Storie – La lunga strada sconosciuta

di Mario Avagliano

Tra il 1933 e il 1945 prima la persecuzione nazifascista e poi la seconda guerra mondiale separarono brutalmente molte famiglie di ebrei, costringendo i loro membri a cercare di sopravvivere in vari angoli d’Europa. E’ il caso di Hela Schein e di Otto e Heinz Skall, nonché di Willi Kleinberg e Gusti Mandler (rispettivamente secondo marito di Hela e seconda moglie di Otto), una famiglia ebrea “frammentata” in quegli anni tra Austria, Cecoslovacchia e Italia.
La loro vicenda è stata raccontata, con garbo e sensibilità, da Roberto Lughezzani nel bel libro La lunga strada sconosciuta. Una famiglia ebrea nella morsa del nazifascismo (Marlin editore).
La tragica storia ricalca quella di milioni di ebrei: nell’attesa angosciosa della fine, Willi muore di crepacuore, mentre Hela, deportata in Polonia, sparisce nell’orrore del lager; Otto con la seconda moglie Gusti si suicida a Praga per sfuggire alla deportazione a Theresienstadt.
L’unico sopravvissuto della famiglia è il giovane Heinz, figlio di Hela e di Otto, che ha studiato in Italia e dopo il varo delle leggi razziali finisce nel campo d’internamento di Campagna, e poi a Sala Consilina, in provincia di Salerno.
A Sala Consilina Heinz intreccia una tenera storia d’amore con una giovane insegnante, Rita Cairone, che sposerà dopo la guerra. Egli resterà fino all’ultimo il custode delle memorie familiari, il depositario delle lettere straordinarie che i suoi gli avevano scritto negli ultimi anni di vita. Sono lettere che si leggono con viva commozione e, contro ogni forma di negazionismo, testimoniano la ferocia con cui il nazismo infierì su milioni di esseri umani, di null’altro colpevoli che di essere ebrei.

(L'Unione Informa, 11 giugno 2013 e portale Moked.it)

Roberto Lughezzani "La lunga strada sconosciuta"
Una famiglia ebrea nella morsa del nazifascismo
Presentazione di Elena Skall

Ft. 12,2 x 20
pp. 228€ 16,00
ISBN 978-88-6043-079-3

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Storie – Esperimenti di Web Memo-ria

di Mario Avagliano

Si potrebbe chiamare Web Memo-ria il profluvio di iniziative in rete per ricordare i genocidi e le guerre del Novecento. Un fiorire di progetti che forse nasce anche come risposta alla superficialità e a volte all’ignoranza con cui questi temi spesso vengono trattati su internet. L’ultimo di questi progetti, partito un anno fa, è "Web Memo - European Digitalization of shared memories" e i suoi risultati sono stati presentati oggi a Venezia. L’obiettivo? Raccogliere testimonianze storiche sulla Shoah e sui genocidi del nazifascismo, fare rete tra le scuole europee, trasmettere “quello che è stato” ai giovani, rafforzando così il senso di identità europea. Il principale frutto di questo lavoro è il sito internet www.webmemoproject.eu, diventato vetrina di un nuovo "Centro di Documentazione Europea" e strumento per coinvolgere dodici istituti superiori tra Veneto, Belgio e Baviera in un viaggio interattivo nella memoria.

Il progetto, finanziato dal Programma comunitario Europa per i Cittadini-Azione Memoria Europea Attiva, ha come capofila il Giardino dei Giusti del Comune di Padova e come partner la Regione del Veneto, attraverso la Direzione di Bruxelles, le Acli padovane e alcune delle maggiori comunità ebraiche europee: quelle di Venezia e Padova, insieme allo European Jewish Community Centre di Bruxelles e alla European Janusz Korczak Academy di Monaco di Baviera.
Nel sito sono presenti testimonianze di sopravvissuti alla Shoah ancora in vita, oltre a documenti, fotografie, video e documentari, disponibili anche in inglese oltre che nelle lingue originali. Un nucleo di testimonianze e di carte ora disponibile e direttamente accessibile sulla rete, come ad esempio la circolare datata settembre 1938 con cui il provveditore di Padova esonera ed espelle gli insegnanti ebrei dalle scuole.
Il progetto Web Memo ha anche permesso di formare una rete europea nelle scuole, sviluppatasi tra Venezia, Padova, Bruxelles e Monaco di Baviera. Vi hanno partecipato circa 180 studenti veneti, appartenenti all'I.T.I.S. Primo Levi e al liceo Majorana-Corner di Mirano, al liceo Stefanini di Mestre, e ai licei Tito Livio, Curiel e Amedeo di Savoia Duca d'Aosta di Padova. Circa altrettanti sono stati gli alunni coinvolti nelle scuole di Bruxelles e di Monaco. Un modo intelligente per trasmettere la Web Memo-ria alle nuove generazioni.

(L'Unione Informa e portale Moked.it, 2 luglio 2013)

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Storie – La famiglia Klein-Sacerdoti e il pacchettino che attraversò la guerra

di Mario Avagliano

Ci sono microstorie della Shoah che commuovono e appassionano in modo particolare. Una di queste, è la vicenda della famiglia Klein-Sacerdoti, raccontata da Giorgio Sacerdoti nel libro Nel caso non ci rivedessimo (Archinto), con l’ausilio di lettere dell’epoca.
I Klein sono di Colonia, in Germania, i Sacerdoti originari di Modena, ma vivono a Milano. Il destino delle due famiglie s’incrocia nel 1939 su un campo da tennis a Parigi, dove sboccia l’amore tra il giovane Piero Sacerdoti, dipendente della Ras assicurazioni, e l’affascinante Ilse Klein, segretaria d’ufficio. I due si sposano il 14 agosto 1940 a Marsiglia, nella Francia del Sud occupata.
Sono tempi bui. L’Europa è sotto il segno della svastica e delle persecuzioni. Dopo la Notte dei Cristalli del novembre 1938, i genitori di Ilse, l’avvocato Siegmund Klien e la moglie Helene Meyer, decidono di riparare ad Amsterdam, dove si trova già l’altro figlio Walter. Da qui intrecciano una complicata corrispondenza con la figlia (il servizio postale tra Olanda e Francia del Sud è sospeso), per il tramite di una cugina di Helene che vive in Svizzera, Anni, che da Zurigo smista le lettere.
Negli anni successivi anche in Olanda, a seguito dell’occupazione nazista, la situazione degli ebrei precipita. Walter nel maggio 1942 tenta di fuggire a Marsiglia, per raggiungere la sorella, ma viene catturato dai nazisti al confine con la Francia. Le sue lettere dal carcere sono cariche di disperazione. Piero s’adopera in ogni modo per salvarlo, ma il suo destino è scritto e la mattina del 26 agosto il giovane viene deportato ad Auschwitz, assieme ad altri 948 sfortunati.
La madre Helene per il dolore si ammala e il 14 gennaio 1943 muore in un ospedale di campagna, dopo aver tentato il suicidio. Qualche settimana prima, però, assieme al marito, avendo saputo che la figlia Ilse è incinta, ha fatto in tempo a confezionare amorevolmente un pacchettino con il corredino per il nipotino in arrivo, Giorgio Sacerdoti. Il pacchetto attraversa l’Europa in guerra e, dato per disperso, dopo tre mesi giunge incredibilmente a destinazione, quando la donna è già morta.
La scomparsa di Helene verrà nascosta ad Ilse dal padre per quasi un anno. Solo il 16 ottobre papà Siegmund, che sente la fine vicina, chiederà ai parenti di rivelare la verità ad Ilse. Tre giorni dopo verrà arrestato e dopo un paio di cartoline dal campo di raccolta di Westerbok, anche lui caricato come una bestia su un convoglio per Auschwitz, dove morirà all’età di 69 anni.
Intanto la giovane coppia costituita da Piero ed Ilse, con il piccolo Giorgio nato a marzo, fugge da Nizza in un villino sul lago Maggiore, unendosi ai genitori Sacerdoti, papà Nino e mamma Gabriella. L’incubo non è finito. Dopo l’8 settembre, anche in Italia parte la caccia all’ebreo. I Sacerdoti riescono fortunosamente a passare la frontiera svizzera a Vieggiù e poi si trasferiscono a Ginevra, dove trovano la sospirata salvezza. Ma l’orrore di quegli anni e la perdita di mezza famiglia segnerà per sempre la loro vita.

(L'Unione Informa e portale moked.it del 3 settembre 2013)

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Storie – Il buono e il cattivo. Il comandante di Auschwitz e l'ebreo che riuscì a catturarlo

di Mario Avagliano

Il buono e il cattivo. In «Il comandante di Auschwitz» (Newton Compton Editori), Thomas Harding, laureato in antropologia alla Cambridge University, già giornalista e film-maker, ha ricostruito le vite parallele di uno dei più spietati criminali nazisti e dell'ebreo che riuscì a catturarlo.
Da un lato Rudolph Hess (Höss, se si segue la grafia tedesca), classe 1901, volontario alla Grande Guerra ad appena 14 anni, iscrittosi al partito nazista nel 1922, sostenitore dell’antisemitismo e poi divenuto nel 1940 comandante di Auschwitz (dopo un’esperienza a Dachau e a Sachsenhausen), responsabile del massacro di oltre un milione di persone e freddo esecutore della “soluzione finale” voluta da Hitler.
Dall’altro Hanns Alexander, classe 1917, ebreo tedesco, cresciuto a Berlino, rifugiatosi in Gran Bretagna per sfuggire alle persecuzioni delle SS, in seguito arruolatosi nell’esercito inglese, con la matricola 264280, rischiando moltissimo (se catturato dal Reich, sarebbe stato considerato un traditore e quindi giustiziato). Il 12 maggio 1945 il tenente Hanns entrò in contatto con l’orrore della Shoah, entrando nel lager di Bergen-Belsen. Nell’immediato dopoguerra venne reclutato quale investigatore del I War Crimes Investigation Team, detto anche I WCIT, il pool creato per scovare e assicurare alla giustizia internazionale i gerarchi nazisti responsabili delle atrocità dell'Olocausto.
Ma l’ex kommandant di Auschwitz, che si era rifugiato sotto falsa identità in una fattoria di Gottrupel, è una preda difficile da stanare, e Hanns dovrà giocare d’astuzia e agire con determinazione per riuscire a catturarlo.
Un dettaglio interessante: Harding è il pronipote di Alexander, ignaro dell’avventuroso passato del prozio fino al giorno del suo funerale, il 28 dicembre 2006.

(L’Unione Informa e portale moked.it del 17 settembre 2013)

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Storie - Giuseppe Bolgia e l'Angelo del Tiburtino

di Mario Avagliano

Quando David Bidussa, nel suo acuto saggio Dopo l’ultimo testimone, s’interrogò su quale sarebbe stato il futuro della Memoria dopo la scomparsa di chi aveva vissuto in prima persona la Shoah, la Resistenza, il fascismo, l’occupazione tedesca e la seconda guerra mondiale, si riferiva certamente anche ai loro figli.Anche a me è capitato, in giro per l’Italia a parlare di questi temi, di conoscere di frequente figli di deportati, di perseguitati politici e razziali, di partigiani, di internati militari, che hanno raccolto l’eredità dei genitori, con passione e coraggio civile.
Purtroppo il tempo passa e anche i figli cominciano a scomparire. È il caso di Giuseppe Bolgia, morto ieri a Roma, a pochi giorni dalla cerimonia di ricollocamento presso la Stazione Tiburtina della lapide in ricordo del padre, la medaglia d’oro al merito civile Michele Bolgia, in programma il 16 ottobre alle ore 12, presso il binario 1.

La storia di Giuseppe è drammatica. Appena dodicenne, aveva perso la mamma, durante i bombardamenti alleati del 19 luglio 1943. Dopo l’armistizio, il padre Michele, ferroviere, decise di non potere essere testimone inerte del delitto della deportazione di migliaia di persone, che partivano dalla Stazione Tiburtina per essere avviati ai campi di lavoro e di sterminio.
Così, in collaborazione con la formazione partigiana della Guardia di Finanza, in più occasioni riuscì ad aprire i portelloni dei carri ferroviari, togliendo il piombo dai vagoni sigillati e salvando molte persone dalla deportazione. Fu catturato su delazione di fascisti e fu ucciso dai nazisti alle Fosse Ardeatine. La sua vicenda è stata ricostruita di recente da Gerardo Severino nel libro L’angelo del Tiburtino.
Giuseppe si è battuto in questi anni affinché la memoria di quei fatti non si spegnesse, partecipando a tutte le commemorazioni e non smettendo mai di raccontare la sua storia nelle scuole e nelle piazze. Anche lui era un Testimone. Il suo impegno e gli atti di eroismo del padre saranno ricordati il 16 ottobre, alle ore 17, all’Isola Tiberina, presso l’Ospedale Fatebenefratelli.

(L'Unione Informa e moked.it dell'8 ottobre 2013)

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Storie – La dimenticanza del Miur sui Triangoli rossi

di Mario Avagliano

Segnala Tiziana Valpiana, vicepresidente nazionale dell’Aned, che ancora una volta lo Stato si è dimenticato dei deportati politici, che nei lager venivano contrassegnati con un triangolo rosso. Lo attesta una comunicazione inviata in questi giorni dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca alle scuole e relativa ad un corso di aggiornamento "Storia e didattica della Shoah" organizzato dalla Rete Universitaria per il Giorno della Memoria e rivolto a insegnanti delle scuole secondarie di primo e secondo grado, in cui si citano solo “le vittime della Shoah, i militari italiani internati per via del loro rifiuto di aderire alla milizia nazi-fascista e, infine, qualsiasi persona discriminata su base etnica, razziale, religiosa o sessuale".
Com’è noto, la Legge istitutiva del Giorno della Memoria del 20 luglio 2000, n. 211, all’articolo 2 recita testualmente: “In occasione del Giorno della Memoria di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere”. All’epoca alcuni parlamentari, tra cui la stessa Valpiana, s’impegnarono per far includere nella memoria anche i deportati politici e gli internati militari. Altri emendamenti che intendevano nominare anche gli zingari, gli omosessuali, i testimoni di Geova e altre categorie purtroppo non furono approvati, anche se è evidente che lo spirito della legge è quello di ricordare la tragedia della deportazione e dello sterminio nella sua globalità.
E’ ovvio che un corso di aggiornamento rivolto agli insegnanti, che si tiene sotto l’egida del Ministero, non possa, anzi non debba ignorare la deportazione politica e con essa l’antifascismo e la Resistenza. In verità questa dimenticanza non è una grande novità. Il silenzio delle istituzioni sulle vicende della deportazione politica e dell’internamento militare è durato decenni.
L’occasione del 70° anniversario della resistenza e del 75° delle leggi razziali è propizia per proporre a chi di dovere che d’ora in poi la formazione degli insegnanti su questo tema, prendendo spunto da un acuto saggio di Claudio Vercelli, punti ad analizzare il tema complessivo delle “deportazioni” e dell’universo concentrazionario nazista, nel quale finirono, con diverse gradazioni di trattamento e di condizioni, ebrei, zingari, omosessuali, Testimoni di Geova, politici, militari, malati di mente, resistenti, handicappati, renitenti alla leva, disertori. La stessa Valpiana sottolinea che non si tratta di fare “una graduatoria fra gli orrori”. Tuttavia anche la memoria della Shoah sarebbe monca se non si studiasse il sistema che la generò, che tendeva ad isolare e perseguitare tutte le diversità, tutti coloro che “deviavano” in qualche modo da quel modello di società “ariana” e dal pensiero unico imposto dal nazismo e dal fascismo.

(L'Unione Informa e portale Moked.it, 15 ottobre 2013)

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Storie - La "sorella" di Anne Frank

di Mario Avagliano

All’inizio degli anni Quaranta due ragazzine, una dai capelli neri acconciati con cura, che indossava “sempre bluse e gonne immacolate con calzettoni bianchi e lucide scarpe di vernice”, l’altra “un maschiaccio biondo”, con i vestiti in disordine che giocava a biglie e faceva capriole sulla piazza, giocavano allegre per le strade di Merwedeplein, ad Amsterdam. Anne Frank ed Eva Schloss erano nel pieno dell’adolescenza e non immaginavano quale sarebbe stato il loro futuro. Di Anne sappiamo tutto, anche grazie al suo straordinario diario. La storia di Eva, invece, almeno in Italia, è ignota a molti, e ce la racconta lei stessa nel libro Sopravvissuta ad Auschwitz (Newton Compton Editori), arrivato in questi giorni in libreria. Nelle pagine della sua memoria scorrono le immagini della sua infanzia in Austria, della campagna antisemita, dell’avvento dei nazisti e della fuga nel 1938 in Belgio e poi in Olanda, dove Eva stringe amicizia con la loquace Anne, che conquista tutti con le sue storie e il suo eloquio brillante e che scherzosamente le amiche chiamano “Signora Qua Qua”.
I tempi felici non sono destinati a durare. Nel maggio del 1940 i tedeschi invadono l’Olanda e già a partire da agosto emanano le prime leggi contro gli ebrei. Due anni dopo, scatta l’imposizione di portare sugli abiti una stella di David gialla, con la scritta Jood, e la famiglia Schloss, come tante altre, decide di entrare in clandestinità. L’11 maggio 1944, però, giorno del suo quindicesimo compleanno, a causa di una delazione Eva viene arrestata dai nazisti assieme alla madre Fritzi e deportata ad Auschwitz. La sua salvezza è merito in parte del caso e in parte della forza di volontà della mamma, che nel lager lotta con tutte le sue forse per proteggerla. Quando nel gennaio del 1945 il campo viene liberato dall’Armata Rossa, Eva torna a casa con la madre e inizia la ricerca disperata del padre e del fratello maggiore Heinz, che purtroppo sono morti. Ad Amsterdam, però, il suo destino s’incrocia di nuovo con Anne Frank, o meglio con ìl padre di lei Otto, che intreccia una relazione sentimentale con la madre Fritzi, che poi sfocia nel 1953 nel matrimonio. Incredibilmente, quindi, la sua vita si lega di nuovo a quella ragazzina dai capelli scuri conosciuta anni prima. Nel 1986, trasferitasi a Londra da quarant’anni, Eva, che ha lavorato come fotografa professionista, usando all’inizio la Leica con cui Otto Frank aveva immortalato la sua Anne, all’inaugurazione di una mostra itinerante su Anne Frank per la prima volta racconta la sua storia. Da quel momento in poi diventa una Testimone e inizia a girare il mondo per far conoscere la sua esperienza, a cui è stata dedicata anche la pièce teatrale And They Came for Me: Remembering the World of Anne Frank.

(L'Unione Informa e moked.it del 22 ottobre 2013)

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Storie – Amore al tempo della Shoah

di Mario Avagliano

Una storia d’amore al tempo della Shoah. Siamo nella Francia occupata dalle truppe naziste. La promessa della bella Fernande e del poeta André (figura ispirata a Jean Cocteau) è un gesto sentimentale e di speranza: se sopravvivranno alle persecuzioni naziste, torneranno insieme nella villa sotto il faro bianco, a picco sul mare del sud.
Dopo Conta le stelle, se puoi, in cui aveva cancellato la guerra e l’olocausto per regalare ai suoi personaggi un destino diverso e piú giusto, Elena Loewenthal nel suo nuovo libro, La lenta nevicata dei giorni (Einaudi), il cui titolo richiama una poesia di Primo Levi, racconta di nuovo quel buco nero della Storia, durante e dopo, tra Parigi, la Costa Azzurra e l’Europa infiammata dalla guerra.

Un mondo in cui, nonostante tutto, al centro di ogni moto resta la vita, che attecchisce anche in quel deserto dei sentimenti imposto da Hitler e dai suoi scherani.

(L'Unione Informa e Moked.it del 5 novembre 2013)

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