Storie – Piero Terracina, foto di una vita

di Mario Avagliano

Uno dei Testimoni più straordinari della Shoah italiana è il romano Piero Terracina. Fino al 7 marzo 2014 è in corso al Goethe-Institut di Roma una mostra a lui dedicata, con foto del tedesco Georg Pöhlein e una audio-documentario intitolato “Perché Piero Terracina ha rotto il suo silenzio” a cura di Andrea Pomplun e dello stesso Georg Pöhlein.

Piero Terracina, classe 1928, subì, come tutti gli ebrei italiani, l’infamia delle leggi razziste. Il 15 novembre del 1938, quando entrò in classe e si diresse verso il suo banco, si sentì addosso gli occhi di tutti i suoi compagni. L'insegnante lo bloccò e gli disse: "Esci, che tu non puoi stare qui". Dopo l’armistizio, Piero Terracina sfuggì alla retata del 16 ottobre 1943. Arrestato il 7 aprile 1944, fu deportato, assieme agli otto componenti della sua famiglia, ad Auschwitz, da dove solo lui tornò vivo. Terracina, come altri deportati, si chiuse in un lungo silenzio ed iniziò a parlare della sua vicenda solo a partire dal 1992. 

I ritratti del fotografo tedesco Georg Pöhlein ci raccontano il personaggio Piero Terracina, con la sua passione e la sua umanità. L'audio documentario di Andrea Pomplun è invece dedicato alla storia della cattura, della deportazione e della morte della famiglia di Piero Terracina ad Auschwitz. La mostra è arricchita da altre testimonianze: le lettere dei ragazzi delle scuole in cui Terracina è stato ospite, i ricordi di Walter Veltroni, di Riccardo Di Segni e le riflessioni di chi ha curato la mostra e collaborato con Terracina. 

(L'Unione Informa e Moked.it del 18 febbraio 2014)

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Storie – Far conoscere Auschwitz

di Mario Avagliano

Nel primo dopoguerra Auschwitz non era ancora assurta a simbolo della Shoah italiana (ed europea) ed era quasi del tutto sconosciuta agli occhi dell’opinione pubblica. Tutt’al più era un nome tra i tanti della galassia concentrazionaria nazista. Uno dei primi in Italia a condurre ricerche per far conoscere cosa fosse accaduto agli ebrei nel cuore dell’Europa durante la seconda guerra mondiale e che fine avevano fatto gli ebrei deportati dal nostro Paese, fu Massimo Adolfo Vitale, un personaggio che meriterebbe maggiore notorietà a livello nazionale e che, fra l’altro, fu tra i fondatori del Cdec a Milano. Vitale, dopo ventotto anni vissuti in Africa come funzionario governativo del Ministero delle Colonie italiane e poi dell’Africa italiana e il licenziamento nel 1939 in seguito alle leggi razziali, nel maggio 1945 era stato nominato presidente del Comitato Ricerche dei Deportati Ebrei di Roma. In questa veste condusse un’instancabile attività di ricerca, oggetto dell’interessante libro di Costantino Di Sante, Auschwitz prima di Auschwitz. Massimo Adolfo Vitale e le prime ricerche sulla shoah italiana (ombre corte, 190 pp.).

 Il saggio è arricchito da vari preziosi documenti, tra cui spicca quello redatto dallo stesso Vitale sulla storia del campo di Auschwitz, uno dei primi in assoluto. Egli, dopo aver assistito a Varsavia, tra il marzo e l'aprile del 1947, al processo al comandante del campo Rudolf Höss, come osservatore italiano per conto dell'Unione delle Comunità Israelitiche Italiane e del Ministero di Grazia e Giustizia, stilò un dettagliato resoconto del suo viaggio in Polonia. La relazione di Vitale, la ricerca di notizie sui deportati italiani, la raccolta delle testimonianze dei sopravvissuti (pubblicate nel libro di Di Sante), tra cui anche quella di Primo Levi, e le battaglie che condurrà contro l'antisemitismo rappresentano ancora oggi un esempio e un antidoto contro il negazionismo, perché, come egli non si stancava di ripetere, "bisogna non dimenticare". Una battaglia per la verità storica condotta sempre in modo rigoroso, sulla base di prove e documenti. Nella convinzione che, come scriverà Georges Bensoussan in L’eredità di Auschwitz, “la nostra arma non è la memoria, che costruisce, demolisce, dimentica o edulcora, ma solo la Storia”. 

(L'Unione Informa e Moked.it del 25 febbraio 2014)

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Storie – La festa dei Giudei a San Fratello

di Mario Avagliano

L’antigiudaismo ha profonde radici nella cultura occidentale. Lo testimoniano, fra l’altro, feste popolari che si celebrano tuttora in Italia, come la “Festa dei Giudei”, che ogni anno anima il bel borgo di San Fratello, in provincia di Messina.

In quel borgo, in occasione della Pasqua cristiana, si tiene un corteo nel quale i giovani del paese indossano sgargianti costumi, di colore giallo e rosso, ricamati di perline, impersonando “i giudei che percossero e condussero Gesù al Calvario”. Così vestiti, con urla e suoni di tromba, essi cercano di irridere e disturbare il dolore dei cattolici per la passione di Cristo.

 I figuranti “giudei” hanno un cappuccio in testa, come quello che la Santa Inquisizione obbligava ad indossare a gruppi di ebrei durante le rappresentazioni della settimana santa per ridicolizzarli e identificarli come simboli del male e del demonio. Il rito nasce probabilmente nel Medioevo, nel Trecento, quando in varie città spagnole, soprattutto quelle dove erano presenti le più importanti comunità ebraiche, come Barcellona, Girona e Valencia, a seguito delle celebrazioni del venerdì santo si verificavano atti di violenza, ai limiti del linciaggio, nei confronti degli ebrei, considerati responsabili della morte di Gesù. I cosiddetti “disordini pasquali” erano frequenti anche in città italiane, con saccheggi, danneggiamenti e sassaiole contro gli ebrei e i loro beni. Appena un secolo dopo, nel marzo del 1492, i sovrani di Spagna, Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, emanarono due editti per l’espulsione degli ebrei rispettivamente dalla Spagna e dalla Sicilia. A San Fratello anche quest’anno, tra il 16 e il 18 aprile, si ripeterà quel corteo. A chi in passato ha protestato contro la festa, è stato risposto che si tratta soltanto di una tradizione popolare. Sarà. Ma puzza di antiche persecuzioni. E non mi piace. 

(L'Unione Informa e Moked.it del 1° aprile 2014)

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Storie - I Paggi di Pitigliano

di Mario Avagliano

Una famiglia, i Paggi. Una città, Pitigliano (e la vicina Sorano). Un ramo della diaspora ebraica, i Sefarditi. La storia è fatta di microstorie, di frammenti di memoria, di vicende di persone. Un frammento familiare che racconta molte cose della vita degli ebrei italiani a cavallo tra il Cinquecento e il Novecento è la preziosa ricostruzione delle vicende dei Paggi realizzata, con spirito da cronista e con passione civile, da Vera Paggi nel libro “Il vicolo degli Azzimi. Dal ghetto di Pitigliano al miracolo economico” (Panozzo editore).

Le origini del cognome Paggi sono abbastanza misteriose. Qualcuno sostiene che i Paggi fossero ebrei originari della Spagna, da dove fuggirono verso la fine del 1400 per salvarsi dalle persecuzioni. E dalla Spagna sarebbero sbarcati in Toscana, per poi trovare rifugio e protezione a Pitigliano. Un’altra fonte, invece, sostiene che i Paggi ebrei fossero in Italia da molto tempo prima delle persecuzioni spagnole, e il cognome deriverebbe dalla posizione che occupavano alla corte dei Papi da dove furono costretti - come molti altri ebrei dell'Italia Centrale, ad esempio i Servi - a fuggire dopo la metà del XVI secolo, anche qui incalzati dalle persecuzioni. A Pitigliano sarebbero stati accolti dagli Orsini. Ma Vera Paggi indica un’altra fonte interessante, il libro I cognomi Sardi di origine ebraica, da cui risulterebbero Paci, Paxi e il sefardita Pache e Pace come traduzione italiana di Shalom.

Colpisce come già nel Cinquecento gli ebrei a Pitigliano, dopo la buona accoglienza riservata loro dagli Orsini, sotto i Medici fossero non solo costretti a costruire a proprie spese il ghetto nel quale vennero rinchiusi (delimitato su un lato dal vicolo degli Azzimi, che dà il titolo al libro e ora si chiama vicolo Marghera), ma avessero l’obbligo di indossare un segno di riconoscimento (l’anteprima della stella gialla): un cappello rosso per gli uomini e una manica dello stesso colore per le donne.

A Pitigliano la prima emancipazione degli ebrei è datata alla fine del Settecento, grazie al governo illuminato del granduca lorenese Pietro Leopoldo. All’epoca le famiglie più note di mercanti e bottegai ebrei sono Ajò, Della Pergola, Paggi, Sadun, Servi, Spizzichino, che gestiscono il rifornimento di prodotti industriali, anche lungo le strade del contrabbando dallo Stato pontificio, e lo smercio dei prodotti agricoli e zootecnici locali.

Il racconto di Vera Paggi segue vari personaggi della saga familiare. Uno dei più simpatici è Salomone, classe 1848, alto quasi due metri, che aveva fama di essere l’uomo più bello della Maremma e che mangiava frittate anche di quaranta uova. Come molti Paggi, anche lui era appassionato di gioco e di scommesse e pare che fosse un grande giocatore di Ruota. Il giuoco della Ruota consisteva nel far rotolare grandi forme di formaggio per i vicoli di Pitigliano. Scommettitore, nella sua ultima puntata avrebbe mangiato 18 uova e bevuto 18 bicchieri di vino uno dietro l’altro. Uno stile di vita godereccio - testimoniato da numeri quasi da cabala in perfetto pregiudizio antiebraico - che gli costò caro perché rimase 18 anni paralizzato, e quindi morì. Era il 29 aprile 1915.

Nella galleria sfilano altri personaggi: Gastone Paggi, che verrà ucciso con il suocero nella strage nazista di Civitella della Chiana il 29 giugno 1944; il socialista Filiberto, fondatore del partito a Scansano e perseguitato dai fascisti; il professore universitario Bruno, nel 1923 il più giovane medico d’Italia. Imprenditori, professionisti, mercanti.

Fino alle leggi razziste del 1938, che cambia il corso delle loro vite. Il professor Bruno Paggi viene cacciato dall’università di Pisa ed è costretto ad emigrare all’estero (come altri membri della famiglia), Oliviero Paggi non può continuare la sua carriera nell’esercito come sognava.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, la figura che emerge nella famiglia è quella di Claudio, diciottenne antifascista, che già all’indomani della caduta di Mussolini, il 25 luglio del 1943, abbatte il busto del Duce al calzificio Passigli, la fabbrica dove lavorava come operaio. A metà settembre decide di tentare la fuga verso Sud oltre le linee, nell’Italia liberata dallo sbarco degli Alleati e raggiunge Bari, dove cerca di arruolarsi nell’esercito alleato. Rifiutato, a Carbonara incontra un altro ebreo di Firenze, partito dalla Garfagnana, e animato dallo stesso desiderio di impegnarsi nella Resistenza: Franco Luzzatto. Il campo di Carbonara è anche un centro di arruolamento della resistenza jugoslava. Il 20 ottobre del 1943 vengono formate due brigate, una in sostegno di Re Pietro, l’altra, la Prima Brigata Oltremare, a sostegno della Resistenza jugoslava in appoggio a Tito. Entrambe otterranno il beneplacito delle autorità inglesi, che forniranno ai giovani arruolati le divise e l’appoggio logistico per l’addestramento. I giovani andranno a combattere in Jugoslavia contro i tedeschi. A Claudio non resta che l’arruolamento nella Prima Brigata Oltremare, ma è una decisione sofferta, che segue dopo molte esitazioni. I volontari che aderiscono alla Prima Brigata Oltremare sono tanti. Fra questi, ci sono numerosi ebrei slavi, alcuni che provenivano dal più grande campo di concentramento italiano il Ferramonti di Tarsia a Cosenza, in Calabria. In tutto sono ventidue ebrei. Per questo viene deciso di costituire in seno alla Brigata, un Plotone Speciale Ebraico. Claudio morirà in Bosnia nel febbraio 1944.

Gli altri membri della famiglia vivono esistenze in bilico, separate: storie di fughe in Svizzera, di clandestinità, di paura, fino al momento della liberazione, al difficile dopoguerra, al reintegro in una Nazione che li aveva considerati cittadini di serie B e li aveva perseguitati. Una famiglia spezzata dal fascismo e dalla guerra, raccontata attraverso le lettere, i documenti, i diari e i ricordi che una generazione ha tenuto per quasi mezzo secolo protetti in un cassetto.

(L'Unione Informa e Moked.it dell'8 aprile 2014)

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Storie - I volontari ebrei combattenti nella guerra civile spagnola e la compagnia Botwin

di Mario Avagliano

Pochi conoscono il contributo degli ebrei alla Guerra di Spagna del 1936-1938. Nelle Brigate Internazionali, che contarono un totale di 35-40 mila volontari, gli ebrei furono 7.760 (388 italiani, tra i quali Carlo Rosselli, Leo Valiani, Sergio Ali, Aldo Jacchia), più di ogni altro contingente nazionale, ad eccezione dei francesi, che erano 8.500 (di cui però 1.043 ebrei).

Proprio nel corso di quel conflitto si costituì, nel 1937, il primo nucleo organizzato di soli combattenti ebraici della storia del Novecento, la compagnia “Botwin” (forse anche sulla base di quel modello, qualche anno più tardi si sarebbe formata la Brigata ebraica, che si fece onore nella campagna d’Italia del 1944-1945).

A ricostruire la storia è un prezioso volumetto di Gianfranco Moscati e Gustavo Ottolenghi, “I volontari ebrei combattenti nella guerra civile spagnola e la compagnia Botwin”, che propone in appendice immagini e documenti inediti della Collezione Gianfranco Moscati, conservati presso l’Imperial War Museum di Londra.

L’idea di una compagnia ebraica venne al polacco Albert Nahumi Weiz che, nel maggio 1937, ad Albacete, riuscì a radunare 15 volontari ebrei provenienti da altre formazioni, ispirandosi per l’organizzazione al gruppo fondato da Max Friedemann a Madrid nel 1935, composto solo da ebrei, costituito in difesa dell’ordinamento repubblicano spagnola minacciato dalla componente fascista alle Cortes e intitolato ad Ernst Thaelmann, primo segretario del partito comunista tedesco, ucciso dai nazisti a Monaco nel 1933.

Nel dicembre del 1937 i volontari ebrei erano saliti a 80, della più diversa nazionalità, e per iniziativa dello stesso Nahumi e di Gershom Dua-Bogen, Janek Barwinski e Stakh Matuszaczack, si costituì a Tardienta la “Compagna ebraica combattente”, che fu ufficialmente aggregata alla 2ªCompagnia del Battaglione Palafox della 13ª Brigata polacca Dombrowski, che faceva parte delle Brigate Internazionali.

La compagnia fu intitolata a Naftali Botwin, giovane polacco di 18 anni, membro di un sindacato comunista, impiccato nell’agosto 1925 a Varsavia e raccolse volontari ebrei polacchi, spagnoli, belgi, greci, tedeschi e un italiano (Elias Bendith Cohen), sino a raggiungere un organico massimo di 152 uomini, di cui solo la metà scampò alla fine della guerra. Tutti i suoi sette comandanti, tranne l’ultimo, morirono in combattimento contro i franchisti, tra il gennaio e il settembre 1938.

Ottolenghi ci ricorda che la compagnia partecipò ad alcune delle battaglie più importanti della guerra civile spagnola. Tra le imprese più importanti, si possono citare la distruzione del ponte sul Guadalquivir (che poi avrebbe ispirato Ernst Hemingway per il protagonista del romanzo “Per chi suona la campana”), l’occupazione di Cordoba, il deragliamento del treno di Los Rosales, la liberazione di prigionieri a Motril e la cattura di un intero stato maggiore franchista a Tremp. I fotografi ebrei Robert Capa e Gera Taro (caduta a Gualajara) ritrassero numerose azioni della compagnia per i loro reportage di guerra.

Gli ebrei che morirono in guerra in Spagna nelle Brigate Internazionali furono 265, di cui 86 italiani e 66 della compagnia “Botwin”. Atri 43 ebrei italiani parteciparono al conflitto militando nelle divisioni italo-spagnole di Mussolini e di Franco e di essi 7 caddero in combattimento.

Un cippo a ricordo dei combattenti della “Botwin” caduti sul campo si trova oggi in un parco di Barcellona e fu inaugurato nel 1990 alla presenza dell’allora presidente di Israele Chiam Herzog.

 (L'Unione Informa e Moked.it del 29 aprile 2014)

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Storie – Commediografo senza nome

di Mario Avagliano

Due segnalazioni interessanti. Oggi 6 maggio, alle ore 17.30, presso la sala conferenze dell'Istituto piemontese per la storia della Resistenza, sarà presentato il libro di Luca Fenoglio Angelo Donati e la "questione ebraica" nella Francia occupata dall'esercito italiano (Zamorani). Il saggio ricostruisce la vicenda di Angelo Donati, ebreo, fante in trincea durante la prima guerra mondiale, poi cofondatore del fascio di Parigi, che nei dieci mesi dell’occupazione italiana della Francia meridionale si adoperò per salvare molti suoi correligionari dalla deportazione.

Ieri invece, alla Casa della Memoria e della Storia di Roma, si è tenuta una giornata in ricordo di Aldo De Benedetti, scrittore, commediografo e sceneggiatore tradotto e messo-in-scena anche all'estero, attivo sin dagli anni Trenta. Dopo l’approvazione delle leggi razziali, fu costretto a firmare i suoi lavori con lo pseudonimo di Benedetto Laddei. Sono stati letti brani dei suoi testi ed è stato proiettato il film Due lettere anonime di Mario Camerini, datato 1945 e interpretato da Clara Calamai e Andrea Checchi (vincitore del Nastro d'Argento 1946 come miglior attore protagonista), sceneggiato da Aldo De Benedetti senza che il suo nome potesse comparire sulle locandine. Anche questo accadeva in Italia sotto il fascismo.

(L'Unione Informa e Moked.it del 6 maggio 2014)

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Storie – Noemi Cingoli, dal liceo artistico “Via di Ripetta” ad Auschwitz

di Mario Avagliano

Ci sono tante storie di deportati ancora sconosciute ai più, che escono dal “cono d’ombra” della Shoah solo grazie al meritevole sforzo di qualche ricercatore o di qualche persona dotata di buona volontà e di passione civile. Una di queste storie è quella della romana Noemi Cingoli, ex studentessa del Liceo artistico “Via di Ripetta”, la cui vicenda umana è stata ricostruita da Costanzo Di Giovanni, docente di matematica e fisica in quello stesso istituto, con l’intento di “restituire dignità a coloro che non tornarono”.

Da ragazza Noemi ha copiato i gessi dei Dioscuri che giganteggiano nell'aula magna del Liceo artistico e il 23 maggio scorso la sua figura è stata ricordata proprio lì, con un appassionato intervento di Piero Terracina, che nel maggio del 1944 viaggiò nello stesso treno di Noemi diretto ad Auschwitz, e con l’inaugurazione di una stele commemorativa. Per inciso, va ricordato che in questo istituto, nel 2008, un professore negazionista aveva urlato che la Shoah non esiste.

Nata il 25 settembre 1913, ultima dei quattro figli di Alfredo Cingoli, negoziante di tessuti originario di Ascoli Piceno, e di Clelia Ravà, la bella Noemi all’epoca della deportazione era sposata con il torinese Mario Segre, epigrafista e archeologo di fama internazionale, espulso dall’università in seguito alle leggi razziste del 1938, che per sopravvivere dava lezioni private e curava la compilazione di alcune voci dell’Enciclopedia minore diretta da Giovanni Gentile, firmandole con il nome dell’amica archeologa Luisa Banti.

Dopo la caduta del fascismo, tra gli ebrei c’è chi spera in un’alba nuova. Ma non la suocera di Noemi, Ida Luzzatti, che il 4 settembre 1943 scrive profetica: «Calmato l’entusiasmo di quei primi giorni dopo il 25 luglio, contiamo le delusioni che l’hanno seguito, ed i pericoli gravissimi dai quali siamo continuamente minacciati. E, se anche il nuovo Governo ha provveduto e sta provvedendo perché Roma possa essere riconosciuta città aperta, noi siamo tutt’altro che tranquilli. Mario nostro si mantiene ottimista, ma credo che sia una mosca bianca. Io non me la sono mai vista così la situazione». E infatti Ida e la figlia Elena il 16 ottobre finiranno nelle mani dei nazisti: Ida morirà di stenti in treno durante la deportazione, Elena sarà gasata ad Auschwitz.

Scampati alla retata, Noemi, il marito Mario e il figlioletto Marco trovano ospitalità presso l’Istituto Svedese di Studi Classici in Via Omero, nella zona di Valle Giulia. Grazie all’extraterritorialità i tre si sentono al sicuro. Ma, come si legge nella ricostruzione di Di Giovanni, in primavera cadono in un’imboscata della polizia fascista. La mattina del 5 aprile 1944, in seguito ad una delazione, sono fermati da due agenti mentre si trovano all’esterno dell’Istituto assieme a Filippo Magi, assistente per l’Archeologia classica alla Direzione Generale dei Musei Vaticani.

Vengono arrestati e rinchiusi nel carcere di Regina Coeli a disposizione delle autorità tedesche. Due giorni dopo sarà arrestato sempre a Roma, in circostanze analoghe, un ragazzo di 16 anni, Piero Terracina, e portato nel carcere assieme a tutta la famiglia.

 Del caso dei Segre si interessa anche la Segreteria di Stato vaticana, nella persona di Giovanni Battista Montini (il futuro Papa Paolo VI) che il 15 aprile interviene presso l’Ambasciatore di Germania Ernst von Weizsacker nel vano tentativo di salvare gli arrestati dalla deportazione e dalla morte: “Si implora dalle autorità germaniche il rilascio dell’intera famiglia Segre".

Dopo alcune tappe intermedie la famigliola è trasferita nel campo di Fossoli, dove resterà però solo poco tempo. Il 16 maggio 1944 l’appello annuncia la partenza e, scortati dalle SS, i deportati sono avviati alla stazione di Carpi. Terracina ricorderà: “Ci caricarono nei vagoni, eravamo stipati tanto che difficilmente ci si poteva sdraiare. Alla sera il treno cominciò a muoversi e si fermò in quasi tutte le stazioni. Viaggiammo tutta la notte e la mattina seguente, la sete divenne un serio problema perché l’acqua era finita. Il pianto dei bambini, le mamme disperate non sapevano più cosa fare. L’indifferenza dei civili alle stazioni, alla vista dei vagoni merci ed ai pianti dei bambini, non può certo essere dimenticata. Tutti sapevano”.

Nel pomeriggio del 22 maggio il trasporto arriva ad Auschwitz. La mattina del 23 maggio 1944, il convoglio ferroviario entra a Birkenau attraverso la nuova linea ferroviaria. Senza neanche il tempo di salutarsi, Mario raggiunge la fila di sinistra, Noemi e il piccolo Marco quella di destra. Non si rivedranno più. Dei 582 ebrei scesi dal convoglio (tra i quali un bambino nato durante il trasporto), 186 uomini e 70 donne sono selezionati per il lavoro. Gli altri 326, tra i quali Noemi Cingoli (30 anni), Mario (39 anni) e Marco Segre (2 anni), saranno avviati verso le camere a gas. Moriranno la sera stessa.

Frida Misul, ebrea livornese sopravvissuta ad Auschwitz, in una lettera a Umberto Segre, riporta le ultime parole di suo fratello Mario: «Coraggio domani c’incontreremo di nuovo».

 (L'Unione Informa e Moked.it del 27 maggio 2014)

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Storie - Sarfatti in tedesco

di Mario Avagliano

E’ dalla scorsa settimana in libreria in Germania il saggio "Gli ebrei nell'Italia fascista" di Michele Sarfatti (Einaudi), finalmente disponibile oltre che in traduzione inglese ("The Jews in Mussolini's Italy") anche in lingua tedesca. Il titolo è "Die Juden im Faschistischen Italien. Geschichte,Identität, Verfolgung", De Gruyter,Berlin 2014, con la traduzione di Thomas Vormbaum e Loredana Melissari.

Un bel riconoscimento per lo storico italiano che più di ogni altro ha scandagliato le vicende della persecuzione degli ebrei nel nostro Paese. E un modo per far conoscere meglio anche in Germania le leggi razziste del 1938 e la persecuzione delle vite successiva all‘8 settembre 1943.

(L'Unione Informa e Moked.it del 10 giugno 2014)

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