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Le "ragioni" dei vinti. La recensione di Avvenire

di Angelo Picariello

La storia dei vinti raccontata da loro stessi, "dal basso", dalle memorie minime dei protagonisti, al momento di arruolarsi, o alla fine di tutto, coi plotoni di esecuzione già schierati. L’Italia di Salò di Mario Avagliano e Marco Palmieri ripercorre le vicende del biennio che divise l’Italia in due, sul piano ideologico e territoriale: dal Gran Consiglio del 24 luglio 1943 che portò alla rimozione, da parte del re, di Benito Mussolini e al suo arresto, fino al 25 aprile 1945, giorno della Liberazione. Passando per l’armistizio firmato a Cassibile il 3 settembre, ma annunciato la sera dell’8; il blitz tedesco che portò alla liberazione di Mussolini sul Gran Sasso, l’annuncio della nascita della Repubblica Sociale da Radio Monaco, il 18 settembre.

Un vuoto storiografico già colmato dal racconto in chiave "reducistica" di Giorgio Pisanò, dalle ricerche di Renzo De Felice e Aurelio Lepre, dalla narrativa storica di Giorgio Bocca e Gianpaolo Pansa, dai saggi a quattro mani di Indro Montanelli e Mario Cervi. Ma questo nuovo, prolifico, binomio Avagliano-Palmieri si addentra soprattutto nella documentazione privata, nei racconti di vita vissuta sempre necessari a completare il delinearsi di un quadro storico, ma particolarmente determinanti nel definire gli eventi di un regime istituzionale provvisorio che, per forza di cose, ha lasciato poche fonti ufficiali cui poter attingere.

Vicende umane da inserire «nella temperie di una guerra totale che, in nome di contrapposte visioni ideologiche, vide scontrarsi eserciti regolari, formazioni altamente politicizzate, movimenti resistenziali, gruppi etnici, fedi religiose e non risparmiò la popolazione civile». Sullo sfondo le alterne vicende della guerra, ma anche le nuove motivazioni che fornì, appena prima del tracollo definitivo, il celebre discorso di Mussolini al teatro lirico di Milano il 16 dicembre 1944. Nomi famosi finirono dalla parte sbagliata, facendo la scelta che parve loro più coerente, come disse ad esempio l’attore Raimondo Vianello spiegando la sua, o anche solo più conveniente, come affermò candidamente Dario Fo, motivandola semplicemente con l’obiettivo di "portare a casa la pelle". Giornalisti come Enrico Ameri o Livio Zanetti, attori come Walter Chiari, Carlo Dapporto, Giorgio Albertazzi (che si definirà «non fascista» e spiegherà la sua adesione con l’idea di «orgoglio nazionale ») o Enrico Maria Salerno. Divertente il racconto di quest’ultimo che, ricorrendo ai suoi virtuosismi di guitto, tenterà di sfuggire all’arresto fingendosi matto e riempiendo di ingiurie la commissione che lo interrogava.

Tanti giovani si arruolarono convinti che il no alla monarchia asservita alle convenienze dei ceti borghesi traditori fosse la scelta giusta. «È con le lacrime agli occhi – scrive da Bologna ai suoi un giovane entrato nei bersaglieri – ma col cuore fermo che vi comunico la mia decisione. Voi mi avete educato nel culto della nostra cara Patria e mi avete insegnato ad amarla. Roma stessa è in pericolo, perciò tocca a noi giovani indomiti difenderla».

Anche la Chiesa fu attraversata da divisioni, a seguito di una precisa strategia perseguita dal fascismo repubblichino, che fin dall’assemblea di Verona del novembre 1943 si propose di «avvicinare cordialmente i sacerdoti», per «indurli a esprimersi pubblicamente con le parole e con la stampa» in favore della Rsi. Sacerdoti risposero positivamente, come don Vittorio Genta che all’inizio del 1944 invia una circolare ai parroci della diocesi di Asti affinché si attivino nel portare sulla «buona strada renitenti e disertori». E che non fu solo una storia di diverse convenienze lo dimostra il racconto minuzioso, in gran parte inedito, delle tante adesioni nelle regioni dal Sud. Sud già liberato dagli Alleati, dove il re aveva cercato riparo e dove il fascismo era da tempo un lontano ricordo.

(Avvenire, 26 maggio 2017 - pag. 13)

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