Storie – Germania 1945: sconfitta o liberata?

di Mario Avagliano

Il settantesimo anniversario del crollo del Terzo Reich, caduto l’8 e il 9 maggio scorso, ripropone un interrogativo storico sul giudizio del popolo tedesco su quel momento: si sentirono sconfitti o liberati?
A riflettere su questo tema, è stato Gerhard Hirschfeld, professore allo Historisches Institut dell’Università di Stoccarda, uno dei massimi storici tedeschi contemporanei, in una lezione tenuta al Festival “È storia” a Gorizia qualche giorno fa.
Secondo Hirschfeld , nella Germania del 1945 inizialmente per la maggioranza dei tedeschi la fine del Terzo Reich non fu vissuta come una liberazione ma come una tragica sconfitta. “Anche molte persone per bene, uomini e donne, considerarono la fine del regime di Hitler una catastrofe, una rovina”, ha affermato lo storico.
Simili furono i sentimenti di milioni di soldati tedeschi. Come testimoniano molti appunti e diari dell’epoca, “non pochi cittadini si sentirono prigionieri di un’atmosfera da fine del mondo. Altri si abbandonarono all’autocommiserazione ed al pianto”.
Non per tutti fu così. Diversa fu la reazione degli oppositori e delle vittime del nazismo, per i quali il tramonto della dittatura rappresentò l’agognata liberazione: i perseguitati, gli esiliati, i prigionieri politici e ovviamente i sopravvissuti dei lager, ebrei e non ebrei, nonché i milioni di stranieri prigionieri di guerra o costretti al lavoro coatto in Germania.
Ma i tedeschi oppositori del nazismo “erano solo una minoranza”, osserva Hirschfeld. La maggior parte dei tedeschi aveva condiviso la strategia di superiorità della Germania perseguita da Hitler, con una “fede quasi religiosa” nella sua onnipotenza. Avrebbero impiegato molto tempo per capire che quella sconfitta era in realtà una liberazione e conteneva in sé “il germoglio della speranza in un futuro migliore”, come disse in un celebre discorso del 1985 il presidente della Repubblica Federale Richard von Weizsäcker.

(L'Unione Informa e Moked.it, 26 maggio 2015)

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Quei massacri ordinati dai Borbone

di Mario Avagliano

Il patriota Luigi Settembrini così descriveva nel 1847 il Regno delle Due Sicilie: «nel paese che è detto giardino d’Europa, la gente muore di vera fame e in istato peggiore delle bestie, sola legge è il capriccio». E Carlo Pisacane, in una lettera a Giuseppe Fanelli, uno dei pugliesi dei Mille, affermò che anche il Sud aveva dei doveri tremendi perché “ha sul collo una di quelle tirannidi che degradano chi le sopporta”.

Gianni Oliva nel suo recente saggio Napoli e la Sicilia: un regno che è stato grande (Mondadori), ha invece sostenuto che dal 1734 al 1861 il Mezzogiorno visse un grande fervore intellettuale e di rinnovamento sociale, non negando però che il regime borbonico si distinse per la sua opera di repressione dei patrioti.
Ma chi furono davvero i Borbone? Sovrani illuminati, mecenati del progresso, costruttori di un Mezzogiorno moderno e avanzato, oppure regnanti dispotici e illiberali, pronti a sopprimere ogni anelito o aspirazione alla democrazia e alle riforme, anche ricorrendo a mercenari e banditi?
Un nuovo lavoro di Antonella Orefice, Termoli e Casacalenda nel 1799. Stragi dimenticate (Arte Tipografica Editrice, pp. 101, euro 12), appena pubblicato, fornisce nuovi elementi a chi propende per la seconda tesi, proponendo la ristampa anastatica di due manoscritti dell’epoca che parlano delle stragi avvenute nel febbraio di quell’anno in due città del Molise che, durante i mesi della nascente Repubblica Napoletana, furono devastate dalle orde sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo di Calabria, al quale i Borbone, per tentare di arginare il fenomeno rivoluzionario, avevano affidato il duro compito della repressione.
L’esercito del cardinale, sbarcato il 7 febbraio in Calabria, si macchiò di efferati delitti nella sua avanzata verso Napoli (che occupò nel mese di giugno). Gli omicidi in primo piano in questo libro sono quelli dei fratelli Brigida, due giovani patrioti che furono trucidati, assieme ad altri compagni, a Termoli, e quello di Domenico De Gennaro, un giudice di Casacalenda che aveva sostenuto le idee repubblicane.
Le storie sono narrate nei dettagli: la strage di Termoli, da un testimone oculare dei fatti, Teodosio Campolieti, e quella di Casacalenda, da padre Giuseppe La Macchia, il parroco del paese, che fu anche protagonista dei fatti.
Gli elementi che accomunano i due memoriali sono essenzialmente tre: i patrioti vittime di tradimenti ed inganni, la devastazione dei luoghi, e la pietas cristiana invocata sia per i vincitori che per i vinti, nel memoriale su Termoli, dalla madre dei fratelli Brigida, ed in quello su Casacalenda, dal sacerdote La Macchia.
Si tratta, insomma, di due testimonianze forti delle atrocità commesse in Calabria, Puglia, Molise e Basilicata dall'esercito dei sanfedisti, costituito da mercenari albanesi, contadini del luogo ed avanzi di galera liberati per l'occasione dal cardinale Ruffo con la promessa di un lauto bottino di guerra.
Altamura, ad esempio, venne sottoposta ad assedio e a causa dell’intenso cannoneggiamento, dovette soccombere. Non vennero risparmiati vecchi, donne e bambini; alcuni conventi di suore furono profanati e la città venne data alle fiamme e saccheggiata dalle truppe sanfediste. Le stesse stragi si ripeterono ad Andria e a Trani e Gravina venne saccheggiata e data in premio ai mercenari.
Altre stragi o fucilazioni sommarie si registrarono nei decenni successivi. Un caso esemplare: nel Cilento, definito dalla polizia borbonica la “culla del ribellismo meridionale”, nel 1829 i fratelli Patrizio, Domenico e Donato Capozzoli, tutti e tre patrioti, catturati, furono fucilati a Palinuro e le loro teste mozze portate in giro nei paesi vicini per servire da monito alle popolazioni.
Il libro della Orefice segue quello precedente, Il Pantheon dei Martiri del 1799, e i manoscritti proposti nel libro provengono dallo stesso fondo archivistico di Mariano D'Ayala, con annessa trascrizione e note introduttive della Orefice, dello storico fiorentino Luigi Pruneti e dell'avvocato Mario Zarrelli.
I fratelli Brigida e Il giudice Domenico De Gennaro sono tre dei tanti patrioti oscuri e sconosciuti del Mezzogiorno che tra la fine del Settecento e la seconda metà dell’Ottocento animarono le lotte riformiste contro i Borbone e il Risorgimento italiano. Spiega la Orefice: “La mia vuole essere una risposta a chi, negli ultimi tempi, sta tentando un revisionismo storico sul Risorgimento, santificando i briganti e considerando traditori del regno i nostri martiri del 1799. Dai memoriali traspare la vera natura di quanti combatterono per il Borbone, perché lo fecero e da quanto vero "amore per la terra" furono mossi. Come sempre ho lasciato parlare i documenti, quelli veri, quelli scomodi”.

(Il Mattino, 14 giugno 2013)

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Storie – I contadini del Gargano convertiti all’ebraismo

di Mario Avagliano

Il primo ad occuparsi della curiosa e insolita conversione all’ebraismo di un gruppo di famiglie di un piccolo paesino dell’Italia meridionale, San Nicandro Garganico, fu la rivista inglese Time, che nel settembre 1947 dedicò alla storia un reportage. Protagonista del cammino di fede, in piena era fascista (seconda metà degli anni Trenta), era stato un signore di nome Donato Manduzio, classe 1885, reduce della Grande Guerra. Un’epifania religiosa dal carattere del tutto autonomo, avvenuta a seguito del dono di un Bibbia da parte di un compaesano emigrato che si era convertito ai pentecostali.

La vicenda di Manduzio e dei circa ottanta aspiranti ebrei di San Nicandro che nel dopoguerra, dopo aver avuto il riconoscimento definitivo da parte dell’ebraismo italiano, presero la via dell’emigrazione verso il nuovo Stato di Israele, è stata raccontata nel libro Gli ebrei di San Nicandro di John A. Davis (Giuntina), da poco uscito in libreria.
Uno dei punti più interessanti del volume è l’esame del contesto in cui matura la conversione, che è quello di una comunità rurale e contadina del Mezzogiorno, i cui membri erano quasi tutti analfabeti e dalle condizioni di vita alquanto precarie. In questo ambiente povero e genuino, l’ebraismo viene visto come una possibilità di redenzione e di cambiamento.
Un aspetto paradossale è la tempistica della conversione: la richiesta della micro-comunità di San Nicandro giunge infatti a Remo Cantoni e agli leader dell’epoca dell’ebraismo italiano tra il 1937 e il 1938, proprio alla vigilia delle leggi razziali. E proprio a causa dell’entrata in vigore dei provvedimenti razzisti, alla fine resta inevasa.
La “pratica” viene riaperta dopo l’arrivo in Puglia nel gennaio 1944 della Brigata ebraica e l’incontro di Manduzio e dei suoi seguaci con Enzo Sereni che, come scrive Davis, «ebbe un effetto incredibile» su di loro: «Le sue parole sulla vita nella terra promessa e il suo incitamento all’emigrazione furono risolutive per la scelta della piccola comunità».
Nel 1946 i maschi sannicandresi furono circoncisi dal chirurgo Ascarelli e, nonostante la morte di Manduzio, nel 1948 iniziò l’emigrazione in Erez Israel. La famiglia Cerrone fu la prima, quell’estate, a lasciare la Puglia e a stabilirsi in un kibbutz in Israele. Un altro consistente gruppo di sannicandresi s’imbarcò sulla nave israeliana Galilee a Bari il 21 novembre 1949. Una storia straordinaria che meritava di essere ricostruita.

(L'Unione Informa e portale Moked.it 18 giugno 2013)

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Storie - Il caso Palatucci e il compito della storiografia

di Mario Avagliano

La storia non si fa né con le glorificazioni improvvisate né con i giudizi sommari. La storia richiede una lunga attività di scavo e di ricerca, non solo negli archivi, che tenga conto dei documenti e delle testimonianze disponibili e anche del contesto in cui si svolsero i fatti. Lo dimostra la vicenda del funzionario di polizia irpino Giovanni Palatucci nel periodo della persecuzione degli ebrei, tra il 1938 e il 1944, oggetto di attenzione in queste ultime settimane da parte dei principali quotidiani nazionali.
Palatucci è il classico esempio di come, senza opportuni studi ed approfondimenti, un personaggio possa essere considerato, a seconda dei punti di vista, “santo” o “criminale”. Dal riconoscimento di Giusto tra le Nazioni dello Yad Vashem e il processo di beatificazione da parte della Chiesa cattolica, alle accuse del New York Times di collaborazionismo con i nazisti.
Uno dei primi a sollevare dubbi sul salvataggio da parte di Palatucci di migliaia di ebrei fu, nel 2008, lo studioso Marco Coslovich, nel libro Giovanni Palatucci. Una giusta memoria. Ora a riaprire il dibattito è stata la presa di posizione del Centro Primo Levi di New York, a seguito di uno studio su circa 700 documenti di vari archivi internazionali, tra i quali quello della città di Fiume.

Sul caso Palatucci, inviterei a leggere le interviste di Michele Sarfatti a Panorama e all’Huffington Post e le sue dichiarazioni al Corriere della Sera.
Sarfatti, che ha partecipato alla ricerca del Centro Primo Levi ed è uno storico di grande spessore e serietà scientifica, dopo aver affermato che dai documenti esaminati non sono emerse «evidenze storiografiche del salvataggio di migliaia di ebrei da parte di Giovanni Palatucci» e che il ruolo del funzionario irpino è stato «ingigantito», ricorda però che fu deportato a Dachau per attività antitedesca e spiega che la sua vicenda merita rispetto e ricostruire il suo operato non significa spostarlo «nel campo dei cattivi».
Quanto alle accuse di collaborazionismo con i tedeschi, Sarfatti precisa testualmente: “resto perplesso su una frase della giornalista del NYT, secondo la quale Palatucci avrebbe ‘aiutato i tedeschi a identificare gli ebrei da rastrellare’. Frase che attribuisce ai ‘ricercatori’, senza specificare chi. Ma di questo non esiste prova alcuna”.
Ma il ruolo di salvatore di Palatucci è stato del tutto inventato? Un’affermazione del genere sarebbe scorretta. Nella pratica di riconoscimento dello Yad Vashem ci sono prove che Palatucci soccorse una donna ebrea, Elena Aschkenasy. E, come aggiunge Sarfatti, ci sono in suo favore testimonianze “che in linea generale ritengo fondate, ma devono essere vagliate con attenzione studiando le carte”. Ad esempio quella sul salvataggio dei due coniugi Salvator e Olga Conforty (la figlia Renata Conforty lo ha ricordato sul Corriere della Sera del 23 giugno).
Il problema è che, come osserva Sarfatti, “i riconoscimenti pubblici a Palatucci hanno preceduto la ricerca storica”. Ora lo Yad Vashem ha avviato un processo di riesame del suo caso sulla base della nuova documentazione. E, come propone il direttore del Cdec, anche in Italia si potrebbe nominare un gruppo di lavoro per fare chiarezza sulla vicenda.
Aggiungo che mi trovo d’accordo con Anna Foa sul fatto che, probabilmente, in seguito alle ricerche in corso i numeri andranno ridimensionati e alcuni eventi andranno riletti, ma va tenuto conto che la necessaria segretezza di un’attività di questo tipo non rende semplici le verifiche e comunque anche aiutare o salvare solo alcune persone è un fatto rilevante e meritevole di ricordo, di riconoscimento e di apprezzamento.

(L'Unione Informa 26 giugno 2013 e Portale Moked.it)

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Storie – Esperimenti di Web Memo-ria

di Mario Avagliano

Si potrebbe chiamare Web Memo-ria il profluvio di iniziative in rete per ricordare i genocidi e le guerre del Novecento. Un fiorire di progetti che forse nasce anche come risposta alla superficialità e a volte all’ignoranza con cui questi temi spesso vengono trattati su internet. L’ultimo di questi progetti, partito un anno fa, è "Web Memo - European Digitalization of shared memories" e i suoi risultati sono stati presentati oggi a Venezia. L’obiettivo? Raccogliere testimonianze storiche sulla Shoah e sui genocidi del nazifascismo, fare rete tra le scuole europee, trasmettere “quello che è stato” ai giovani, rafforzando così il senso di identità europea. Il principale frutto di questo lavoro è il sito internet www.webmemoproject.eu, diventato vetrina di un nuovo "Centro di Documentazione Europea" e strumento per coinvolgere dodici istituti superiori tra Veneto, Belgio e Baviera in un viaggio interattivo nella memoria.

Il progetto, finanziato dal Programma comunitario Europa per i Cittadini-Azione Memoria Europea Attiva, ha come capofila il Giardino dei Giusti del Comune di Padova e come partner la Regione del Veneto, attraverso la Direzione di Bruxelles, le Acli padovane e alcune delle maggiori comunità ebraiche europee: quelle di Venezia e Padova, insieme allo European Jewish Community Centre di Bruxelles e alla European Janusz Korczak Academy di Monaco di Baviera.
Nel sito sono presenti testimonianze di sopravvissuti alla Shoah ancora in vita, oltre a documenti, fotografie, video e documentari, disponibili anche in inglese oltre che nelle lingue originali. Un nucleo di testimonianze e di carte ora disponibile e direttamente accessibile sulla rete, come ad esempio la circolare datata settembre 1938 con cui il provveditore di Padova esonera ed espelle gli insegnanti ebrei dalle scuole.
Il progetto Web Memo ha anche permesso di formare una rete europea nelle scuole, sviluppatasi tra Venezia, Padova, Bruxelles e Monaco di Baviera. Vi hanno partecipato circa 180 studenti veneti, appartenenti all'I.T.I.S. Primo Levi e al liceo Majorana-Corner di Mirano, al liceo Stefanini di Mestre, e ai licei Tito Livio, Curiel e Amedeo di Savoia Duca d'Aosta di Padova. Circa altrettanti sono stati gli alunni coinvolti nelle scuole di Bruxelles e di Monaco. Un modo intelligente per trasmettere la Web Memo-ria alle nuove generazioni.

(L'Unione Informa e portale Moked.it, 2 luglio 2013)

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L'amore ai tempi della falce e martello. La storia di Nilde Iotti e Palmiro Togliatti nel carteggio inedito

di Mario Avagliano

Estate 1946. Dal color seppia di una rara foto d’epoca si affaccia sorridente la ventiseienne Nilde Iotti, appena eletta deputato dell’Assemblea costituente, seduta su un divano, in mezzo a un gruppo di donne parlamentari dall’aria leggera e festosa. Solo da un anno la legge italiana ha riconosciuto il suffragio femminile e loro sono le prime a entrare come «onorevoli» nell’aula austera di Montecitorio. All’altra estremità del divano, una signora di mezz’età stringe con grazia fra le mani una singolare piccola borsa fiorata. È Rita Montagnana, la mitica «Marisa», moglie di Palmiro Togliatti, segretario del Pci. Quelle due deputate comuniste, così diverse di aspetto e di età, di lì a poco diventeranno rivali. Per la giovane professoressa reggiana, figlia di un ferroviere socialista, laureatasi alla Cattolica e formatasi alla scuola di Dossetti e La Pira, la simpatia travolgente per Togliatti, di 27 anni più vecchio di lei, si trasformerà ben presto in una relazione «gioiosa e terribile». Per «Marisa», invece, la compagna del Migliore nel periodo dell’antifascismo clandestino, si prefigura una storia di abbandono sofferto e penoso, anche per quel loro figlio, Aldo, tormentato da un insopprimibile mal di vivere.
Sono alcune della pagine più belle dell’intrigante libro di Luisa Lama, intitolato Nilde Iotti. Una storia politica al femminile (Donzelli pp. 288, € 30), che - come afferma Livia Turco in una densa introduzione - ci regala la prima vera biografia della ex presidente della Camera, dall’esordio in politica fino al 1979, anno dell’elezione allo scranno più alto di Montecitorio. Una ricostruzione arricchita dalla pubblicazioni di stralci dello straordinario carteggio inedito tra la Iotti e Togliatti (agosto 1946-agosto 1947), ritrovato dalla loro figlia adottiva Marisa Malagoli in un cofanetto di legno intarsiato.
Un incontro segnato dal destino. Luisa Lama racconta quanto fu determinante nella scelta di campo della giovane Nilde, fervente cattolica, in bilico nel suo riformismo tra la Dc, i socialisti e il Pci, l’ascolto nel 1944, attraverso Radio Londra, della «voce gracchiante di Ercoli» (lo pseudonimo di Togliatti) che annunciava la svolta di Salerno. Dopo la collaborazione alla Resistenza, l’esperienza nell’Udi e l’elezione come indipendente nelle liste del Pci a Reggio Emilia, per la Iotti arriva la candidatura alla Costituente.
È quell’estate, il 30 luglio del 1946, che la tormentata relazione tra i due ha inizio. "Galeotta" è una timida, impacciata carezza di Palmiro alla chioma di Nilde mentre scendono lo scalone di Montecitorio, a cui seguono dotte conversazioni sui poemi cavallereschi dell’Ariosto e del Boiardo, qualche incontro clandestino e quindi l’innamoramento. Togliatti avverte una «vertigine davanti a un abisso», Nilde sente «sgomento per questo immenso mistero d’amore che mi dà le vertigini».
La brillante carriera della Iotti prende avvio in quella stagione. Designata dal partito nella Commissione dei 75 alla Costituente (unica donna, insieme a Teresa Noce), affronta in modo combattivo e innovativo il tema della famiglia, ponendo fin dall’inizio la questione della parità tra i sessi al suo interno e nell’educazione dei figli. Paradossalmente la relazione con il “capo” rischia di danneggiarla più che di favorirla. Dirigenti autorevoli come Pietro Secchia accusano il segretario di essere «condizionato» da Nilde e mettono in dubbio con il Cremlino l’affidabilità politica della professoressa reggiana, dati i trascorsi all’Università Cattolica.
Nonostante gli sgarbi di amici e nemici, le allusioni velenose di certa stampa, la consapevolezza di andare controcorrente (all’epoca essere «concubini» costituiva un reato penale), Nilde e Palmiro non rinunciano al loro amore, come testimonia il carteggio. «Mi sento di lottare con le unghie e con i denti per difendere un sentimento che è mio e solo mio», scrive la Iotti. E difende a spada tratta anche il suo impegno politico, vincendo la pressione dei compagni di partito a Reggio, che vorrebbero farla ritirare a vita privata. Nella corrispondenza fra i due, colpisce la passione che anima anche l’apparentemente freddo e razionale Palmiro Togliatti. “Quanto ho fatto verso di te e con te non è mai stata un’intenzione frivola (…) ho seguito un impulso più forte della mia volontà”, scrive il 28 settembre 1946. L’amore di Nilde e per Nilde, entrata nella sua vita “come una striscia di sole in una stanza buia”, lo mette in discussione come uomo, gli fa guardare con occhi diversi la vita, a partire dalle cose quotidiane, come la passeggiata al Pincio a Roma o per le vie di Parigi.
Da quell’estate del 1946 i due sfideranno le convenzioni e il partito (che addirittura farà installare delle microspie per sorvegliarli) e vivranno insieme more uxorio, prima in un abbaino all’ultimo piano di Botteghe Oscure, poi in un villino a via Arbe a Montesacro, in un rapporto affettivo che solo la morte di Togliatti nel 1964 potrà interrompere. Proprio alla sua Nilde, Palmiro consegnerà il suo testamento politico: il Memoriale di Yalta. E solo al corteo funebre di Togliatti, la Iotti potrà uscire finalmente dall’ombra e presentarsi come la first lady. Il partito consentirà a lei e alla figlia Marisa di seguire il feretro dell’uomo tanto amato. Negli anni successivi Nilde mostrerà tutta la sua stoffa di grande italiana, nella politica, nel partito, nelle battaglie civili del divorzio, dell’aborto e del nuovo diritto di famiglia, e infine da presidente di quella Camera dove era sbocciato quell’amore così bruciante e così unico.

(Il Mattino, 2 agosto 2013)

Premio Fiuggi 2013, ecco i finalisti

Nella splendida cornice del giardino della casa romana di via delle Belle Arti di donna Giovanna Napolitano Morelli sono stati annunciati i finalisti della quarta edizione del Premio FiuggiStoria. Alla serata hanno preso parte il Comitato di lettura degli Amici del Premio Fiuggi, i soci fondatori della Fondazione Piero Melograni, Antimo Della Valle, Mohamed Ba e Alberto Spelda, i sodali della piazzetta di Capri e numerosi ospiti.

La segretaria del Premio, Vera Manacorda ha dato lettura dei finalisti per le varie sezioni che sono per la saggistica Vittorio Buffa: Io ho visto (NUTRIMENTI); Luciano Canfora: Spie, Urss, Antifascismo. Gramsci 1927-1937 (SALERNO); Philippe Daverio: Il secolo lungo della modernità (RIZZOLI); Filippo Focardi: Il cattivo tedesco e il bravo italiano (LATERZA); Alberto Vacca: Duce sei il mio Dio! (BALDINI E CASTOLDI); Claudio Fracassi: La battaglia di Roma 1943. I giorni della passione sotto l'occupazione nazista (MURSIA); Luciano Garibaldi: Gli eroi di Montecassino, (MONDADORI); Bruno Maida: I bambini e la Shoah (EINAUDI). Per la Sezione biografie: Roberto Favero: Maria Sofia di Savoia una giovinezza sacrificata alla ragion di Stato, (NEOS EDIZIONI); Claudia Fusani: Mille Mariù. Vita di Irene Brin (CASTELVECCHI); Carlo Ghisalberti, Silvio Spaventa, Tra Risorgimento e Stato Unitario, (LA SCUOLA DI PITAGORA); Roberto Lughezzani: La lunga strada sconosciuta. Una famiglia ebrea nella morsa del nazifascismo (MARLIN EDITORE); Ermanno Olmi: L’Apocalisse è un lieto fine (RIZZOLI); Maurizio Viroli: Il Sorriso di Niccolò. Storia di Machiavelli ( LATERZA). Per la sezione Romanzo Storico: Michel Gazo, Il Flagello di Roma, (MONDADORI); Rapahel Jérusalmy: Salvare Mozart (Edizioni E/O); Valeria Montaldi: La prigioniera del silenzio (MONDADORI); Alessandra Necci: Re Sole e lo scoiattolo (MARSILIO); Orazio Santagati: L’amico del Fuhrer (IRIS4EDIZIONI). Per la sezione Opera Prima: Laura Tangherlini: Siriani in Fuga. L'emergenza umanitaria dei profughi siriani in libano o in Giordania. (POESIS); Francesco Crupi: Cleto Morelli. La forza della coerenza (YOUCANPRINT).

I libri selezionati, per questo Premio che nasce dal basso, sono stati segnalati dai vincitori le edizioni precedenti e dal Comitato di lettura. Il 28 settembre, presso la Sala Consiliare del Palazzo di Città di Fiuggi, la premiazione. Il Premio è promosso dalla Fondazione Levi-Pelloni in collaborazione con la Fondazione Piero Melograni, Comune di Fiuggi e Banca di Credito Cooperativo di Fiuggi.

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Quel geroglifico è un gossip. Storia del pettegolezzo

di Mario Avagliano

“E’ assolutamente mostruoso ciò che la gente fa al giorno d’oggi mentre passeggia: dire, alle spalle degli altri, delle cose che sono assolutamente vere”, scriveva Oscar Wilde. Religiosi, storici, filosofi, poeti, corvi, cronisti, diaristi, memorialisti, letterati, politici, scrittori, principesse. Nell’arco dei secoli il gossip ha avuto molti protagonisti, molte facce e molte identità. E la sua funzione non è stata sempre negativa, anzi storicamente è servito a mettere alla berlina gli eccessi del potere politico, economico o religioso. Proprio grazie alle sue caratteristiche, riassunte nella famosa aria rossiniana La calunnia è un venticello: “Piano piano, terra terra / Sotto voce sibilando, / Va scorrendo, va ronzando; / Nelle orecchie della gente / S’introduce destramente, / E le teste ed i cervelli / Fa stordire e fa gonfiar”. La storia del pettegolezzo o, se si preferisce, del rumor, come lo definiscono sociologi, antropologi e psicologi (parola latina diventata rumour in inglese britannico), è quindi la storia di uno dei vizi più antichi e più diffusi del mondo, come ci racconta il documentato saggio di Paolo Pedote, intitolato Gossip dalla Mesopotamia a Dagospia (Odoya, pp. 284, euro 18).

La tesi dell’antropologo Robin Dunbar, che ha studiato alcuni insediamenti di ominidi di 250 mila anni fa, è che l’uomo ha sempre favorito e promosso il pettegolezzo, fin dalla notte dei tempi. Facendo un rapido excursus storico, troviamo infatti forme primordiali di gossip nelle caverne e nei geroglifici, ma anche nella Bibbia (se ne parla per la prima volta verso la fine della Genesi, in un racconto legato alla discendenza di Giacobbe) e nel Nuovo Testamento, nel quale la maldicenza viene utilizzata contro Gesù di Nazareth dai suoi nemici.
I romani furono maestri del gossip. Celebri le frasi erotiche ritrovate sulle mura di Pompei, del tipo “Votate per Isidoro all’edilizia. Lecca la fica in modo strepitoso”. La letteratura latina utilizzò fin dall’inizio le voci di corridoio per intrecciare l’elemento politico (d’accusa e di critica) con quello poetico, deridendo le grandi cariche imperiali. Ne costituiscono un esempio mirabile i carmina triumphalia, che i legionari improvvisavano durante le cerimonie di vittoria. Come quelli piccanti che i soldati cantarono durante il trionfo di Giulio Cesare sui Galli, per sottolineare la sua relazione omosessuale con Nicomede IV Filopatore, l’ultimo re di Bitinia: “Cesare ha sottomesso le Gallie, Nicomede ha sottomesso Cesare. Ecco, ora trionfa Cesare, che sottomise le Gallie, ora trionfa. Nicomede che ha sottomesso Cesare, non riporta nessun trionfo”.
Il primo grande scrittore di gossip della storia è stato Gaio Svetonio Tranquillo, che nei suoi libri ha tramandato le storie segrete di dodici imperatori romani, raccontando del rapporto incestuoso di Caligola con la sorella Drusilla; delle strategie d’amore della regina Cleopatra, dalla voce suadente e dall’aspetto seducente, amante di Giulio Cesare e di Marco Antonio; delle avventure notturne di Messalina, moglie dell’imperatore Claudio, che appena poteva scappava verso le periferie della città e, sotto il nome d’arte di Licisca, si prostituiva con marinai e gladiatori.
Il pettegolezzo, racconta il saggio di Pedote, ha poi attraversato il Medioevo, svelando le nefandezze dei papi libertini (vedi il capitolo sulla Sacre e segrete stanze), per vestirsi dopo l’anno Mille da cantastorie, menestrello e giullare. Alla nascita della letteratura italiana, si è insinuato nella Divina Commedia di Dante e nella novella boccaccesca, ed è diventato la prova schiacciante nei processi dell’Inquisizione. Pettegoli sono stati grandi personaggi del Cinquecento come Niccolo Machiavelli, Francesco Guicciardini e Pietro Aretino, e principesse alla corte settecentesca di Luigi XIV.
Dopo l’invenzione della stampa periodica, il gossip ha fatto il suo ingresso nel giornalismo. Nell’Ottocento nascono le grandi riviste di costume come l’inossidabile Vanity Fair, e nel Novecento lo star system hollywoodiano inventa i columnists, che tengono in pugno le carriere dei divi più famosi. I pettegolezzi tornano in auge durante le dittature e la Guerra Fredda, ancora una volta per mezzo della delazione. Nel dopoguerra, con la dolce vita ecco arrivare il paparazzo; poi, con la rivoluzione sessuale e un rinnovato “comune senso del pudore”, il gossip diventa protagonista assoluto di riviste che si sfidano a colpi di esclusive milionarie.
Gli anni Novanta ci lasciano con il primo sexgate della storia, l’affaire Clinton-Lewinsky, e con il Grande Fratello, una trasmissione che è l’emblema del pettegolezzo. Oggi viviamo in un’era dai ruoli invertiti: in cui spesso sono i vip che inseguono il gossip, per sopravvivere. E il pettegolezzo è protagonista dell’informazione televisiva, della stampa di alto e basso livello e dei reality show. Si parla di gossip persino quando ci riferiamo a documenti segreti e alle indiscrezioni di Wikileaks e Vatileaks. Si fa gossip in politica, nel mondo della finanza e del business. E, nell’era della “multimedialità”, si fa gossip in modo ossessivo su internet, dai social network a you tube. Ma non è più l’epoca di Gaio Svetonio, di Dante, delle pasquinate o, per andare a tempi più recenti, dei Fellini, dei Flaiano o dei Pasolini. Non c’è più critica, in senso hegeliano. Come osserva Paolo Pedote, “ci sono solo i protagonisti di un potere che si alimenta attraverso l’arroganza dell’esserci a tutti i costi”. Il gossip è diventato “la cornice di un fermo/vuoto immagine che caratterizza la nostra contemporaneità”.

(Pubblicato in una versione più breve su Il Messaggero, 4 agosto 2013)

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