L'amore ai tempi della falce e martello. La storia di Nilde Iotti e Palmiro Togliatti nel carteggio inedito

di Mario Avagliano

Estate 1946. Dal color seppia di una rara foto d’epoca si affaccia sorridente la ventiseienne Nilde Iotti, appena eletta deputato dell’Assemblea costituente, seduta su un divano, in mezzo a un gruppo di donne parlamentari dall’aria leggera e festosa. Solo da un anno la legge italiana ha riconosciuto il suffragio femminile e loro sono le prime a entrare come «onorevoli» nell’aula austera di Montecitorio. All’altra estremità del divano, una signora di mezz’età stringe con grazia fra le mani una singolare piccola borsa fiorata. È Rita Montagnana, la mitica «Marisa», moglie di Palmiro Togliatti, segretario del Pci. Quelle due deputate comuniste, così diverse di aspetto e di età, di lì a poco diventeranno rivali. Per la giovane professoressa reggiana, figlia di un ferroviere socialista, laureatasi alla Cattolica e formatasi alla scuola di Dossetti e La Pira, la simpatia travolgente per Togliatti, di 27 anni più vecchio di lei, si trasformerà ben presto in una relazione «gioiosa e terribile». Per «Marisa», invece, la compagna del Migliore nel periodo dell’antifascismo clandestino, si prefigura una storia di abbandono sofferto e penoso, anche per quel loro figlio, Aldo, tormentato da un insopprimibile mal di vivere.
Sono alcune della pagine più belle dell’intrigante libro di Luisa Lama, intitolato Nilde Iotti. Una storia politica al femminile (Donzelli pp. 288, € 30), che - come afferma Livia Turco in una densa introduzione - ci regala la prima vera biografia della ex presidente della Camera, dall’esordio in politica fino al 1979, anno dell’elezione allo scranno più alto di Montecitorio. Una ricostruzione arricchita dalla pubblicazioni di stralci dello straordinario carteggio inedito tra la Iotti e Togliatti (agosto 1946-agosto 1947), ritrovato dalla loro figlia adottiva Marisa Malagoli in un cofanetto di legno intarsiato.
Un incontro segnato dal destino. Luisa Lama racconta quanto fu determinante nella scelta di campo della giovane Nilde, fervente cattolica, in bilico nel suo riformismo tra la Dc, i socialisti e il Pci, l’ascolto nel 1944, attraverso Radio Londra, della «voce gracchiante di Ercoli» (lo pseudonimo di Togliatti) che annunciava la svolta di Salerno. Dopo la collaborazione alla Resistenza, l’esperienza nell’Udi e l’elezione come indipendente nelle liste del Pci a Reggio Emilia, per la Iotti arriva la candidatura alla Costituente.
È quell’estate, il 30 luglio del 1946, che la tormentata relazione tra i due ha inizio. "Galeotta" è una timida, impacciata carezza di Palmiro alla chioma di Nilde mentre scendono lo scalone di Montecitorio, a cui seguono dotte conversazioni sui poemi cavallereschi dell’Ariosto e del Boiardo, qualche incontro clandestino e quindi l’innamoramento. Togliatti avverte una «vertigine davanti a un abisso», Nilde sente «sgomento per questo immenso mistero d’amore che mi dà le vertigini».
La brillante carriera della Iotti prende avvio in quella stagione. Designata dal partito nella Commissione dei 75 alla Costituente (unica donna, insieme a Teresa Noce), affronta in modo combattivo e innovativo il tema della famiglia, ponendo fin dall’inizio la questione della parità tra i sessi al suo interno e nell’educazione dei figli. Paradossalmente la relazione con il “capo” rischia di danneggiarla più che di favorirla. Dirigenti autorevoli come Pietro Secchia accusano il segretario di essere «condizionato» da Nilde e mettono in dubbio con il Cremlino l’affidabilità politica della professoressa reggiana, dati i trascorsi all’Università Cattolica.
Nonostante gli sgarbi di amici e nemici, le allusioni velenose di certa stampa, la consapevolezza di andare controcorrente (all’epoca essere «concubini» costituiva un reato penale), Nilde e Palmiro non rinunciano al loro amore, come testimonia il carteggio. «Mi sento di lottare con le unghie e con i denti per difendere un sentimento che è mio e solo mio», scrive la Iotti. E difende a spada tratta anche il suo impegno politico, vincendo la pressione dei compagni di partito a Reggio, che vorrebbero farla ritirare a vita privata. Nella corrispondenza fra i due, colpisce la passione che anima anche l’apparentemente freddo e razionale Palmiro Togliatti. “Quanto ho fatto verso di te e con te non è mai stata un’intenzione frivola (…) ho seguito un impulso più forte della mia volontà”, scrive il 28 settembre 1946. L’amore di Nilde e per Nilde, entrata nella sua vita “come una striscia di sole in una stanza buia”, lo mette in discussione come uomo, gli fa guardare con occhi diversi la vita, a partire dalle cose quotidiane, come la passeggiata al Pincio a Roma o per le vie di Parigi.
Da quell’estate del 1946 i due sfideranno le convenzioni e il partito (che addirittura farà installare delle microspie per sorvegliarli) e vivranno insieme more uxorio, prima in un abbaino all’ultimo piano di Botteghe Oscure, poi in un villino a via Arbe a Montesacro, in un rapporto affettivo che solo la morte di Togliatti nel 1964 potrà interrompere. Proprio alla sua Nilde, Palmiro consegnerà il suo testamento politico: il Memoriale di Yalta. E solo al corteo funebre di Togliatti, la Iotti potrà uscire finalmente dall’ombra e presentarsi come la first lady. Il partito consentirà a lei e alla figlia Marisa di seguire il feretro dell’uomo tanto amato. Negli anni successivi Nilde mostrerà tutta la sua stoffa di grande italiana, nella politica, nel partito, nelle battaglie civili del divorzio, dell’aborto e del nuovo diritto di famiglia, e infine da presidente di quella Camera dove era sbocciato quell’amore così bruciante e così unico.

(Il Mattino, 2 agosto 2013)

Gli intellettuali spiati dai gendarmi (1945-1980)

Gli intellettuali spiati dai gendarmi (1945-1980)

di  Mario  Avagliano

 

Roma, anni Sessanta. In uno scalcagnato teatro off di via Belli, il Beat 72, dove hanno mosso i primi passi Carmelo Bene e Memè Perlini (e più tardi calcheranno la scena Roberto Benigni e Mario Martone), si tengono spettacolini che disturbano l’Oltretevere. I questurini annotano che il patron Ulisse Benedetti «ha richiesto la licenza per poter tenere pubblici intrattenimenti danzanti». Ma non si fa la danza del ventre: la «sacra messa» viene, come in un sabba demoniaco, oltraggiata dall’«attrice Trombetti Laura, ovvero Laura Betti» che, con capelli cotonati e occhi contornati da una pesante sottolineatura di eyeliner, si esibisce in «una Messa rossa con spogliarello».

 

Cos’ha da spartire l’attrice Laura Betti con gli scrittori Italo Calvino, Carlo Cassola ed Elsa Morante, i pittori Renato Guttuso ed Ernesto Treccani, i registi Pier Paolo Pasolini ed Elio Petri, i giornalisti Giorgio Bocca e Giampiero Mughini e tanti altri intellettuali, artisti ed uomini di spettacolo della Prima Repubblica pedinati dalla polizia e dai carabinieri? Sono personaggi che nessuno si aspetterebbe di ritrovare in mattinali e faldoni della Questura. Eppure sotto controllo per anni ci sono stati proprio loro, a causa dell’appartenenza o vicinanza al Psi e al Pci (e in seguito ai gruppuscoli di estrema sinistra), come rivela il bel libro di Mirella Serri Sorvegliati speciali. Gli intellettuali spiati dai gendarmi (1945-1980), in uscita il 16 febbraio da Longanesi (pp. 279, euro 18). 

 

L’Italia non era la Germania dell’Est del film La vita degli altri, ma certo per decenni i governi a guida democristiana attivarono un’infiltrazione metodica nelle riunioni riservate, cenacoli e circoli che impegnarono le più note teste d’uovo della sinistra, dalla A di Alberto Asor Rosa alla Z di Za ovvero Cesare Zavattini. I segugi – travalicando i compiti istituzionali di pubblica sicurezza – schedavano inclinazioni sessuali, lavori, patrimoni e lo fecero pure per coniugi, amanti, fratelli. La strana vicenda s’intensificò in epoca scelbiana, quando si lavorò intensamente per schedare l’intellighentia di sinistra, ritenuta non solo un covo di potenziali sovversivi ma anche la longa manus della propaganda d’opposizione. 

 

Nei rapporti riservati della polizia emerge la “verità” degli investigatori sull’egemonia culturale del Pci. Un documento del 1954 denuncia che il mondo dello spettacolo è tutto «infiltrato di comunisti e sostenuto dai loro giornali, così che, quando la censura si abbatte con la sua mannaia, i produttori, da Ponti a De Laurentiis, scatenano una canea». Di Vittorio De Sica si sottolinea che il film Stazione Termini è stato prodotto «contro il volere dell’onorevole Andreotti». Quanto a Vittorio Gassman, sarebbe stato politicamente influenzato dal regista Luchino Visconti, «notoriamente affetto da omosessualità». Per il grande Eduardo De Filippo, nonostante il suo antico antifascismo, si adombra il sospetto che l’attivismo nel Pci sia dovuto alla bocciatura di due suoi progetti cinematografici, tra cui uno con Totò.

 

Negli anni Settanta nel mirino dei governi finiranno anche i giovani Gad Lerner, Giangiacomo Feltrinelli, Marco Bellocchio e Paolo Liguori, che a vario titolo militavano nei movimenti di sinistra.  Ma il libro della Serri non è solo una storia di spie. È anche un ritratto tra luci ed ombre dell’intellighenzia italiana che trovò dimora nel Pci, non di rado dopo aver indossato la camicia nera. L’obiettivo dichiarato degli intellettuali era quello di difendere libertà di scelta e di espressione, alzando le barricate contro il potere democristiano, peraltro molto suscettibile quando si sfioravano i nervi scoperti della religione e della morale, come dimostrò il divieto pervicace nel ’63 nei confronti di Gian Maria Volontè di mettere in scena Il vicario di Rolf Hochhuth, un testo in cui si denunciava l’atteggiamento acquiescente di Pio XII verso i nazisti e lo sterminio degli ebrei.

 

Peccato tuttavia che, come osserva la Serri, gran parte di loro fece anche di più, con toni oggi quasi surreali per accenti, ovazioni e genuflessioni, per mitizzare acriticamente il socialismo reale dell’Urss  e dei paesi satelliti e poi, negli anni Settanta, dei paesi socialisti “esotici” emergenti, dalla Cina a Cuba. Pochi furono gli intellettuali che non si adeguarono alla ragion di partito e, per dirla con Norberto Bobbio, difesero «la libertà individuale contro i regimi assolutistici». 

 

Così quando nel gennaio del 1969, a Roma, i giovani universitari di Scienze politiche vollero commemorare  il sacrificio di Jan Palach, all’evento si presentò un solo uomo di spettacolo: Gianfranco Funari, lo showman dal marcato accento romanesco e dalla vistosa dentatura. Tutto il bel mondo dell’intellighenzia impegnata disertò l’appuntamento. Un atteggiamento opportunistico che, conclude la Serri, diversi uomini di spettacolo ed intellettuali, come l’ex marxista Lucio Colletti, hanno riproposto in egual modo in epoca berlusconiana in favore del nuovo Principe.


(Il Messaggero, 14 febbraio 2012)
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