Quel Fuhrer con una faccia da spot

di Mario Avagliano

Hitler simil-bambino, dipinto dall’estroso artista padovano Maurizio Cattelan in ginocchio e quasi in lacrime nel Ghetto di Varsavia ed esposto al pubblico col titolo “Him” (Lui) proprio nel quartiere della capitale polacca in cui molti ebrei furono uccisi o deportati nei campi di concentramento. Hitler testimonial di uno shampoo venduto in Turchia con lo slogan “per maschi al 100 per cento”. Hitler a cartoni animati, con un’acconciatura color ciliegia o in costume da panda e bracciale con la svastica, che spopola sulle magliette e sui muri di Bangkok, in Thailandia.
E ancora: Hitler miagolante, riprodotto in uno strano incrocio di gatti dal manto bianco, i Kitler, con macchie nere che rimandano ai baffi ed alla pettinatura del dittatore tedesco. Hitler scrittore best-seller in diversi paesi arabi, in funzione anti-Israele, con il suo manifesto razzista Mein Kampf.
C’era una volta il Male assoluto. Oggi Adolf Hitler non è più un tabù. E la sua immagine, il suo profilo, addirittura i suoi slogan deliranti e i suoi simboli minacciosi vengono utilizzati indifferentemente per motivi di marketing, per pubblicizzare prodotti di largo consumo, per ragioni di politica internazionale oppure col pretesto dell’arte, del cinema e della letteratura.
Insomma, Hitler Er Ist Wieder, vale a dire "È tornato", come titola il provocatorio romanzo dello scrittore esordiente Timur Vermes, pubblicato in Germania lo scorso anno con una copertina tutta bianca, ornata solo dalla celebre frangia nera del Führer. Un libro che in pochi mesi è schizzato a sorpresa in cima alle classifiche tedesche, è in via di pubblicazione in inglese, in francese e altre quindici lingue (in Italia per Bompiani) e presto forse sarà anche oggetto di una versione cinematografica.

Vermes ha immaginato un redivivo Hitler che si sveglia a Berlino, nella Germania di Angela Merkel, nell’estate del 2011, dopo un letargo durato 66 anni. Scambiato per un imitatore di mezza età che fa la caricatura del dittatore, partecipa a uno show televisivo di un turco-tedesco e grazie ai suoi tic, alle sue pose e ai suoi monologhi fuoco-e-fiamme, che scatenano grande ilarità nel pubblico, diventa una star della tv e del web. Su YouTube i post dei suoi video, in cui racconta barzellette politically-incorrect (proprio come faceva in privato, nella realtà storica), vengono cliccati da milioni di persone.
Si ride, ma a denti stretti, in quanto nella finzione del romanzo, dopo il trionfo come comico e show-man, Hitler torna alla politica. E la sua ricetta populista, da “eroe” dell’antipolitica (nel suo programma s’impegna, tra le altre cose, a combattere le cacche di cane e l’eccesso di velocità), fa breccia nel cuore dei tedeschi, tra chi è deluso dai partiti, chi ignora la storia e chi fatica a sopravvivere a causa della crisi economica.
La satira su Hitler non è una novità assoluta. Il primo a mettere alla berlina il Führer fu il grande comico ebreo Charlie Chaplin nell’irriverente film Il grande dittatore, uscito nel 1940. «Ridere fa bene, ridere degli aspetti più sinistri della vita e persino della morte», affermò Chaplin.
Tuttavia allora il mondo non conosceva l’orrore della Shoah e dei campi di sterminio. Ecco perché, nonostante la vena ironica dello script, il record di vendite del romanzo di Vermes, che ha superato in classifica gente del calibro di Ken Follet e Paulo Coelho, ha suscitato un acceso dibattito in Germania.
Operazione nostalgia? Il quarantaseienne Timur Vermes nega decisamente. Il suo intento, ha dichiarato alla stampa tedesca, è al contrario quello di spiegare che anche nel mondo di oggi esiste il pericolo di un novello Adolf Hitler, in versione 2.0, che sfrutti in chiave elettorale un mix esplosivo di comicità, internet e populismo.
Secondo il quotidiano Süddeutsche Zeitung, invece, il successo del romanzo Er Ist Wieder si spiega con la «strana ossessione per Hitler» che si è sviluppata negli ultimi tempi in Germania: «Hitler appare regolarmente sulle copertine delle riviste; invade i canali televisivi con una frequenza che ci impedisce di fare zapping senza vederlo alzare il braccio; e nelle riunioni familiari non manca mai una parodia del “Führrerrr” con due dita sotto il naso, garanzia di ilarità. Questa fissazione per Hitler – sulla figura comica o sull’uomo come incarnazione del male – rischia di far passare in secondo piano i fatti storici». Per dirla in altri termini, è come se, consciamente o inconsciamente, parlando in modo eccessivo di Hitler, si volessero oscurare le responsabilità del popolo tedesco, scaricandole tutte sul dittatore.
E a Berlino già si guarda con preoccupazione all’appuntamento del 2015, anno in cui scadranno i diritti di proprietà sul Mein Kampf del Land della Baviera e l’opera di Hitler (la cui diffusione e vendita è vietata dal dopoguerra in Germania) potrà essere pubblicata liberamente. Per evitare un uso improprio e rigurgiti del nazismo, la Baviera ha già incaricato uno storico affermato, Christian Hartmann, consulente del film La caduta, che raccontava gli ultimi giorni del Führer, di predisporre un'edizione critica commentata, mettendo in rilievo le manipolazioni e le menzogne di quel testo. Sarà sufficiente?

(Il Mattino, 19 febbraio 2013)

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Storie – La Rosa Bianca che si oppose ad Hitler

di Mario Avagliano

Spesso dimentichiamo che anche in Germania ci fu chi si oppose ad Hitler, al nazismo e alla persecuzione degli ebrei. Settant’anni fa, il 22 febbraio 1943, tre esponenti del movimento di resistenza della Rosa Bianca, (Sophie e Hans Scholl e Christoph Probst) furono processati e giustiziati dai nazisti. Il 10 marzo Rai Storia trasmetterà lo sceneggiato di Alberto Negrin (il regista della fiction su Giorgio Perlasca) sulla storia di quei giovani studenti tedeschi di ispirazione cristiana che tentarono di opporsi al regime hitleriano. Uno sceneggiato prodotto nel 1971 e scritto da Dante Guradamagna e Aldo Falivena consultando direttamente i diari allora inediti di Hans e Sophie Scholl e che vede tra i protagonisti un giovane Gabriele Lavia.

Ecco un brano del loro secondo volantino di denuncia:
«Non vogliamo scrivere, in questo foglio, della questione ebraica, né pronunciare discorsi in difesa. No, solo come esempio vogliamo ricordare brevemente il dato di fatto che, dalla occupazione della Polonia, trecentomila ebrei sono stati assassinati in quel Paese nel più bestiale dei modi. Qui noi vediamo il più orrendo delitto contro la dignità umana, un delitto che non ha confronti in tutta la storia dell'umanità. Anche gli ebrei sono uomini, qualunque sia la posizione che si vuole assumere sulla questione ebraica; e tutto questo è stato perpetrato contro degli uomini. […]
Perché il popolo tedesco è così inerte dinanzi a questi crimini, tanto orrendi e disumani? Quasi nessuno ci riflette. Il fatto viene accettato come tale e consegnato ad acta. E di nuovo il popolo tedesco cade nel suo ottuso e stupido sonno e dà a questi criminali fascisti il coraggio e l'occasione per continuare ad uccidere, ed essi lo fanno. È questo il segno che i tedeschi sono abbrutiti nei loro più intimi sentimenti umani? Che nessuna corda vibra in essi di fronte a simili azioni? Che sono ormai affondati in un sonno mortale dal quale nessun risveglio sarà più possibile, mai, giammai? Sembra così e così certamente è se i tedeschi non usciranno finalmente da questo torpore, se non protesteranno, dovunque e ogni volta che potranno, contro questa cricca di criminali, se non parteciperanno al dolore di queste centinaia di migliaia di vittime. E dovranno provare non solo compassione per questo dolore, no, ma molto di più: corresponsabilità.
Infatti, anche solo con il loro inerte atteggiamento essi danno a questi uomini oscuri la possibilità di agire così; essi sopportano questo "governo" che ha assunto su di sé una colpa infinita, certo, ma, soprattutto, essi stessi sono responsabili del fatto che tale governo ha potuto avere origine! Ogni uomo vuole dirsi estraneo a questo tipo di corresponsabilità, ognuno lo fa e poi ricade nel sonno con la coscienza più serena e migliore. Ma egli non potrà dirsi estraneo: ciascuno è colpevole, colpevole, colpevole!»
Credo che sia giusto ricordarli.

(L'Unione Informa, 26 febbraio 2013)

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Album di famiglia con nazi-genitori

di Mario Avagliano

Che cosa hanno in comune il fine intellettuale Günter Grass, premio Nobel della letteratura, e l’ispettore di polizia Derrick, alias Horst Tappert, l’attore che lo ha interpretato nelle celebre serie tv andata in onda dal 1974 al 1998? Entrambi avevano un passato nazista. E anche l’alter ego dell’ispettore, al pari di Grass, a venti anni fece parte delle SS, come ha riportato qualche giorno fa il Frankfurter Allgemeine Zeitung.

La notizia non deve aver sorpreso più di tanto i tedeschi, giunta com’è a cavallo dell’inaspettato successo della fiction Unsere Mütter, unsere Väter, ovvero Le nostre madri, i nostri padri, trasmessa sullo Zdf, il secondo canale tv tedesco, che secondo il settimanale Der Spiegel, grazie ad una martellante pubblicità, è già stata vista da più di 20 milioni di telespettatori.
Tre puntate dirette dal giovane regista Philipp Kadelbach, per un totale di 270 minuti, che hanno scosso il pubblico e provocato i commenti di critici cinematografici e di storici, provando a raccontare il passato scomodo e la complicità ai crimini del nazismo da parte dei tanti mamma e papà dei tedeschi di oggi. Sulla scia della serie tv, il popolare giornale berlinese Bz ha pubblicato tre pagine di confessioni di cento cittadini della capitale sotto il titolo “Cosa hai fatto tu”, illustrato da un elmetto con la svastica nazista.
Nel dopoguerra il processo di Norimberga condannò a morte i capi del nazismo, attribuendo le responsabilità essenzialmente ad Adolf Hitler e ai gerarchi del partito e delle SS. E così a lungo la storiografia tedesca ha ignorato le colpe della popolazione e perfino della Wehrmacht, l'esercito.
La correzione di rotta degli storici, che nell’ultimo ventennio hanno approfondito con studi, convegni e mostre il rapporto morboso che legò i tedeschi al nazismo, ora approda anche in tv. Il successo di pubblico della serie televisiva è nell’aver saputo confezionare, con i cliché di una normale fiction, un prodotto che mischia eventi storici reali e vicende private romanzate, narrando gli eccidi di civili compiuti dalla Wehrmacht sul fronte orientale e la complicità dei normali cittadini allo sterminio degli ebrei.
La fiction segue le vicende di cinque giovani berlinesi, tre ragazzi e due ragazze, che si trovano di fronte alle barbarie dei loro connazionali nazisti. Il messaggio di fondo è che le colpe non riguardarono solo i governanti di allora. I cattivi non furono sempre dei mostri riconoscibili, ma in moltissimi casi erano cittadini comuni, come aveva già scritto Hanna Arendt nel suo libro La banalità del male. Così nel film la bella e seducente infermiera, che all’apparenza sembra simpatica e dolce, non esita a denunciare la sua dottoressa perché ebrea, causandone la deportazione ad Auschwitz.
La serie televisiva ha anche provocato una polemica internazionale. I partigiani polacchi, infatti, vi vengono infatti dipinti come antisemiti, permettendo ad esempio che un treno proceda verso i campi di concentramento, nonostante intuiscano la presenza di ebrei sui vagoni. Alcune associazioni polacche hanno rivolto un appello al ministro degli Esteri Radoslaw Sikorski, chiedendo di adottare misure decise contro la diffusione di questa "serie televisiva diffamatoria". E il settimanale Uwazam Rze, in segno di protesta, ha sbattuto in copertina un fotomontaggio irriverente della cancelliera Angela Merkel vestita col pigiama a righe dei deportati nei lager e con il filo spinato sullo sfondo, titolando: "Falsificazione della storia: come i tedeschi si sono resi vittime della seconda guerra mondiale”.
Le polemiche hanno indotto l'ambasciatore polacco in Germania, Jerzy Marganski, a scrivere una lettera alla Zdf in cui spiega che "l'immagine della Polonia e della resistenza polacca agli occupanti tedeschi, così come raccontata dalla serie, è stata percepita dai cittadini polacchi come ingiusta e offensiva" e lamentando l’omissione di qualsiasi riferimento alla rivolta di Varsavia del 1944, in cui duecentomila civili polacchi persero la vita, di cui molti prestarono aiuto agli ebrei.
In Italia, Einaudi propone proprio ora il libro dello storico tedesco Götz Aly Perché i tedeschi? Perché gli ebrei? (pp. 284, euro 32), in cui tira in ballo il passato nazista di suo padre Ernst e dei suoi nonni e zii, spiegando attraverso le proprie vicende familiari come i tedeschi hanno sostenuto fino all’ultimo Hitler ed erano partecipi della Shoah. Da parte sua il settimanale inglese The Economist, in un articolo intitolato “Bentornati al Terzo Reich”, si interroga sullo strano fenomeno della ricomparsa sulla tv tedesca di veterani della seconda guerra mondiale che, dopo il successo di Le nostre madri, i nostri padri, sono invitati sempre più spesso nei talk show per raccontare il loro disagio e come fossero stati “costretti” a uccidere ebrei.

(Il Mattino, 3 maggio 2013)

Storie – Umberto Saba e il sogno di Hitler

di Mario Avagliano

"A quelli che credono ancora che Adolfo Hitler… abbia almeno amata la Germania, racconto qui qual è stato veramente il suo Sogno. Ridurre la Germania un mucchio di macerie; e, fra nuvole di gas asfissianti, rimproverando ai tedeschi di averlo – per colpa degli ebrei – tradito, salire EGLI al cielo, in una specie di apoteosi, circondato dal fiore delle più giovani e fedeli S.S. Questo sogno egli lo ha sognato così profondamente … che si può dire che egli abbia vinta – almeno in parte – la SUA guerra”. Così scriveva Umberto Saba in Scorciatoie e Raccontini, pubblicato nel 1946.

Non molti sanno che il grande poeta triestino fu uno dei primi intellettuali europei ad interrogarsi sul nazismo e la Shoah. Impagabile il ritratto di Hitler “eseguito nel 1933” e proposto in questa stessa opera: “Con quei baffetti sotto il naso, e quella smorfia facciale, come fiutasse sempre… un cattivo odore”.
“Accanto alla metafisica post-Auschwitz di Primo Levi - come ha osservato acutamente Ettore Janulardo, in un saggio apparso sulla rivista Studi e ricerche di storia contemporanea - si situa la prosa lirica post-Majdaneck di Umberto Saba”.
Majdaneck era un piccolo campo di concentramento tedesco, sito a Lublino, in Polonia: il primo scoperto dagli Alleati. Il 22 luglio 1944 vi giunsero le prime pattuglie russe, trovandovi qualche migliaio di sopravvissuti. Mauthausen, Dachau, Buchenwald, Auschwitz erano allora sconosciuti. Costituito nel 1941, vi transitarono circa 300 mila deportati, di cui il 40 per cento ebrei di varie nazionalità. Campo di concentramento e di sterminio, fu un sito di morte con ogni mezzo: gas, armi da fuoco, impiccagioni. Vi morirono circa 80 mila persone.
Majdaneck è per Saba il simbolo della vicenda concentrazionaria, l’inizio della conoscenza da parte dell’umanità degli orrori del nazismo (quello che è ora Auschwitz). Egli in Scorciatoie e Raccontini si confronta con l’annullamento della persona al tempo dei lager: “Dopo Napoleone ogni uomo è un po’ di più, per il solo fatto che Napoleone è esistito. Dopo Majdaneck…”
Quanto alla vicenda italiana, Saba è più indulgente del suo amico Giacomo Debenedetti, come ha rilevato di recente Alberto Cavaglion sulla rivista storiAmestre. Il poeta triestino scrive che “Gli ebrei italiani non potevano fare all’Italia (in quanto ebrei) né bene né male. Mediterranei come la maggioranza, viventi in Italia da secoli o da millenni; c’è – con qualche eccezione – meno diversità fra un italiano ebreo e un italiano non ebreo, che non, p. es., fra un bresciano e un calabrese”.
A differenza di Debenedetti, Saba sostiene che in Italia non vi era stato bisogno di difendersi dall’antisemitismo: “non c’è mai stato in Italia – tolti gli anni dell’agonia del fascismo – un bisogno di difendersi da queste cose”. Una visione generosa dei fatti. Pesa in questo, probabilmente, la sua esperienza personale di discriminato, grazie al risolutivo intervento dello stesso Benito Mussolini. Per questo motivo, il giudizio sul duce, pur restando negativo, è più conciliante: per Saba infatti Mussolini non fu antisemita o sanguinario ma “carcerario”.
Si tratta di testi scritti, come Saba stesso annota, “sotto l’impressione, estremamente piacevole, della dissoluzione di un incubo”. Ma lo stesso poeta triestino avverte: “Dieci anni ancora di fascismo, nazismo, razzismo e si regrediva tutti (vero alla lettera) al cannibalismo”.

(L'Unione Informa e portale moked.it, 21 maggio 2013)

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Storie – Germania 1945: sconfitta o liberata?

di Mario Avagliano

Il settantesimo anniversario del crollo del Terzo Reich, caduto l’8 e il 9 maggio scorso, ripropone un interrogativo storico sul giudizio del popolo tedesco su quel momento: si sentirono sconfitti o liberati?
A riflettere su questo tema, è stato Gerhard Hirschfeld, professore allo Historisches Institut dell’Università di Stoccarda, uno dei massimi storici tedeschi contemporanei, in una lezione tenuta al Festival “È storia” a Gorizia qualche giorno fa.
Secondo Hirschfeld , nella Germania del 1945 inizialmente per la maggioranza dei tedeschi la fine del Terzo Reich non fu vissuta come una liberazione ma come una tragica sconfitta. “Anche molte persone per bene, uomini e donne, considerarono la fine del regime di Hitler una catastrofe, una rovina”, ha affermato lo storico.
Simili furono i sentimenti di milioni di soldati tedeschi. Come testimoniano molti appunti e diari dell’epoca, “non pochi cittadini si sentirono prigionieri di un’atmosfera da fine del mondo. Altri si abbandonarono all’autocommiserazione ed al pianto”.
Non per tutti fu così. Diversa fu la reazione degli oppositori e delle vittime del nazismo, per i quali il tramonto della dittatura rappresentò l’agognata liberazione: i perseguitati, gli esiliati, i prigionieri politici e ovviamente i sopravvissuti dei lager, ebrei e non ebrei, nonché i milioni di stranieri prigionieri di guerra o costretti al lavoro coatto in Germania.
Ma i tedeschi oppositori del nazismo “erano solo una minoranza”, osserva Hirschfeld. La maggior parte dei tedeschi aveva condiviso la strategia di superiorità della Germania perseguita da Hitler, con una “fede quasi religiosa” nella sua onnipotenza. Avrebbero impiegato molto tempo per capire che quella sconfitta era in realtà una liberazione e conteneva in sé “il germoglio della speranza in un futuro migliore”, come disse in un celebre discorso del 1985 il presidente della Repubblica Federale Richard von Weizsäcker.

(L'Unione Informa e Moked.it, 26 maggio 2015)

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Lo strano patto tra Stalin, Hitler e Mussolini

di Mario Avagliano

Nell’agosto del 1939, quando fu siglato iI Trattato Molotov-Ribbentrop tra Terzo Reich e Urss, i giornali britannici pubblicarono irriverenti vignette che raffiguravano Adolf Hitler e Josif Stalin che si salutavano sul cadavere della Polonia, dandosi della “feccia della terra” e del “sanguinario oppressore dei lavoratori”, oppure si scambiavano una stretta di mano con la sinistra, mentre con la destra, dietro la schiena, impugnavano una pistola. Quando il 22 giugno 1941 le colonne corazzate tedesche irruppero in territorio sovietico, sembrò che il sarcasmo inglese avesse colto nel segno. E per oltre cinquant’anni una consolidata tradizione storiografica ha ribadito che quel trattato fu un accordo provvisorio attraverso il quale il Cremlino guadagnò il tempo sufficiente per prepararsi a sconfiggere il Moloch nazista. È andata proprio così? Un documentato saggio di Eugenio Di Rienzo e Emilio Gin, intitolato Le Potenze dell’Asse e l’Unione Sovietica. 1939-1945 (Rubbettino, pp. 514, € 17), avanza una tesi alternativa. Unione Sovietica e Germania, mentre si combattevano epicamente, sbandierando due visioni ideologiche opposte del mondo, trattavano sottobanco per formare una “Coalizione planetaria” destinata a comprendere anche Italia e Giappone e a distruggere il predominio mondiale anglo-sassone.
I due storici, facendo ricorso alle corrispondenze diplomatiche giapponesi, ai documenti di guerra dei National Archives di Washington, ai verbali del War Cabinet britannico, e spulciando i diari dei diplomatici italiani Luca Pietromarchi e Attilio Tamaro, ricostruiscono il lavorio dietro le quinte dell’Urss e delle forze dell’Asse, compresa l’Italia, teso a creare un blocco euroasiatico centrato sull'alleanza fra il nazionalsocialismo e il bolscevismo contro il nemico comune: la società capitalistico-borghese e l’odiato Occidente. L’idea accarezzata da Hitler, Stalin e Mussolini era quella di un’intesa politica invulnerabile sul piano militare, in grado di avere ragione della Gran Bretagna, con tutti i suoi Dominions, e degli Stati Uniti, con i Paesi dell’America Latina. D’altronde la Russia e il Reich, come aveva comunicato Ribbentrop a Molotov già nell’agosto del 1939, riportando testualmente una dichiarazione di Hitler, dovevano prepararsi per tempo a porre le basi di «una difesa emisferica contro l’aggressione americana che si sarebbe sicuramente materializzata tra 1970 e 1980».
Fu la polveriera balcanica a provocare la dissoluzione del blocco nazi-bolscevico e in particolare la disponibilità di Mosca a siglare il Trattato di amicizia e non aggressione con Belgrado, nell’aprile del 1941, alla quale Berlino rispose con l’immediata invasione della Jugoslavia. Nonostante la guerra, i rapporti sotterranei e clandestini tra Urss e forze dell’Asse proseguirono, soprattutto grazie alla mediazione del Giappone che aveva firmato, il 13 aprile 1941, un trattato di non aggressione con la Russia. Anche Palazzo Venezia e Palazzo Chigi svolsero un ruolo incisivo, dinamico e tutt’altro che marginale, iniziato subito dopo la fortunata contro-offensiva russa dell’inverno del 1941, per arrivare ad una pace di compromesso tra il colosso comunista e l’Europa sottomessa al Nuovo Ordine nazista.
Dopo aver assunto l’interim degli Esteri, il Duce scriverà tra il marzo e aprile 1943 due lunghe lettere a Hitler per spingerlo a «chiudere il capitolo russo». E sul tema tornerà ancora nei colloqui di Klessheim (7-10 aprile 1943), poi in quelli di Feltre (19 luglio), e, infine, nel mattino del 25 luglio, poco prima di essere arrestato, incontrandosi con l’ambasciatore giapponese a Roma. Mussolini insisteva sulla necessità di stipulare una tregua d’armi con Stalin e sapeva che, nonostante le apparenze, Hitler non era del tutto sordo alle sue richieste e che importanti gerarchi nazisti (Göring e Goebbels) erano favorevoli ad accettare quella soluzione. E il Cremlino non si sottraeva a quelle suggestioni. Insomma, il libro di Di Rienzo e Gin ci rivela che la «Grande Alleanza» antinazista era meno solida di quanto comunemente si creda (esattamente come non lo era l’Asse Roma-Berlino-Tokio) e che Stalin, sull’altare della realpolitik, prese in considerazione l’ipotesi di mollare Gran Bretagna e Usa al loro destino. Tutti questi sforzi fallirono. La “pace di Mussolini” non ebbe luogo e per fortuna non nacque l’Euroasia nazista-fascista-bolscevica immaginata dai leader dell’epoca. Il vecchio continente era però destinato ancora a soffrire e a dividersi. La fine del secondo conflitto mondiale portò alla “pace di Stalin” che, sui campi di battaglia e al tavolo della diplomazia, riuscì nel disegno di restituire alla Russia la statura imperiale dell’età zarista, provocando la lunga «guerra fredda», destinata a terminare solo nel novembre del 1989.

Storie - L'Eredità su RaiUno e i Mostri della Memoria

di Mario Avagliano

Frequentando le scuole da anni per i miei tour della Memoria, la paradossale scena di qualche giorno fa nel corso della trasmissione “L’Eredità” su Rai Uno, condotta da Carlo Conti, in cui tutti i giovani concorrenti non hanno saputo indicare la data di nomina a cancelliere di Adolf Hitler (1933), scegliendo ciascuno le altre improbabilissime opzioni (1948, 1964, 1979), non mi ha sorpreso più di tanto. Proprio un paio di settimane fa, in una scuola del Lazio, in un’aula magna colma di studenti, ho provato a chiedere la data della marcia su Roma delle camicie nere di Mussolini (1922), dando per scontato che qualcuno la conoscesse, e invece in sala è calato un imbarazzante silenzio.
Carlo Conti ha commentato in diretta: “Sono senza parole. Io farei un ripassino di storia”, e il video dell’Eredità, giustamente, ha fatto il giro dei social network, ricevendo circa 800 mila click su Youtube e suscitando indignazione in molti. Ma indignarsi non basta. L’ignoranza genera mostri della Memoria, come le affermazioni dell’esponente dei Forconi sui banchieri ebrei che egemonizzerebbero il nostro Paese. E’ evidente quindi che la scuola, gli storici, i giornalisti, le associazioni e anche le istituzioni abbiano molto lavoro da fare. Lo stesso Giorno della Memoria va ripensato, in modo meno rituale e stanco, rendendolo più vivo, partecipato, informato. E utilizzando meglio lo strumento libro e l’approfondimento e l’analisi storica. Un segnale positivo lo ha dato il governo varando una norma che, se sarà confermata, come è il mio auspicio, consentirà di detrarre fiscalmente per il 19% l’acquisto di libri nel corso dell’anno per una spesa massima di 2mila euro. Una delle armi che ci resta, è la lettura. Citando Woody Allen: “Leggo per legittima difesa”.

(L'Unione Informa e Moked.it del 17 dicembre 2013)

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