Storie – Germania 1945: sconfitta o liberata?

di Mario Avagliano

Il settantesimo anniversario del crollo del Terzo Reich, caduto l’8 e il 9 maggio scorso, ripropone un interrogativo storico sul giudizio del popolo tedesco su quel momento: si sentirono sconfitti o liberati?
A riflettere su questo tema, è stato Gerhard Hirschfeld, professore allo Historisches Institut dell’Università di Stoccarda, uno dei massimi storici tedeschi contemporanei, in una lezione tenuta al Festival “È storia” a Gorizia qualche giorno fa.
Secondo Hirschfeld , nella Germania del 1945 inizialmente per la maggioranza dei tedeschi la fine del Terzo Reich non fu vissuta come una liberazione ma come una tragica sconfitta. “Anche molte persone per bene, uomini e donne, considerarono la fine del regime di Hitler una catastrofe, una rovina”, ha affermato lo storico.
Simili furono i sentimenti di milioni di soldati tedeschi. Come testimoniano molti appunti e diari dell’epoca, “non pochi cittadini si sentirono prigionieri di un’atmosfera da fine del mondo. Altri si abbandonarono all’autocommiserazione ed al pianto”.
Non per tutti fu così. Diversa fu la reazione degli oppositori e delle vittime del nazismo, per i quali il tramonto della dittatura rappresentò l’agognata liberazione: i perseguitati, gli esiliati, i prigionieri politici e ovviamente i sopravvissuti dei lager, ebrei e non ebrei, nonché i milioni di stranieri prigionieri di guerra o costretti al lavoro coatto in Germania.
Ma i tedeschi oppositori del nazismo “erano solo una minoranza”, osserva Hirschfeld. La maggior parte dei tedeschi aveva condiviso la strategia di superiorità della Germania perseguita da Hitler, con una “fede quasi religiosa” nella sua onnipotenza. Avrebbero impiegato molto tempo per capire che quella sconfitta era in realtà una liberazione e conteneva in sé “il germoglio della speranza in un futuro migliore”, come disse in un celebre discorso del 1985 il presidente della Repubblica Federale Richard von Weizsäcker.

(L'Unione Informa e Moked.it, 26 maggio 2015)

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Storie – Il 4 giugno del 1944 e la liberazione di Roma

di Mario Avagliano

Anniversari da ricordare. Il 4 giugno del 1944 Roma viene liberata dagli Alleati. “Si grida nella strada e si applaude al loro passaggio: Roma è libera e i tedeschi se ne sono andati”, è l’esplosione di gioia di Mario Tagliacozzo nel suo diario (Metà della vita, Baldini e Castoldi). “Non so più scrivere, non so più dire le mie impressioni: 9 mesi di lotte, di prigionia, di incubi, ed ora in un minuto tutto è finito. Roma è libera… anche noi siamo liberi… (…) La città echeggia di grida. Siamo tutti eccitati, siamo dei ragazzi scatenati e ci abbandoniamo alla nostra gioia, alla nostra emozione. Ho le lacrime in pelle; vorrei correre, vorrei uscire, vorrei parlare con tutti, vorrei poter gridare a tutti la mia gioia piena, sconfinata”.

In quelle ore, nelle menti e nei cuori degli ebrei romani rimbomba ancora l’eco della maxi-retata del 16 ottobre 1943 e della caccia all’uomo scatenata da nazisti e fascisti. E così la mattina dopo Tagliacozzo annota: “Troppe sono state le emozioni di ieri sera e ci sembra a tutti di sognare. Tutta la nera cappa di preoccupazioni e di terrori è caduta di colpo ed ora siamo liberi, possiamo respirare a pieni polmoni, gridare a piena voce, ridere e gioire. Se dovremo ancora soffrire, soffriremo come gli altri, ma non saremo più diversi dagli altri italiani e, senza temere, potremo gridare alto il nostro nome”.
E’ la fine di un incubo. Ma non la fine del dolore per la comunità romana: per i tanti, troppi parenti e amici scomparsi nella “notte e nebbia” del Reich. “Una nota di tristezza è in noi a velare la nostra gioia: mancano ancora Elena, Vito e Paolo; quando torneranno tra noi?”

(L'Unione Informa e portale Moked.it, 4 giugno 2013)

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Storie – I 100 anni di Priebke e le falsità su via Rasella

di Mario Avagliano

C’è un filo nero che lega gli annunciati imminenti festeggiamenti per i 100 anni di Erich Priebke, uno dei boia delle Fosse Ardeatine, e le polemiche su via Rasella sollevate da Pippo Baudo in una trasmissione Rai di prima serata.
Da un lato il criminale di guerra nazista, al quale Herbert Kappler assegnò il compito di controllare le liste dei condannati a morte dell’eccidio delle Ardeatine (che alla fine furono 335, cinque in più del già assurdo rapporto di 1/10 ordinato a Berlino), che non si è mai pentito di quello che ha fatto e ora gode in Italia di un regime di semilibertà, passeggia impunemente per le vie di Roma e viene considerato un’icona dai suoi fan, che lo chiamano Il Capitano.
Dall’altro la tv pubblica, che sposa, senza alcun contraddittorio, le tesi di “atto terroristico” riguardo all’azione di via Rasella, dando voce al falso storico della richiesta di consegnarsi che sarebbe stata rivolta ai partigiani gappisti autori dell’azione.
Sui festeggiamenti di Priebke che, secondo quanto scrive il Corriere della Sera, sarebbero in via di organizzazione, in gran segreto, il giorno 29 luglio da parte del suo avvocato Paolo Giachini, si sono registrate le dure reazioni di esponenti della Comunità Ebraica di Roma, dell’Anpi, dell’Aned e dell’Anfim. “C’è poco da festeggiare”, ha giustamente scritto il vicepresidente Eugenio Iafrate sul profilo di Facebook dell’Aned. E se la festa si farà, in molti sono pronti a mobilitarsi.

Sul caso di via Rasella, l’Anpi ha criticato aspramente Baudo e i dirigenti di Viale Mazzini, ricordando le sentenze della Corte di Cassazione e di altri Tribunali che hanno stabilito che si trattò di “un legittimo atto di guerra” e la deposizione di Albert Kesserling al processo Kappler, nella quale il feldmaresciallo tedesco ammetteva che non fu rivolto alcun appello alla popolazione romana o ai responsabili dell'attentato prima di ordinare la rappresaglia
Ora forse ci sarà una trasmissione riparatrice. Ecco il post pubblicato sul profilo FB dell’Anpi nazionale: "Caso Pippo Baudo-Via Rasella: la RAI prospetta la possibilità di chiarire la vicenda in uno spazio apposito nella rubrica del mattino, (“Agorà”), che va in onda dalle 8 alle 10. Ovviamente, abbiamo rifiutato, perché il pubblico di quello spazio è molto diverso da quello serale e stiamo insistendo per una vera rettifica e non ci acquieteremo fino a quando non sarà stata ristabilita la verità".
Ma quanti danni sono già stati fatti alla memoria storica del nostro Paese, con tanti italiani che considerano Priebke “un soldato che ha fatto il proprio dovere” (parola di Mario Merlino, uno dei suoi fan, conosciuto come “Il professore nero”) e i partigiani come dei violenti terroristi?

(L'Unione Informa e il portale Moked.it del 23 luglio 2013)

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Storie - I dimenticati dell'8 settembre

di Mario Avagliano

L’8 settembre 1943 non è una data qualsiasi del calendario della memoria dell’Italia. Settant’anni fa l’annuncio dell’armistizio segnò davvero una svolta, aprendo la strada al riscatto di una nazione che aveva conosciuto vent’anni di dittatura fascista, la soppressione delle libertà politiche e civili e le leggi razziali, e si era alleata con la Germania di Adolf Hitler.
Anche in questo anniversario, si è parlato troppo poco della vicenda dei circa 650 mila internati militari italiani che rifiutarono di aderire alle SS tedesche e poi all’esercito della Rsi del redivivo Mussolini, pagando la loro scelta con il campo di concentramento, il lavoro obbligatorio e, a volte, con la morte, a seguito degli stenti, delle malattie, della fame o del comportamento brutale dei carcerieri tedeschi.

Eppure la loro fu una scelta di resistenza, un tentativo di salvare l’Italia, di non farla tornare ad essere “una semplice espressione geografica”, restituendole un ”governo democratico”, come chiarisce uno di loro, il sottotenente friulano degli Alpini Giovanni Malisani, in una pagina del suo diario dell’epoca, che sarà presentato il prossimo 20 settembre a Udine.
Un’altra storia poco conosciuta è quella dei militari italiani prigionieri nei campi degli Alleati che all’indomani dell’armistizio decisero, non senza difficoltà ed ostacoli da parte degli angloamericani, di cooperare alla lotta per la libertà. Così commentava la fine della guerra uno di loro, il calabrese Antonino Corigliano, da un campo di prigionia in India, nel suo taccuino pubblicato dal figlio Gregorio (I diari di mio padre 1938-1946, Luigi Pellegrini Editore): “Le forze del bene hanno trionfato su quelle del male, schiacciando i serpenti che, con le loro spire, tentavano di stritolare le potenze amanti della pace, del lavoro e della libertà. Ed a fianco di questi popoli forti e vittoriosi, ha marciato in 20 mesi di lotta il popolo italiano, togliendo una parte di quel fango che ci era stato gettato, da parte di un regime d’oppressione e di falsità”.

È proprio grazie agli internati militari, ai cooperatori, alle forze armate del ricostituito esercito italiano del Regno del Sud, ai deportati politici e, naturalmente, ai partigiani (tra i quali ci furono tantissimi ebrei), che l’8 settembre non fu la data della vergogna o della morte dell’Italia, bensì della sua rinascita.
Ma l’armistizio, come ha sottolineato giustamente Anna Foa, a seguito dell’occupazione tedesca e della politica razzista della Repubblica Sociale di Mussolini, nelle regioni del centro-nord segnò anche il tragico passaggio dalla persecuzione dei diritti alla persecuzione delle vite degli ebrei. Alla quale collaborarono molti loro connazionali italiani, così come avevano fatto al tempo dell’applicazione delle leggi razziali. Anche questo va ricordato.

(L'Unione Informa e il portale moked.it del 10 settembre 2013)

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Il pallone di pezza. Accadde a Buccino il 16 settembre 1943

Tra sorriso e commozione, Il pallone di pezza è la messa in scena di un evento rimasto per decenni confinato nella memoria familiare di una piccola cittadina salernitana, Buccino, e in quell’enorme archivio di ricordi che è la seconda guerra mondiale. Ma è un evento che appartiene alla storia di tutti, non solo della comunità buccinese. Prodotto da Assoteatro, Il pallone di pezza, in programma a Roma, presso l'UTS – Upter Teatro Studio (via Portuense), il 19 ottobre alle ore 21 e il 20 ottobre alle ore 18, è scritto e interpretato da Claudio Lardo.
E’ il 16 settembre del 1943. Gli uomini sono al fronte, anziani donne e bambini sono a casa, in un luogo che sembra protetto dalle montagne che lo circondano e dalla pianura che lo separa dalle rotte del conflitto. Come ogni giorno, nella piazza del paese, i più piccoli si danno appuntamento per un rito che appartiene alla normalità della vita quotidiana: la partita di pallone.
Si gioca con un pallone di pezza, con scarpe che non sono quelle dei calciatori, sul fondo di pietra della piazza che non è propriamente un manto erboso, ma è come se lo fosse.

Nell’immaginazione dei ragazzi, i padri sono sugli spalti a guardarli anche se non ci sono spalti e i padri sono in guerra. Un aereo sorvola il paese. Non è la prima volta che accade. A pilotarlo è un tedesco, un italiano, un inglese, un americano? Nel rimescolamento di alleanze seguito all’armistizio non si sa chi è nemico e chi è amico, ma i bambini sono abituati a salutare ogni aereo che passa, non conoscono le insegne militari e nemmeno si pongono il problema di chi ci sia a bordo. La partita, appena iniziata, si interromperà di colpo, con un risultato che non premierà nessuna delle due formazioni, sette contro sette. Non c’è un vincitore, non c’è uno sconfitto. Non è neppure pareggio. Perderanno tutte e due le squadre.L’episodio dei bambini di Buccino è stato rimosso per decenni, fino a quando nel 2004 Enzo Landolfi pubblica Vite in gioco, un libro di racconti dedicati a persone, avvenimenti, imprese, che esaltano lo sport come valore assoluto. Il primo dei racconti di Landolfi è dedicato ai bambini che giocavano con un pallone di pezza nella piazza di Buccino, suo paese natale, il 16 settembre 1943.
Claudio Lardo racconta la storia di quella partita in uno spettacolo che recupera l’evento e le testimonianze, ne ricompone la trama, ne ricostruisce il contesto, storico affettivo e materiale, restituendo a quei nomi e a quelle vite la dignità di protagonisti.
Scritto da Claudio Lardo con Enzo Landolfi e la collaborazione di Giampiero Moncada, per la regia di Vito Cesaro, Il pallone di pezza è stato messo in scena per la prima volta a 70 anni esatti dall’episodio, proprio a Buccino, il 14 settembre, nella chiesa di Sant’Antonio, nel quattrocentesco convento agostiniano edificato sulle mura dell’antica Volcei. Per un giorno l’abside della chiesa è divenuta la scena di uno spettacolo che tratta di un sentimento autentico, la pietas, che non vuol dire accettazione passiva del destino ma rispetto per chi viene oscurato e dimenticato dalla storia.

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Canova, quelle urla dal buio trasformate in pittura

di Mario Avagliano

L’arte pittorica ha una forza evocativa di denuncia degli orrori della Storia che spesso travalica le altre forme artistiche, comprese la letteratura e il cinema. Guernica di Pablo Picasso resterà per sempre scolpito nella memoria della cultura occidentale come opera di condanna delle bombe sui civili. Una voce modernissima, eppure in questi suoi aspetti ancora misconosciuta, è quella del grande incisore e pittore Bruno Canova, classe 1925, bolognese di nascita e romano d’adozione (amava la periferia della capitale e aveva scelto di vivere a Centocelle), scomparso lo scorso anno. Al suo straordinario ciclo di opere sul fascismo, le leggi razziste del 1938, la Shoah e la seconda guerra mondiale, sarà dedicata una preziosa mostra nel museo romano del Casino dei Principi di Villa Torlonia, che sarà inaugurata il 14 dicembre fino al 26 gennaio 2014, dal titolo Bruno Canova. La memoria di chi non dimentica (aperta tutti i giorni, dalle ore 9 alle 19).

La mostra, promossa dall’Assessorato alla Cultura del Comune e dalla Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e curata da Maurizio Calvesi, uno dei massimi storici dell’arte viventi, cade significativamente nel 70° anniversario della Resistenza e nel 75° delle leggi razziali. Essa raccoglie una selezione di disegni, quadri e bassorilievi di Canova, che fu uno degli esponenti più apprezzati della cosiddetta Scuola Romana tra gli anni Sessanta e Settanta, frequentando, tra gli altri, Mario Mafai, Alberto Ziveri, Renato Guttuso, Renzo Vespignani, Ugo Attardi, Pier Paolo Pasolini. Arrestato nel 1944 per avere tentato di organizzare un nucleo partigiano a La Spezia e internato in un campo di lavoro tedesco nei Sudeti, Bruno Canova, dopo essere stato testimone in prima persona degli orrori delle dittature e della guerra, adoperò il linguaggio delle arti visive affinché le generazioni future non corressero il rischio di perderne la memoria. Nel lavoro dell’artista hanno dunque importanza particolare le opere dedicate alle leggi razziste del 1938, alla persecuzione degli ebrei e alla Shoah, di intensa forza espressiva e dolente partecipazione, in cui i simboli non sono fredde evocazioni ma testimonianza drammatica di una sofferta capacità di evocare fatti talmente spaventosi da giungere alla soglia dell’indicibile. Come scrive Calvesi nell’introduzione del catalogo, “questo è evidente soprattutto nelle emozionanti tavole trattate a collage e tecnica mista, grandi anche di misura, come urlate da una voce che viene dal buio mai dimenticato, un buio che sa farsi pittura, straordinariamente efficaci nell'uso non formalistico ma anche documentario del collage: degne assolutamente di costituire il nucleo artistico (insieme a pochissimi altri esempi) di un museo dedicato alla memoria della Shoah e agli orrori della guerra”. A questo scopo sono previsti, durante tutto il periodo di apertura, incontri didattici con gli studenti delle scuole della capitale dedicati alle questioni storiche affrontate dalle opere esposte. Il ciclo di opere presentato nella mostra, raccolto e ordinato dal figlio Lorenzo Canova, docente all’Università del Molise, fu eseguito in prevalenza tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta ed è stato portato avanti dall’artista fino al termine della sua vita, dando vita a un libro del 1972 e a una mostra itinerante in moltissime città italiane. In questi lavori Canova unisce la sua formazione di avanguardia, legata alla grafica di Albe Steiner, Max Huber e alla fotografia di Luigi Veronesi, a una personale rielaborazione del collage futurista e dadaista e alla sua vocazione iconica di disegnatore e pittore. Dopo lunghe ricerche storiche, Canova utilizzò manifesti, ritagli di giornale e documenti originali inseriti nel corpo dell’opera, elementi verbali e visivi, campiture quasi informali, disegni e parti dipinte. Dimostrando di essere non solo un artista innovativo ma un pioniere della denuncia delle responsabilità italiane nella vicenda della persecuzione degli ebrei. Una pagina nera della nostra storia ancora dimenticata, che questa eccezionale mostra ci sbatte in faccia con la forza, i colori e l’energia della pittura e dei documenti.

(Il Messaggero, 14 dicembre 2013)

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Storie – Il complesso di Sciesopoli e gli 800 bambini sopravvissuti alla Shoah

di Mario Avagliano

Nell’immediato dopoguerra, tra il 1945 e il 1948, a Selvino, graziosa cittadina del bergamasco, in Val Seriana, il complesso architettonico di "Sciesopoli", inaugurato nel 1933 dal regime fascista come colonia montana dei Figli della Lupa e dei Balilla, venne adibito a rifugio e centro di riabilitazione ed educativo per 800 bambini ebrei orfani provenienti da ogni parte d'Europa, sopravvissuti ai campi di sterminio e alla Shoah, che in gran parte poi si trasferirono in Palestina. Ora quel luogo della Memoria è a rischio di distruzione.
Il complesso di Sciesopoli, come ha ricostruito il ricercatore Marco Cavallarin, fu progettato dal celebre architetto razionalista Paolo Vietti-Violi e costruito con le più avanzate tecnologie del tempo, prendendo il nome da un eroe del Risorgimento, il calzolaio milanese Antonio Sciesa, ucciso nel 1840 in una sommossa contro gli austriaci. La colonia venne attrezzata con dormitori, refettori, una piscina, un cinema, un’infermeria, un parco verde di 17.000 metri quadrati e cortili per le adunate. Qui i ragazzi fascisti venivano addestrati ad essere futuri guerrieri del regime.

Caduto il fascismo e finita la guerra, nel settembre del 1945 una delegazione guidata da Raffaele Cantoni, presidente della Comunità Ebraica di Milano, e da Moshe Ze’iri, membro della Brigata Ebraica (poi diventato direttore della Casa), si recò negli uffici di Luigi Gorini, esponente del partito socialista nonché chimico di chiara fama (uno dei pochi docenti che, sotto il regime mussoliniano, aveva rifiutato di prestare il giuramento di fedeltà al fascismo), delegato dal Cln di Milano a controllare i beni requisiti, e ottenne la colonia “Sciesopoli” per i bambini ebrei rimasti orfani e sopravvissuti alla Shoah. Così centinaia di giovani profughi ebrei giunsero a Selvino da ogni parte d’Europa e vi trovarono “un paradiso a lungo sognato, un castello da fiaba e a fatica si rendono conto di essere liberi, rinati a nuova vita”, come ha scritto Aharon Megged nel 1997 nel suo libro Il Viaggio verso la Terra Promessa (edizioni Mazzotta). La popolazione di Selvino, guidata dal sindaco Emilio Grigis, l’ex partigiano “Moca”, li accolse con generosità e, assieme ai volontari della Brigata Ebraica e della comunità ebraica milanese, ridonò loro il sorriso. Qui impararono l’ebraico e ritrovarono la speranza e la voglia di vivere. Nella sala da pranzo del complesso, campeggiava una grande scritta: " I giovani sono il futuro del nostro popolo". E infatti quei bambini furono tra gli oltre 25.000 ebrei sopravvissuti alle persecuzioni naziste e fasciste che, tra la fine del 1945 e il novembre del 1948, partirono clandestinamente dalle coste italiane in direzione della Palestina mandataria dove si stava costruendo il futuro Stato di Israele. Cinque di loro moriranno nella guerra di indipendenza del 1948. Successivamente “Sciesopoli”, fino al 1984, divenne un centro di accoglienza per bambini disagiati. Nel 1983 un gruppo di sessantasei ebrei che erano stati profughi nel complesso fece ritorno a Selvino, accolti dal sindaco Vinicio Grigis e dalla popolazione della cittadina. A seguito di quel viaggio si stabilì il gemellaggio tra il Comune di Selvino e il kibbutz Tze’elim, nel Neghev, dove molti dei “bambini di Selvino” si erano man mano stabiliti a partire dal 1946. Su iniziativa di Marco Cavallarin e di Miriam Bisk, figlia di Lola e Salek Najman, due profughi ebrei che lavorarono come volontari a Sciesopoli, nei giorni scorsi è partita una raccolta di firme per salvare il complesso, che ora è in stato di abbandono, e trasformarlo in un Memoriale dei Bambini di Selvino, che ricordi i giovani sopravvissuti ai lager e onori il generoso popolo selvinese e delle contrade limitrofe e le organizzazioni ebraiche italiane e internazionali che li soccorsero, li assistettero e organizzarono i viaggi in Palestina. La petizione è indirizzata al presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, al presidente della Provincia di Bergamo, Ettore Pirovano, e al sindaco di Selvino, Carmelo Ghilardi. Il comitato promotore, del quale, oltre a Cavallarin e a Miriam Bisk, fanno parte Carlo Spartaco Capogrego, Massimo Castoldi, Grazia Di Veroli, Walker Meghnagi, Valerio Onida, Patrizia Ottolenghi, Giorgio Sacerdoti, Carlo Smuraglia e Dario Venegoni e alcuni ex bambini di Sciesopoli o loro discendenti, propone agli enti di promuovere un progetto capace di preservare quella pagina di storia, come ad esempio un Museo Europeo dell’Aliyah Beth, dell’immigrazione clandestina in Palestina dopo la Shoah. Come far pervenire le adesioni? Ci sono diversi modi, ma la più diretta è scrivere a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., indicando nome, cognome, qualifica professionale e/o etico/associativa, città di residenza. Oppure sul sito di avaaz.org (un sito per petizioni) o sulla pagina di Facebook dedicata all’iniziativa.

(L'Unione Informa e Moked.it del 31 dicembre 2013)

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Storie - Il messaggio nella bottiglia di Gianfranco Moscati

di Mario Avagliano

In una delle 43 storie del libro “Racconti ebraici” di Gianfranco Moscati e Gustavo Ottolenghi si parla della testimonianza dell’ebrea polacca Rachel Igenfeld. Dopo la fuga e l’esilio in Svizzera per sfuggire alla cattura dei nazifascisti, nel 1945 Moscati rientrò a Milano e collaborò con il Servizio Ricerche Deportati, che aveva sede a Roma. Entrò così in possesso di una ventina di appelli della giovane Rachel, rimasta vedova nel ghetto di Varsavia, che mise in salvo la sua piccola neonata Italaja lasciandola dentro un cesto nella foresta con un biglietto con su scritto: “La bimba è battezzata e si chiama Leonka”.
Quando nella zona arrivarono i russi, malgrado il loro intervento, Rachel non riuscì a riavere la sua bambina, di cui aveva continuato a seguire la vita presso la famiglia che l’aveva adottata. Finita la guerra, Rachel Igenfeld col secondo marito Shlomo Bassermann si trasferì in Austria, poi in Germania e infine in Canada, a Toronto. Di qui il 16 novembre 1949 scrisse al Comitato Ricerche di Roma una lettera riprodotta nel libro di Moscati: un accorato appello alle autorità civili e religiose ebraiche e cattoliche per riabbracciare la propria creatura.

Una storia che, come sottolinea Moscati, ricorda per certi versi quella di Mosè, che venne salvato dagli eccidi del faraone d’Egitto grazie al gesto della madre, che lo mise in un canestro sulla riva del fiume Nilo, e fu adottato dalla regina d’Egitto. “Io purtroppo non parlo l’inglese – ha scritto in una lettera Moscati – e cosa più grave non so utilizzare il computer. Tra pochi giorni entrerò nel 90° anno ed ho pensato che il più bel regalo che i miei amici potrebbero farmi, sarà che possiate lanciare messaggi in tutto il mondo, riuscendo, mi auguro, a rintracciare Italaja che oggi dovrebbe avere circa 71 anni e dovrebbe trovarsi in Polonia”. Un messaggio nella “bottiglia” di Internet, che speriamo venga raccolto da qualcuno.

(L'Unione Informa e Moked.it del 14 gennaio 2014)

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