Mario Avagliano

Mario Avagliano

Adriana Montezemolo: mio padre eroe dimenticato della Resistenza

di Dino Messina

 
“L’ultima volta che vidi mio padre era il Capodanno del 1944. I baroni Scammacca del Murgo, coraggiosi amici, correndo gravi rischi, ci avevano ospitati al nostro rientro a Roma e avevano organizzato quell’attesa riunione familiare”.
Adriana Cordero Lanza di Montezemolo, ultimogenita del colonnello Giuseppe Montezemolo, il capo del Fronte militare clandestino, ricorda con tratti veloci e precisi la figura del padre, medaglia d’oro, eroe della Resistenza, massacrato alle Fosse Ardeatine nel pomeriggio del 24 marzo 1944, assieme agli altri 334 prigionieri politici, ebrei, detenuti comuni che erano stati prelevati dalla prigione nazista di via Tasso e da Regina.
Nella casa che da molti anni condivide con Benedetto Della Chiesa, nipote di Papa Benedetto XV, in una tenuta agricola che corre proprio lungo la via Ardeatina, Adriana di Montezemolo custodisce memorie importanti, avendo ereditato dalla madre Juccia (Amalia), scomparsa nel 1983, la missione di ricordare quel padre importante, figura centrale della Resistenza, che tuttavia per oltre mezzo secolo è stato tenuto fuori dalla storiografia ufficiale. “Abbiamo avuto infinite manifestazioni di affetto private e ufficiali, culminate in una medaglia d’oro, ma è vero per molto tempo del ruolo di mio padre s’è parlato molto poco. Forse perché noi siamo una famiglia di militari, abituati ai fatti. Certo, mi fece grande piacere leggere nel 2003, sul ‘Corriere della sera’, un articolo di Paolo Mieli in cui diceva che era il momento di far entrare il colonnello Montezemolo nei libri di storia. Meno di dieci anni dopo è arrivata la biografia di Mario Avagliano, ‘Il partigiano Montezemolo’ (Dalai editore) che colmava una lacuna”.
Adriana Montezemolo parla veloce, talvolta si interrompe e si alza per mostrare un cimelio importante, i biglietti del padre dalla prigione di via Tasso, la lettera di ringraziamento del generale Harold Alexander, comandante degli eserciti alleati in Italia, alla mamma Juccia per l’opera insostituibile svolta dal capo delle Forze militari clandestine a Roma, la foto che ritraeva la famiglia per l’ultima estate spensierata a Forte dei Marmi: ci sono il primogenito Manfredi, classe 1924, che aiutò il padre nella lotta clandestina, il secondogenito Andrea, oggi cardinale, che lavorò con il medico Attilio Ascarelli dopo la liberazione di Roma a ricomporre i resti delle vittime delle Fosse Ardeatine, infine, assieme ad Adriana, le sorelle Lidia e Isolda.
Adriana nel dopoguerra si è laureata in fisica con Edoardo Amaldi, ma assieme al marito Benedetto, da cui ha avuto cinque figli, si è sempre occupata di agricoltura, organizzando una tenuta agricola in Kenia e poi dal 1960 seguendo le attività nelle campagne romane e del Viterbese. Le memorie della famiglia si intrecciano a quelle pubbliche. “Ci eravamo trasferiti a Roma da Torino nel 1940, quando mio padre era stato nominato colonnello, il più giovane con quel grado. Diceva che nell’esercito contano gli ufficiali con la c (caporale, come lui era stato nella prima guerra mondiale, capitano e colonnello) perché i più vicini alla truppa. Il papà era una persona affettuosa, ma come usava una volta riservata e severa. Aveva un’autorità eccezionale, tutti glielo riconoscevano, era un capo nato. Dopo la laurea in ingegneria e una breve parentesi di lavoro come civile a Genova, era rientrato nell’esercito dove aveva bruciato le tappe: volontario nella Guerra di Spagna, aveva poi compiuto almeno 16 missioni in Africa settentrionale dove era stato decorato con una medaglia d’argento”.
Fedele ai Savoia, il 19 luglio 1943 aveva accompagnato Mussolini all’incontro di Feltre con Hitler, dove il capo del fascismo non ebbe il coraggio di sostenere con il Fuehrer le ragioni di una pace separata. Fu allora che venne decisa la sorte del Duce e il colonnello Montezemolo ebbe una parte nel suo arresto. Consigliere militare di Badoglio, decise di restare a Roma dopo l’8 settembre per organizzare la difesa militare, quando la corte e tutte le alte cariche dell’esercito e del governo prendevano la via di Pescara. “La funzione di mio padre era di collegamento tra il governo legittimo del Sud e la Resistenza romana. Si era fatto paracadutare alcune radio ricetrasmittenti e comunicava agli Alleati gli spostamenti delle truppe tedesche e tutte le informazioni utili che riusciva ad ottenere”.
Per questo Herbert Kappler, il comandate delle SS di Roma, che poi lo avrebbe interrogato e torturato in via Tasso, lo considerava il nemico pubblico numero uno.
“Passammo quell’estate del 1943 in una tenuta di alcuni amici a Perugia. Mio fratello Manfredi che frequentava il collegio militare a Lucca ci raggiunse a piedi, Andrea invece era con noi. Dopo l’8 settembre nostro padre ci diede l’ordine di non muoverci, la situazione era molto pericolosa, ma non riuscimmo a trattenere Manfredi che andò a Roma in bicicletta e si unì all’organizzazione clandestina con documenti falsi. Nostro padre teneva le fila non soltanto delle forze militari clandestine ma coordinava i gruppi della Resistenza che si andavano formando. ‘Mai avrei pensato – diceva – io monarchico di collaborare e avere buoni rapporti con il comunista Giorgio Amendola”.
Giorgio Amendola, che diede l’ordine dell’attentato al battaglione SS Bozen in via Rasella, da cui scaturì la rappresaglia nazista delle Fosse Ardeatine. “Mio padre credeva alle forze armate clandestine spettasse l’azione di intelligence e il controllo in città. Alla Resistenza civile, che fu aiutata dal Fronte militare clandestino anche con il rifornimento di armi, erano riservate azioni di sabotaggio in campagna. Mio padre era molto preoccupato dalle rappresaglie e finché rimase in libertà riuscì a tenere il controllo della situazione. Dopo il suo arresto, il 25 gennaio 1944, dapprima i protagonisti della Resistenza si dileguarono nel timore che parlasse. Ma quando si accorsero che il colonnello Montezemolo riuscì a resistere alle torture, cominciarono le azioni dei Gap”.
Adriana Montezemolo era rimasta a Perugia con la mamma e le sorelle sino a fine dicembre 1943: “Il 27 dicembre venne a prenderci in macchina un maresciallo dei carabinieri di cui mio padre si fidava. Prima andammo un paio di giorni dai baroni Scammacca, quindi cominciammo a frequentare le scuole al collegio di Trinità dei Monti, dove anche mia madre viveva in una stanza del pensionato, mentre mio fratello Andrea era nel collegio ucraino. Mio padre e mia madre si incontravano il mercoledì in casa Scammacca verso le 14,30, poi di solito uscivano per una passeggiata a Villa Borghese cercando di non dare nell’occhio. All’ultimo incontro, credo il 19 gennaio, tre giorni prima dello sbarco di Anzio, mio padre disse alla mamma che se gli americani non arrivavano a Roma lui sarebbe stato preso. Si sentiva braccato, aveva cinque polizie alle calcagna. La settimana successiva la mamma arrivò prima all’appuntamento, ma attese inutilmente. Arrivò invece mio fratello Manfredi con la notizia che il papà il 25 era stato arrestato”.
Chi era stato a parlare, a fare la delazione, a rivelare che sotto i baffi a manubrio del “professor Giuseppe Martini” si nascondeva il capo della Resistenza militare clandestina? “Ci sono state varie voci, potrei dire dei nomi, ma la verità non si saprà mai. Speravamo che il papà non fosse finito nelle mani delle SS. Una persona terribile, che dava informazioni cercando di carpire denaro, ci disse che lo aveva visto a Regina Coeli, tranquillo che giocava a carte. Strano, pensammo, il papà non gioca a carte”.
Era invece nelle mani di Kappler nella prigione di via Tasso, dove venne torturato per giorni. Nelle stesse stanze, oggi diventate museo, sono esposti gli abiti del prigioniero Montezemolo: una camicia con le cifre, un maglione inglese di marca Wolsey, la giacca e i pantaloni sdruciti.
“Una cugina si era offerta di portare un po’ di biancheria. Dalla prigione di via Tasso filtrarono tre biglietti di mio padre, poi il silenzio. Fino al 25 marzo, quando una donna mostrò a mia madre una pagina del ‘Messaggero’ con la notizia che alle Fosse Ardeatine erano stati giustiziati comunisti e badogliani… Vivemmo nell’angoscia e nella speranza anche dopo aver ricevuto la comunicazione tedesca che potevamo andare a ritirare in via Tasso gli effetti personali di nostro padre. Magari, qualcuno ci confortava, l’anno portato al Nord. Speravamo che l’intervento del Vaticano che avevamo sollecitato avesse avuto qualche effetto. Avemmo la certezza che il colonnello Montezemolo era morto nel peggiore dei modi alle fosse Ardeatine quando la mamma riconobbe alcuni effetti personali, tra cui la fede nuziale, raccolti alle Mantellate, nel luglio 1944, dopo la liberazione di Roma”.
Da allora è cominciata la meticolosa ricostruzione dei fatti, gli incontri che con la memoria rinnovavano il dolore. “In anni recenti, durante un dibattito a via Tasso mi è venuta incontro una signora, era Carla Capponi (la compagna di Rosario Bentivegna che partecipò all’attentato di via Rasella, ndr), mi raccontò che durante la Resistenza aveva incontrato mio padre che le aveva consegnato delle armi. Io la salutati, ma in maniera fredda. Forse ho sbagliato”.
L’ultimo ricordo di quella stagione terribile riguarda il capitato Eric Priebke, il collaboratore di Kappler e interprete delle SS che partecipò al massacro delle Ardeatine. “Arrestarlo in anni recenti – dice Adriana sorprendendoci – è stato un errore. Non l’ho conosciuto ma ho avuto con lui una corrispondenza epistolare attraverso il suo avvocato Paolo Giachini. Gli chiesi se avesse conosciuto mio padre. Mi rispose che non l’aveva mai incontrato. Strano, per uno che faceva l’interprete in via Tasso. Ma perché non dovrei credergli?”.
 
(Il Corriere della Sera,  23 marzo 2015)
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Vincere e vinceremo! - La recensione del Sole 24 Ore Domenica

LA BIBLIOTECA 

 

di Giorgio Dell'Arti 

 

Soldati di stanza in Africa 

 

Assalto. «Caro Mario, con ogni probabilità domani mattina all'alba si va all'assalto; se la va bene sarà una magnifica esperienza di vita, se la va male farò la morte più bella che un italiano di vent'anni oggi possa fare» (lettera al fratello del lombardo Cesare Tosi, caduto a vent'anni in Albania, il 20 gennaio 1941).

Lettere. Durante il primo anno di guerra, 9.285.000 lettere. 

Censura. Gli uomini impiegati a controllare la corrispondenza esaminavano mediamente 150-200 lettere al giorno. 

Tipologie. Le lettere potevano essere bollate come "ammesse in corso", "ammesse in corso dopo censura parziale", da "sequestrare", da "incriminare". 

Cretino. Scrive il capitano Luigi Guerrieri Gonzaga dell'artiglieria a cavallo il 21 febbraio 1942: «Mi secca molto che un cretino di censore abbia sporcacciato tutta una mia lettera per te; deve essere un gran fesso quel tale e gli farebbe bene un po' di Russia vorrei ritrovarlo quando rientreremo in Patria. lo sono sicuro di quanto scrivo; non metto mai nulla che possa anche lontanamente servire di indicazione o comunque essere "pericoloso"».

Familiari. I soldati, soliti rassicurare i propri familiari attraverso formule ricorrenti: «Sto bene», oppure «Non pensate a me» spesso accompagnate da invocazioni di tipo religioso. 

Mussolini. Dal 1941, «Mussolini non lo sa» o «se la sapesse Mussolini».

Negroidi. I «maledetti» inglesi, gli americani «negroidi» e «dediti al vizio», i russi «senza Dio», gli arabi «sporchi e rozzi». 

Inglesi. Gli inglesi, «i maledetti figli di Albione», «vigliacchi e farabutti», «soldati dai cinque pasti e dalla pancia troppo piena», «audaci fresconi che l'illusione ha voluto per un po' vittoriosi».

Tedeschi. Da una relazione del Comando generale dei Carabinieri del maggio 1941: «Negli ambienti militari la soddisfazione per i nostri successi viene sensibilmente temperata dalla considerazione che molto si deve all'apporto dato dalla potente azione delle forze tedesche».

Rapporto. Dalla lettera alla famiglia di un militare temano di stanza in Africa, datata 24 febbraio 1942, che di fronte alla richiesta di redigere un rapporto sul morale delle truppe, dopo aver lamentato che il partito chiede il pagamento della tessera anche ai militari richiamati e inviati al fronte, così si sfoga: «Vengano un po' a domandare ai nostri soldati ed avranno una risposta più che esauriente. È naturale che il rapporto non potrà che dire le solite cose; ma vengano pure tra i soldati e sentiranno. Posta che non arriva, pacchi che sono in giro da mesi e di cui non si ha notizia; se qualcuno ne arriva è ridotto al solo involucro; giornali che vengono distribuiti una volta al mese; un pasto al giorno, cotto al mattino alle io e mangiato alle 2 del pomeriggio. Tutto questo potrebbero rispondere i nostri soldati se venissero interrogati; ma siccome non lo saranno mai, tutto questo rimane sconosciuto e si parlerà soltanto dello spirito di sacrificio e del morale altissimo del soldato italiano». 

Guerra. «Inutile andare in giro raccontando che la guerra fu voluta dal solo Mussolini e non dall'Italia. Certo il popolo italiano non volle la guerra, se si intende tutto il popolo. Ma i generali, gli ammiragli, i grossi industriali, gli alti burocrati, i senatori, i deputati, i professori d'università, i vescovi, gli arcivescovi, i cardinali, tutto quel lerciume accettò la guerra, e parecchi altri la vollero finché credettero che l'avrebbero vinta dato lo sfacelo militare che era già avvenuto in Francia e che si prevedeva imminente in Inghilterra [...] Bisogna, dunque, smetterla con questa balla che l'Italia non è responsabile» (Gaetano Salvemini, Lettera a E. Rossi e L. Valiani, io agosto 1946). 

 

Notizie tratte da: Mario Avagliano e Marco Palmieri, Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte 1940-1943, Il Mulino, Bologna, pagg. 376, euro  25,00.

 

(Il Sole 24 Ore, Domenica, 29 marzo 2015)

Come e perché Mussolini e le sue guerre ebbero tanta popolarità

Introduzione alla presentazione del libro “Vincere e Vinceremo” 

 

di Massimo Taborri

Circolo Culturale Montesacro, 11 aprile 2015

 

 - Prima di entrare nel merito della pagine del bel libro “Vincere e Vinceremo”, Gli italiani al fronte tra il ’40 e il ’43, ho pensato di aprire insolitamente questa mia introduzione con una breve notazione di carattere familiare che non mi pare stonata nel contesto delle cose di cui parleremo, perché se avessi saputo che Mario Avagliano e Marco Palmieri stavano lavorando ad un’opera così vasta e approfondita – come quella che presentiamo oggi – avrei volentieri messo a loro disposizione un piccolo archivio di famiglia, formato da 24 lettere scritte da un mio parente, uno zio che portava il mio stesso cognome Taborri, che ha concluso la sua esistenza in Russia durante la tragica ritirata dei primi mesi del ’43.

 

 - Un ragazzo di 20 anni, Otello, chiamato subito a combattere sulle Alpi Occidentali, sul confine francese, poi in Grecia e quindi in Russia con la Divisione Tridentina

 

 - Tra queste lettere ce n’è una spedita dal Moncenisio che porta la data del 20 giugno ’40. Sono dunque i giorni della guerra con la Francia, quelli della famosa pugnalata alla schiena (visto che – come è noto - l’esercito tedesco aveva già piegato l’Armata francese entrando il 14 giugno a Parigi), durante i quali l’esercito italiano arrivò a Mentone e in poche altre località delle prime valli francesi, appena al di là delle Alpi.

 

 - La guerra dichiarata da Mussolini il 10 giugno del ’40 che, sul fronte francese, impegnò i reparti italiani solo per 4 o 5 giorni, visto che le operazioni militari praticamente presero avvio intorno al 20 giugno e appena cinque giorni dopo fu firmato dalla Francia, a Parigi, l’armistizio con le potenze dell’Asse.- “Cara mamma, non allarmarti se siamo vicini alla Francia - scrivevo mio zio a 2.500 metri di quota – noi restiamo sempre indietro (Otello era un radiotelegrafista addetto al Comando di Divisione che, in effetti, restava un po’ indietro dalle prime linee, ma può anche darsi che scrivesse questo per non impensierire a casa, n.d.r.) e poi ormai si può dire che la Francia è finita, infatti da più notti non si sente nemmanco un colpo d’Artiglieria.” E aggiungeva: “ avrei però da chiederti un favore, dovresti mandarmi un paio di calze pesanti, possibilmente nere o grigie verdi, che qui ai piedi si sente molto freddo, addosso no perché ho il maglione militare ma ai piedi non ho che calze fine, se puoi mandarmele al più presto possibile mi farai un gran piacere”.

 

- Sul Moncenisio, anche nel mese di giugno, la temperatura soprattutto di notte scende vari gradi sotto lo zero. Dunque indossare un paio di calze di lana sarebbe stata una gran fortuna, ma quelle calze dovevano essere rigorosamente nere o grigio verdi perché, in caso contrario, non avrebbe potuto utilizzarle.

 

- La guerra con la Francia, come dicevo, durò pochi giorni eppure costò tra soldati e ufficiali oltre 600 morti, oltre 600 dispersi e più di 2.600 tra feriti e congelati: naturalmente congelati… ai piedi. Il dato è conosciuto da storici e studiosi ed è richiamato nel libro di M. A. e M. P., ma non è forse poi così noto al grande pubblico.

 

- Per entrare ora nel merito del libro mi pare che il suo significato sia ben raccolto e spiegato nell’epigrafe che è stata scelta dagli autori a presentazione dell’opera. Si tratta di una lettera di Gaetano Salvemini dell’agosto ’46 scritta dagli USA e indirizzata a Ernesto Rossi e Leo Valiani.

 

- Salvemini fu un socialista un po’ atipico, un antifascista costretto all’esilio in Francia, un accademico che negli anni ’30 se ne andò poi negli Usa, per insegnare ad Harward. Per tornare in Italia solo nel lontano ’49:  

- “Inutile andare in giro raccontando che la guerra fu voluta dal solo Mussolini e non dall’Italia. Certo il popolo italiano non volle la guerra se si intende tutto il popolo. Ma i generali, gli ammiragli, i grossi industriali, glia alti burocrati, i senatori, i deputati, i professori d’università, i vescovi, gli arcivescovi, i cardinali, tutto quel lerciume accettò la guerra, e parecchi altri la vollero finché cedettero che l’avrebbero vinta dato lo sfacelo militare che era già avvenuto in Francia e che si prevedeva imminente in Inghilterra (…). Anche se si parla delle classi medie e inferiori del popolo italiano, non bisogna dimenticare che una larga parte seguì Mussolini, e che fra esse Mussolini godé di una larga popolarità dopo la vittoria nella guerra in Etiopia ed al tempo dello squartamento cecoslovacco. E se le cose gli fossero andate bene nella guerra mondiale, Mussolini sarebbe per molta gente un grand’uomo. Questa è la verità (...). Bisogna, dunque, smetterla con questa balla che l’Italia non è responsabile”.

 

- E forse non è un caso che parole tanto esplicite siano state scritte da un uomo lontano dalle polemiche politiche che infiammarono gli anni del dopoguerra.

 

 - L’obiettivo del libro è dunque questo: capire come e perché Mussolini e le sue guerre ebbero tanta popolarità e di quali elementi ideologici, emotivi e psicologici, questo consenso si alimentava. Un obbiettivo importante visto che nella pubblicistica e nella letteratura del dopoguerra vi è stata – come si spiega nell’introduzione – una sostanziale rimozione delle responsabilità nazionali rispetto alle guerre italiane, quasi sempre definite guerre fasciste, con un evidente intento di autoassoluzione da parte di tutti coloro, la grande maggioranza, che avevano accolta la guerra con esultanza e convinzione, senza essere necessariamente ed entusiasticamente fascisti.

 

 - D’altra parte, come era in parte inevitabile, gli eventi successivi all’armistizio dell’8 settembre del ’43 e il riscatto rappresentato dall’epopea partigiana che da quella data cominciò a svilupparsi, hanno messo in ombra il grado di consenso popolare, lo slancio e l’entusiasmo con cui gli italiani, avevano, prima dell’8 settembre, preso parte alla mobilitazione e alla guerra.

 

 - Il libro si incarica, quindi, di affrontare questa zona un po’ opaca della storia del popolo italiano, nel modo più efficace ed incontrovertibile: e cioè esaminando le migliaia di lettere da e per il fronte, i diari scritti da ufficiali e soldati, le relazioni indirizzate alle varie autorità, Duce compreso, dalle commissioni militari di censura che passavano al vaglio tali lettere, tutta quella che potremmo definire la letteratura coeva e proprio per questo più autentica e rappresentativa dei sentimenti diffusi.

 

 - Ne emerge un mosaico piuttosto persuasivo della dimensione ampia e radicata delle motivazioni con cui con cui gli italiani guardarono alla guerra, sia da parte del cosiddetto fronte interno (le famiglie a casa) sia da parte del fronte esterno (coloro che combattevano in prima linea), con poche o nessuna differenza tra i vari quadri d’operazione: i Balcani e la Grecia, l’Africa e poi la Russia. Un consenso che - diversamente dai proclami mussoliniani sull’efficacia delle nostre armi – assunse, di fronte alla prime serie difficoltà operative, un andamento sinusoidale, sulla base dei successi o degli insuccessi della guerra, ma che iniziò seriamente a vacillare solo nei primi mesi del ’43, dopo Stalingrado e l’arretramento italiano in Tunisia, seguito alla sconfitta italo-tedesca di El Alamein.

 

- Un consenso alla guerra che nonfu però solamente frutto della propaganda del regime ormai ventennale, o della smisurata e fideistica ammirazione attribuita al suo capo, e neppure semplicemente frutto delle promesse imperiali del fascismo, che - come si sa - rivendicava all’Italia il diritto della nazione giovane ed emergente ad una diversa distribuzione delle risorse nel quadro internazionale, oltreché il suo naturale primato all’egemonia nei Balcani e nel Mediterraneo.

 

 - Perché si trattò di un consenso ideologico derivato anche da motivi più atavici, legato per es. alla tradizione cattolica del Paese, che alimentava o perlomeno giustificava la guerra in Russia come crociata antibolscevica ed antislava. Non erano pochi alpini e fanti che scrivevano ad es. direttamente a parroci e curati delle località da cui provenivano, e da questi ricevevano risposte di incoraggiamento a continuare nella loro azione anche in nome di Dio. Per non parlare della questione della persecuzione e della deportazione razziale nelle zone occupate dall’esercito italiano su cui di certo si soffermeranno gli autori. O anche del capitolo riguardante la repressione contro partigiani e popolazione civile messa in opera dall’esercito italiano in Grecia o in Jugoslavia.

 

 - Così come non mancò, nelle motivazioni che spinsero ufficiali e soldati ad operare in Russia, come in Africa o in Grecia – in condizioni davvero proibitive – il semplice amor di patria, la volontà di fare fino in fondo il proprio dovere, di dimostrare la propria coerenza, soprattutto dopo che si erano veduti via via morire centinaia di commilitoni, spesso amici con cui sui erano condivisi così tanti sacrifici. Proprio come era accaduto ai propri padri nella prima guerra mondiale, al cui esempio molti si richiamavano.

 

 - Tutto questo consenso – come sentiremo – comincerà a declinare solo nei primi mesi del ’43 e soprattutto con l’occupazione anglo americana della Sicilia del luglio ’43. Il fattore fondamentale che – come si sa - determinò la caduta di Mussolini. Un evento, questo della caduta del Duce, che vide le piazze di tutta Italia riempirsi di una gran folla esultante ed eccitata, quando il peggio doveva ancora venire. Un entusiasmo straripante che aveva le sue legittime motivazioni, ma che non convinceva del tutto un uomo come Nuto Revelli, appena tornato dalla drammatica ritirata dalla Russia, che assiste, convalescente, dalle finestre della propria casa di Cuneo a queste manifestazioni di gioia e crede di vedere in tale generale esultanza, i segni della solita tendenza endemica al trasformismo, tipica del popolo italiano, di una inclinazione al conformismo e al gattopardismo, di una eccessiva facilità all’emozione piuttosto che alla riflessione. Caratteristiche senza considerare le quali – a mio giudizio – non si spiegherebbero neppure diversi passaggi, apparentemente incongruenti, che hanno caratterizzato la storia del nostro Paese anche nei decenni successivi. E scrive Revelli annotando sul suo diario in quei giorni:

- “è caduto il fascismo, viva l’esercito, viva Badoglio, hanno gridato stanotte in Via Roma. Ho risposto con un urlo, come se mi avessero ferito: Che confusione! Odio con tutte le mie forze i tedeschi, disprezzo i fascisti, i gerarchi imboscati, corrotti, vigliacchi. Ma i morti, i nostri poveri morti di Russia, non mi danno pace. Morti per nulla, proprio come se la Patria non esistesse più. Si grida abbasso il fascismo, viva l’esercito. Ma quale esercito! Quello dei morti per nulla,quello dei vivi che non sanno più per che combbattere. Volevo scendere stanotte. Forse mi sarei fatto picchiare. E più avanti:”Vedo i cortei, sento i discorsi: voglio vedere e sentire tutto. Riconosco troppi fascisti di ieri. Più fascisti erano ieri più oggi sono antifascisti e si agitano, spaccano, urlano”.

 

 

 - Gli amici Mario Avagliano e Marco Palmieri lavorano insieme e con successo ormai da diversi anni. Giornalisti e storici entrambi hanno prodotto sempre col solito metodo del ricorso alla letteratura coeva, negli ultimi anni una serie di opere, a mio giudizio, preziose:

 - 1) Di pura razza italiana, un libro che rappresenta un documento sulle reazioni degli italiani di fronte alle leggi razziali. Una storia di indifferenza, complicità e opportunismo, accanto ad episodici casi di solidarietà. Un libro che sarà presto tradotto e pubblicato in Germania.

 - 2) Voci dal lager, un libro basato sulle lettere dei deportati politici dal lager (che abbiamo presentato con Marco Palmieri anche in questa sede).

 - 3) Gli internati militari italiani, la vicenda, prima scarsamente conosciuta, degli oltre 600 mila militari italiani chiusi nei lager nazisti, che si rifiutarono di collaborare col nazismo e la RSI.

 

La registrazione della presentazione

Storie - il mio ricordo di Elio Toaff

di Mario Avagliano
 
Sulla straordinaria figura di Elio Toaff, ex partigiano, rabbino, intellettuale, uomo del dialogo interreligioso, si è scritto, a giusta ragione, molto in queste ore. Voglio citare un episodio che ho riportato nel mio libro “Di pura razza italiana”, relativo al periodo successivo alle leggi razziste del 1938.
Nel suo libro di memorie (Perfidi giudei fratelli maggiori, Mondadori) Toaff ha raccontato che nell’anno accademico 1938-39 all’università di Pisa, alla quale era iscritto, si recò ben poco perché il «viaggio Livorno-Pisa e viceversa era diventato una specie di calvario per gli studenti di razza ebraica, esposti al dileggio e al disprezzo – qualche volta anche alla violenza – degli studenti fascisti».
In una successiva intervista del 2006, Toaff ha ricordato che una volta, durante il viaggio di andata, «alcuni giovani fascisti mi avevano fermato, mi avevano fatto distendere in uno scompartimento, mi avevano spogliato e avevano scritto delle frasi ingiuriose sulla mia pancia».
Al ritorno a casa, su consiglio del professore di diritto commerciale Lorenzo Mossa (l’unico che in quel clima aveva avuto il coraggio di assegnargli la tesi), Toaff scattò una fotografia di quelle frasi, a futura memoria. Una fotografia che, rivelò nell’intervista, conservava tuttora. 
Forse è ancora lì tra le sue carte. A testimoniare l’Italia razzista del 1938 e il coraggio di un ragazzo ebreo che non si piegò mai alla violenza.
 
(L'Unione Informa e Moked.it del 21 aprile 2015)
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