16 ottobre con il Presidente Monti: "Mai più soli di fronte a chi pratica l'odio"

di Adam Smulevich e Lucilla Efrati

   “Non c'è futuro senza Memoria”. Uno slogan che ha accompagnato l'intensa giornata vissuta ieri a Roma con la marcia della Memoria in ricordo del rastrellamento nazifascista al Portico d'Ottavia, la visita del presidente del Consiglio Mario Monti ai locali del Tempio Maggiore e del Museo Ebraico e la presentazione del disegno di legge contro il negazionismo al Senato.
Accolto all'ingresso del Tempio spagnolo dal presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna, dal presidente della Comunità ebraica capitolina Riccardo Pacifici e dal rabbino capo rav Riccardo Di Segni, il presidente del Consiglio ha pronunciato parole di grande significato e spessore. “La presenza ebraica in Italia, forte in questa città di oltre 2mila anni di storia – il messaggio del professore – è un fattore di ricchezza per tutta la collettività come testimonia il lavoro svolto per il bene e per il progresso comune da numerosi esponenti di questa antichissima e radicata realtà. Dall'economista Franco Modigliani al rabbino emerito Elio Toaff, grandi uomini e protagonisti del nostro tempo che è un onore poter ricordare in questa circostanza”. Assieme a Monti, a testimoniare l'impegno nel segno della coesione, dell'unità e dell'integrazione di tutta la squadra di governo, i ministri Severino, Riccardi e Barca. Seduti al loro fianco i Testimoni romani della Shoah e i familiari di Shlomo Venezia.

Rivolgendosi alla platea, prima negli spazi più intimi del Tempio Spagnolo – dove era presente anche una delegazione della Jewish Federation of North America guidata da Richard Sandler e Cindy Shapira – e successivamente a Largo 16 ottobre, di fronte alle migliaia di persone ritrovatesi in piazza per non dimenticare gli accadimenti di quel terribile autunno del 1943, Monti ha rassicurato gli ebrei italiani (“Non vi lascio soli davanti a forme di negazionismo, revisionismo o minimizzazione della Shoah”) per poi soffermarsi sulle insidie striscianti dell'antisemitismo, sia esso palese o abilmente mascherato sotto altre vesti (“Faccio mie le parole del Capo dello Stato: No all’antisemitismo anche quando esso si traveste da antisionismo”) e quindi chiamare a un forte e consapevole impegno tutti quei cittadini che si riconoscono nei valori democratici affinché non lascino tregua a chi, sfruttando un momento di crisi non soltanto economica ma anche morale, propugna odio e violenza verso le identità 'altre' – immigrati, rom, omosessuali. Identità presenti in gran numero alla marcia della Memoria, come ha sottolineato il leader di Sant'Egidio Marco Impagliazzo ricordando il crescente consenso che negli anni ha accolto questo appuntamento.
Sicurezza e speranza. Queste le due richieste del rabbino capo al presidente del Consiglio. “Non possiamo dimenticare – ha spiegato rav Di Segni – che l'uomo è capace di arrivare all'abisso dell'abiezione e che il male è dentro di noi e tutto intorno a noi. La partecipazione di così tante persone a questo evento testimonia una presa di coscienza fondamentale che ci aiuterà a combattere chi semina odio”. Un pensiero condiviso dal presidente Pacifici: “Oggi – scandisce soffermandosi sui vari momenti che hanno caratterizzato la giornata – abbiamo scritto una pagina storica per il nostro paese.
Oggi, consapevoli della vicinanza delle istituzioni, riaffermiamo il fatto che gli ebrei non hanno paura, non si fermeranno, non chineranno più la testa di fronte ai loro nemici”. “In questa serata così emozionante e significativa – aveva precedentemente affermato Renzo Gattegna, affiancato sul palco dal vicepresidente UCEI Roberto Jarach – voglio rivolgere un pensiero deferente e affettuoso ai Testimoni della Shoah le cui parole hanno illuminato e continuano a illuminare le coscienze di migliaia di giovani indicando a noi, alle nuove generazioni, ai nostri figli e ai nostri nipoti, la strada da seguire perché, attraverso la testimonianza e la conoscenza, quei crimini non abbiano a ripetersi mai più e contro chiunque”.
Consenso bipartisan all'introduzione di una legge sul negazionismo è stato intanto espresso dai senatori Gasparri, Finocchiaro, Amati e Malan nel corso di una conferenza stampa svoltasi ieri pomeriggio a Palazzo Madama. Ad aprire l'incontro le parole del presidente del Senato Renato Schifani. "Nelle nostre società evolute – il suo messaggio – troppe forme anche se ambigue e mascherate di razzismo e antisemitismo sono ancora presenti, anche se in ambiti limitati, ma non per questo meno insidiosi. Negare tendenziosamente la verità e minimizzare una delle più grandi tragedie umane del nostro tempo non è tollerabile. Anzi, deve essere perseguibile". Favorevole all'iniziativa anche la professoressa Donatella Di Cesare, autrice del recente saggio Se Auschwitz è nulla.

Il Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna durante
la cerimonia ha pronunciato il seguente discorso:

Illustre Presidente, Illustri autorità,
amici della Comunità di S. Egidio, cari amici presenti,
dopo la toccante cerimonia in ricordo di Stefano Gaj Taché con la presenza del Presidente della Repubblica, ci incontriamo oggi per un'altra commemorazione, quella della tragica deportazione di oltre mille ebrei romani il 16 ottobre del 1943. Sono stati due drammatici eventi molto diversi fra loro, decisamente incomparabili, ma che hanno avuto alcuni aspetti in comune. Innanzitutto il luogo, questo breve spazio che si estende tra il Portico di Ottavia e la piazza delle Cinque Scole, e poi le vittime.
Il 9 ottobre del 1982 è stato ucciso un bambino ebreo.
Il 16 ottobre del 1943 i nazisti, con la complicità e la correità del regime fascista, deportarono nei campi di sterminio intere famiglie e con esse molti bambini, nessuno dei quali fece più ritorno.
Questo cinico accanimento contro i bambini, alcuni addirittura neonati, è stato un comportamento ricorrente della barbarie nazista e fascista, un tratto distintivo di coloro che divennero seguaci di ideologie di stampo razzista e arrivarono ad annullare la propria umanità al punto di non riuscire più a riconoscere e a distinguere l'umanità delle altre persone.
La Shoah riguarda tutti.
Della Shoah gli ebrei sono stati le vittime predestinate, ma gli ebrei non sono, non vogliono essere e non saranno mai il popolo della Shoah.
I veri protagonisti sono stati tutti coloro che, con criminale ferocia, la idearono, la progettarono e la realizzarono, coloro che parteciparono assistendo a quei fatti compiacendosene o anche rimanendo indifferenti, videro e tacquero.
Gli ebrei, come vittime e come testimoni diretti, possono continuare ad offrire a tutte le persone in buona fede collaborazione per studiare e decifrare qualcosa che li ha coinvolti drammaticamente.
Voglio a questo proposito rivolgermi con deferenza e con affetto ai Testimoni della Shoah, alcuni dei quali sono qui con noi questa sera.
Le loro parole hanno illuminato e continuano a illuminare le coscienze di migliaia di giovani indicando a noi, alle nuove generazioni, ai nostri figli e ai nostri nipoti, la strada da seguire perché, attraverso la testimonianza e la conoscenza, quei crimini non abbiano a ripetersi mai più e contro chiunque.
Una promessa che rinnoviamo oggi, in questa piazza, dove pochi giorni fa due ali di folla hanno dato l'ultimo commosso saluto a Shlomo Venezia, l'uomo che ci ha spiegato a quale terribile compito fossero chiamati i Sonderkommando.
Ho detto che la Shoah non riguarda solo gli ebrei e voglio spiegare qual è il senso di questa affermazione.
La Shoah è stata il primo e il più grande sterminio programmato e attuato nell'era moderna al quale hanno concorso varie discipline: la filosofia, la storia, la teologia, la politica, la chimica, la fisica, la biologia, la medicina, l'antropologia ed altre ancora.
Tutte le branche del sapere umano sono state mobilitate e chiamate a contribuire per la realizzazione di quello che possiamo definire “lo sterminio perfetto”, “l'annientamento totale”.
Questa è la caratteristica speciale e innovativa della Shoah, l'aver creato il “modello del genocidio” e per questo costituisce ancora un pericolo per l'intera umanità.
È stata creata una nuova specie di virus di laboratorio che, se sfuggisse al controllo, potrebbe diffondere una nuova letale epidemia. Cari amici, per questo siamo qui tutti gli anni e ci incontriamo al di là e al di sopra delle nostre specificità e delle nostre diversità, per combattere questo comune nemico.
Dobbiamo sempre ricordarci che, se qualcosa è già avvenuto, potrebbe anche ripetersi in forme simili o in forme diverse ma che, dopo la Shoah, chiunque in futuro volesse ripercorrere una simile strada, ad essa certamente dovrebbe ispirarsi per la sua scientifica efficacia.
Voglio concludere parlando del presente.
Nell'attuale periodo storico penso di poter affermare che è apparso un nuovo sintomo che ci aiuta ad individuare più facilmente e più velocemente i nostri potenziali persecutori; sono coloro che si considerano gli eredi culturali e spirituali del nazismo e del fascismo, sono coloro che non si vergognano di proseguire, per ora solo sul piano della propaganda, quell'opera di annientamento.
Come i loro ispiratori e maestri tentarono di effettuare lo sterminio, provvedendo poi a cancellare le prove dei loro misfatti, così i proseliti di oggi vorrebbero proseguire il loro lavoro cancellando la memoria di ciò che è stato attraverso un sistematico impegno a negare che la Shoah sia avvenuta o quantomeno che sia stata di dimensioni inferiori.
Ad oggi l'antisemitismo è però un'insidia lontana dall'essere completamente debellata.
Una minaccia velenosa e strisciante che ha trovato nuove pericolosissime forme di espressione nella galassia del web e che, proprio per questa sua caratteristica, per l'apparente facilità del suo contagio, non deve essere sottovalutata ma anzi contrastata con sempre maggior forza ed efficacia.
È questa una sfida anche culturale come lei stesso, illustre presidente, affermò in occasione dell'ultimo Giorno della Memoria sottolineando, in un messaggio, la necessità sempre più stringente di vigilare affinché questi rigurgiti non intacchino gli sforzi compiuti dalla collettività in favore di un consolidamento della convivenza civile al quale stiamo tutti lavorando con grande slancio e intensità.
Negazionismo e antisemitismo non sono soltanto fenomeni odiosi in sé ma lo specchio di una crisi di valori che ci riguarda tutti da vicino e che richiede una nostra ferma risposta con gli strumenti e i mezzi più adeguati.

(L'Unione Informa, 17 ottobre 2012)

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Storie – I migranti del 1939 a Ventimiglia

di Mario Avagliano

Tra la fine del 1938 e il 1939 le leggi razziste costrinsero molti ebrei, specie stranieri, a lasciare l’Italia fascista. Una delle vie di fuga fu Ventimiglia, esattamente come avviene oggi per i migranti provenienti dall’Africa, in direzione della Francia, dove non c’era una dittatura, per poi eventualmente spiccare il volo verso la Gran Bretagna o gli Stati Uniti. Ma anche allora i francesi non gradivano l’intrusione e spesso respingevano i clandestini al confine.

Questa storia poco conosciuta viene raccontata da Paolo Veziano in “Ombre al confine. L’espatrio clandestino degli ebrei stranieri dalla Riviera dei Fiori alla Costa Azzurra 1938-1940″ (Fusta Editore), libro emozionante in cui, come scrive Alberto Cavaglion nella prefazione, “la figura geometrica dominante è la ‘serpentina’, o meglio bisognerebbe dire le serpentine, che da Ventimiglia conducevano i profughi ebrei in fuga dall’Italia fascista in direzione di Garavan, il quartiere di Mentone prossimo alla frontiera”.
Vicende drammatiche di famiglie sballottate tra l’Italia di Mussolini, che emanava provvedimenti di espulsione per gli ebrei stranieri e, cautamente, ne favoriva l’espatrio per liberarsi dalla loro presenza, e la Francia democratica che in realtà non li voleva, costringendoli ad entrare clandestinamente attraverso passaggi impervi, come il tristemente celebre “passo della morte” vicino al confine di Ponte San Luigi.
E anche all’epoca in quel traffico di uomini e di donne non mancavano persone senza scrupoli, gli scafisti degli anni Trenta, pescatori o non, che cercavano di trarre il massimo profitto da quei viaggi della speranza.
La storia si ripete. Tragicamente.

(L’Unione Informa e Moked.it del 23 giugno 2015)

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Storie - La guerra di Claudio, il finanziere buono

di Mario Avagliano

Nel pieno della bufera razzista e della caccia agli ebrei, in Italia vi furono funzionari delle forze dell’ordine che con dignità, altruismo e coraggio si opposero al disegno nazifascista. Una figura poco conosciuta è quella del finanziere Claudio Sacchelli, al quale di recente il Museo Storico della Guardia di Finanza ha dedicato una monografia, “La guerra di Claudio”, a cura di Luciano Luciani e Gerardo Severino.

Sacchetti, dopo l’8 settembre del 1943, trovandosi di stanza a Villa di Tirano, in Valtellina, in territorio di frontiera, aderì alla brigata partigiana locale “Gufi” e collaborò con l’organizzazione clandestina di assistenza agli ebrei messa su da Armida Morelli e Arturo Borserini, aiutando diversi perseguitati politici e molti profughi ebrei, quasi tutti provenienti da Balcani e internati tra il 1941 e il 1943 ad Aprica, ad espatriare nella vicina Svizzera, per sfuggire alla cattura da parte delle SS e della polizia fascista. Il finanziere inoltre ospitò e nascose a casa sua due anziani coniugi israeliti, facendoli passare per i genitori della moglie.
La sua attività “antitedesca e antifascista” purtroppo fu scoperta, forse su delazione anonima, e il 7 aprile 1944 Claudio Sacchetti fu arrestato dalle autorità tedesche e rinchiuso in carcere. Quindi fu deportato nel campo di concentramento di Fossoli, il 21 luglio trasferito a Bolzano, nel blocco D, destinato ai deportati politici con il triangolo rosso, e infine il 5 agosto destinato al lager di Mauthausen, dove morì il 1° maggio 1945, pochi giorni prima della liberazione.
A Claudio Sacchetti è stata concessa l’anno scorso la medaglia d’oro al merito civile alla memoria dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Un partigiano da ricordare, alla vigilia del 25 aprile.

(L'Unione Informa, 23 aprile 2013)

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Album di famiglia con nazi-genitori

di Mario Avagliano

Che cosa hanno in comune il fine intellettuale Günter Grass, premio Nobel della letteratura, e l’ispettore di polizia Derrick, alias Horst Tappert, l’attore che lo ha interpretato nelle celebre serie tv andata in onda dal 1974 al 1998? Entrambi avevano un passato nazista. E anche l’alter ego dell’ispettore, al pari di Grass, a venti anni fece parte delle SS, come ha riportato qualche giorno fa il Frankfurter Allgemeine Zeitung.

La notizia non deve aver sorpreso più di tanto i tedeschi, giunta com’è a cavallo dell’inaspettato successo della fiction Unsere Mütter, unsere Väter, ovvero Le nostre madri, i nostri padri, trasmessa sullo Zdf, il secondo canale tv tedesco, che secondo il settimanale Der Spiegel, grazie ad una martellante pubblicità, è già stata vista da più di 20 milioni di telespettatori.
Tre puntate dirette dal giovane regista Philipp Kadelbach, per un totale di 270 minuti, che hanno scosso il pubblico e provocato i commenti di critici cinematografici e di storici, provando a raccontare il passato scomodo e la complicità ai crimini del nazismo da parte dei tanti mamma e papà dei tedeschi di oggi. Sulla scia della serie tv, il popolare giornale berlinese Bz ha pubblicato tre pagine di confessioni di cento cittadini della capitale sotto il titolo “Cosa hai fatto tu”, illustrato da un elmetto con la svastica nazista.
Nel dopoguerra il processo di Norimberga condannò a morte i capi del nazismo, attribuendo le responsabilità essenzialmente ad Adolf Hitler e ai gerarchi del partito e delle SS. E così a lungo la storiografia tedesca ha ignorato le colpe della popolazione e perfino della Wehrmacht, l'esercito.
La correzione di rotta degli storici, che nell’ultimo ventennio hanno approfondito con studi, convegni e mostre il rapporto morboso che legò i tedeschi al nazismo, ora approda anche in tv. Il successo di pubblico della serie televisiva è nell’aver saputo confezionare, con i cliché di una normale fiction, un prodotto che mischia eventi storici reali e vicende private romanzate, narrando gli eccidi di civili compiuti dalla Wehrmacht sul fronte orientale e la complicità dei normali cittadini allo sterminio degli ebrei.
La fiction segue le vicende di cinque giovani berlinesi, tre ragazzi e due ragazze, che si trovano di fronte alle barbarie dei loro connazionali nazisti. Il messaggio di fondo è che le colpe non riguardarono solo i governanti di allora. I cattivi non furono sempre dei mostri riconoscibili, ma in moltissimi casi erano cittadini comuni, come aveva già scritto Hanna Arendt nel suo libro La banalità del male. Così nel film la bella e seducente infermiera, che all’apparenza sembra simpatica e dolce, non esita a denunciare la sua dottoressa perché ebrea, causandone la deportazione ad Auschwitz.
La serie televisiva ha anche provocato una polemica internazionale. I partigiani polacchi, infatti, vi vengono infatti dipinti come antisemiti, permettendo ad esempio che un treno proceda verso i campi di concentramento, nonostante intuiscano la presenza di ebrei sui vagoni. Alcune associazioni polacche hanno rivolto un appello al ministro degli Esteri Radoslaw Sikorski, chiedendo di adottare misure decise contro la diffusione di questa "serie televisiva diffamatoria". E il settimanale Uwazam Rze, in segno di protesta, ha sbattuto in copertina un fotomontaggio irriverente della cancelliera Angela Merkel vestita col pigiama a righe dei deportati nei lager e con il filo spinato sullo sfondo, titolando: "Falsificazione della storia: come i tedeschi si sono resi vittime della seconda guerra mondiale”.
Le polemiche hanno indotto l'ambasciatore polacco in Germania, Jerzy Marganski, a scrivere una lettera alla Zdf in cui spiega che "l'immagine della Polonia e della resistenza polacca agli occupanti tedeschi, così come raccontata dalla serie, è stata percepita dai cittadini polacchi come ingiusta e offensiva" e lamentando l’omissione di qualsiasi riferimento alla rivolta di Varsavia del 1944, in cui duecentomila civili polacchi persero la vita, di cui molti prestarono aiuto agli ebrei.
In Italia, Einaudi propone proprio ora il libro dello storico tedesco Götz Aly Perché i tedeschi? Perché gli ebrei? (pp. 284, euro 32), in cui tira in ballo il passato nazista di suo padre Ernst e dei suoi nonni e zii, spiegando attraverso le proprie vicende familiari come i tedeschi hanno sostenuto fino all’ultimo Hitler ed erano partecipi della Shoah. Da parte sua il settimanale inglese The Economist, in un articolo intitolato “Bentornati al Terzo Reich”, si interroga sullo strano fenomeno della ricomparsa sulla tv tedesca di veterani della seconda guerra mondiale che, dopo il successo di Le nostre madri, i nostri padri, sono invitati sempre più spesso nei talk show per raccontare il loro disagio e come fossero stati “costretti” a uccidere ebrei.

(Il Mattino, 3 maggio 2013)

Storie – Eichmann o la banalità del male

di Mario Avagliano

Mezzo secolo fa veniva pubblicato La banalità del male della filosofa tedesca Hannah Arendt, un libro che ha segnato la storia della cultura del Novecento, non senza accese polemiche. In occasione del cinquantenario, arriva in libreria Eichmann o la banalità del male (Giuntina, pagg. 214), che fa il punto sul dibattito suscitato da quell’opera, con un corredo di alcuni preziosi documenti e materiali inediti: l’intervista della Arendt allo storico tedesco Joachim Fest, che venne trasmessa da una radio bavarese nel 1964, con il carteggio inedito tra i due; alcune lettere e documenti della Arendt; la stroncatura del libro da parte del famoso storico e filosofo tedesco Golo Mann (terzo figlio di Thomas Mann); il saggio della scrittrice statunitense Mary McCarthy, che invece concordava con la Arendt (Sellerio ha proposto qualche anno fa l’interessante corrispondenza tra le due amiche); una ricca bibliografia sull’argomento.

Il saggio della Arendt vide la luce a seguito del processo a Gerusalemme del 1961 al criminale di guerra Adolf Eichmann, tenente colonnello e capo della sezione ebraica della Gestapo, che era stato catturato in Argentina nel 1960 dal Mossad e raccoglieva i reportage scritti dalla filosofa per il New Yorker. Il processo si concluse con la condanna a morte di Eichmann, che fu impiccato l’anno dopo. All’epoca fece scandalo il titolo del libro della Arendt e colpì molto anche il ritratto di Eichmann che esso proponeva, come un funzionario del male, un uomo apparentemente “normale” che sognava di far carriera uccidendo il maggior numero possibile di ebrei.
La polemica scoppiò anche attorno al significato simbolico del processo. In Israele molti, a partire dal primo ministro Ben Gurion, volevano che fosse un vero e proprio processo al sistema nazista, mentre la Arendt riteneva che bisognasse giudicare solo gli atti compiuti dal funzionario nazista.
Corrado Stajano, sul “Corriere della Sera”, recensendo il libro della Giuntina, ricorda che Fest in una sua opera (Incontri da vicino e da lontano, Garzanti) spiegò che in realtà la Arendt “non aveva minimamente inteso definire banale lo sterminio, né tantomeno il male in sé. Aveva semmai voluto descrivere quel male, nella sua terribile incarnazione in uno squallido personaggio”.
Nell’intervista inedita questa interpretazione del pensiero della filosofa tedesca viene fuori con nettezza e la Arendt ci chiama a riflettere sul mancato pentimento dei nazisti e sulla caratteristica che accomunava gli assassini di ebrei, privi di qualsiasi movente, e per questo “incomparabilmente più terribili di qualsiasi altro assassino”.

(L'Unione Informa e portale moked.it, 28 maggio 2013)

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Storie – Stati Uniti 1938, una nuova terra promessa

di Mario Avagliano

Nelle pieghe della memoria, per molti versi sbiadita, delle leggi razziali in Italia, è conservata una vicenda individuale e collettiva: l’emigrazione forzata di circa duemila ebrei italiani negli Stati Uniti. Professori universitari, medici, avvocati, scienziati, giornalisti, artisti ma anche gente comune, costretti dai provvedimenti persecutori ad abbandonare la patria che li aveva disconosciuti come cittadini e a rifarsi una vita al di là dell’Oceano Atlantico, spesso ottenendo prestigiosi riconoscimenti. Dai premi Nobel Salvador Luria e Franco Modigliani all’architetto Giorgio Cavaglieri, dall’artista Leo Castelli al musicista Mario Castelnuovo Tedesco, dal cardiologo Massimo Calabresi al fisico Emilio Segrè e ai manager Giorgio Padovani, Giorgino Funaro ed Enrico Pavia. Il loro dramma è stata ricostruito nel libro America nuova terra promessa. Storie di ebrei italiani in fuga dal fascismo (Francesco Brioschi editore, pp. 192) di Gianna Pontecorboli, giornalista italiana che vive a New York e collabora con il Centro Primo Levi.
Attraverso le interviste ai testimoni e ai loro parenti, la Pontecorboli racconta la corsa ad ostacoli per ottenere il visto per l’America (impresa non facile, anche per l’opposizione di un potente funzionario americano, Breckinridge Long, ex ambasciatore a Roma e ammiratore di Mussolini), l’impatto con il nuovo continente, che non sempre li accetta bene, il legame indissolubile con l’Italia, l’adesione di molti di loro alla causa dell’antifascismo (ad esempio nell’ambito della Mazzini Society), il contributo dato alla Liberazione del nostro paese e al processo di ricostruzione ma anche la decisione della maggior parte di quegli italiani traditi di restare negli Stati Uniti, la nazione che aveva dato loro la possibilità di una vita dignitosa e senza persecuzioni. Una pagina di storia importante anche per comprendere, come scrive Furio Colombo nell’introduzione, le responsabilità dell’Italia e degli italiani non ebrei, senza indulgere, come si continua a fare, nell’auto-assoluzione. Tanto più in vista del 75° anniversario delle leggi razziali del novembre 2013.

(L'Unione Informa e portale Moked.it, 6 agosto 2013)

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Storie – Il silenzio sulle leggi razziste

di Mario Avagliano

Settantacinque anni fa, giovedì 17 novembre 1938, il regime fascista varava il Regio Decreto Legge n. 1728, intitolato Provvedimenti per la difesa della razza italiana, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 264 del 19 novembre. Due giorni prima era stato approvato il Regio decreto legge intitolato n. 1779, intitolato Integrazione e coordinamento in unico testo delle norme già emanate per la difesa della razza nella Scuola italiana (GU n. 272, 29 novembre 1938). Proprio in questi giorni, quindi, Benito Mussolini e il suo governo dittatoriale davano il via al pacchetto complessivo delle cosiddette leggi razziali (meglio sarebbe dire razziste).

Il 75° anniversario, però, è passato in Italia quasi sotto silenzio. Le iniziative di ricordo di quei fatti sono state organizzate quasi soltanto in ambito ebraico. A parte la significativa iniziativa del comune di Trieste del 18 settembre scorso, tra le poche eccezioni citerei il convegno “A 75 anni dalle leggi razziali. Nuove indagini sul passato, ancora lezioni per il futuro”, in programma il giorno 10 dicembre 2013, dalle ore 9,30, presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre (Sala del Consiglio, I piano, Via Ostiense 161). Nel corso dell’incontro verranno presentati i volumi di Michael A. Livingston, The Fascists and the Jews of Italy. Mussolini’s Race Laws, 1938–1943 (Cambridge University Press, 2013) e di Giuseppe Speciale (ed.), Le leggi antiebraiche nell’ordinamento italiano (Patron Editore, 2013).
Tra le rare prese di posizione dei politici, va registrata quella del sindaco di Firenze Matteo Renzi che, nel corso della cerimonia nella sinagoga di Firenze per la consegna della medaglia e dell'attestato di ''Giusto fra le Nazioni'' a Gino Bartali, ha giustamente dichiarato: "Le leggi razziali furono un'atrocità immane, che noi troppo spesso facciamo finta di dimenticare. E' vero che c'è stato il nazismo, è vero che l'ideologia folle nasce da Hitler ma è anche vero che l'Italia fu colpevole di aver proclamato delle leggi razziali che poi entrarono nel vivo della vita quotidiana".
Il 2013 non è ancora terminato. Il mio auspicio personale è che ci siano altre occasioni per riflettere sulla responsabilità dell’Italia e degli italiani in questa pagina nera della nostra storia. Un capitolo col quale dobbiamo ancora fare i conti.

(L’Unione Informa e Moked.it del 19 novembre 2013)

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Storie – La festa dei Giudei a San Fratello

di Mario Avagliano

L’antigiudaismo ha profonde radici nella cultura occidentale. Lo testimoniano, fra l’altro, feste popolari che si celebrano tuttora in Italia, come la “Festa dei Giudei”, che ogni anno anima il bel borgo di San Fratello, in provincia di Messina.

In quel borgo, in occasione della Pasqua cristiana, si tiene un corteo nel quale i giovani del paese indossano sgargianti costumi, di colore giallo e rosso, ricamati di perline, impersonando “i giudei che percossero e condussero Gesù al Calvario”. Così vestiti, con urla e suoni di tromba, essi cercano di irridere e disturbare il dolore dei cattolici per la passione di Cristo.

 I figuranti “giudei” hanno un cappuccio in testa, come quello che la Santa Inquisizione obbligava ad indossare a gruppi di ebrei durante le rappresentazioni della settimana santa per ridicolizzarli e identificarli come simboli del male e del demonio. Il rito nasce probabilmente nel Medioevo, nel Trecento, quando in varie città spagnole, soprattutto quelle dove erano presenti le più importanti comunità ebraiche, come Barcellona, Girona e Valencia, a seguito delle celebrazioni del venerdì santo si verificavano atti di violenza, ai limiti del linciaggio, nei confronti degli ebrei, considerati responsabili della morte di Gesù. I cosiddetti “disordini pasquali” erano frequenti anche in città italiane, con saccheggi, danneggiamenti e sassaiole contro gli ebrei e i loro beni. Appena un secolo dopo, nel marzo del 1492, i sovrani di Spagna, Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, emanarono due editti per l’espulsione degli ebrei rispettivamente dalla Spagna e dalla Sicilia. A San Fratello anche quest’anno, tra il 16 e il 18 aprile, si ripeterà quel corteo. A chi in passato ha protestato contro la festa, è stato risposto che si tratta soltanto di una tradizione popolare. Sarà. Ma puzza di antiche persecuzioni. E non mi piace. 

(L'Unione Informa e Moked.it del 1° aprile 2014)

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