"Basta piangere!" di Aldo Cazzullo. Il 26 novembre al Teatro Argentina a Roma

“Basta piangere!”. Rimbocchiamoci le maniche e rifacciamo l’Italia. Martedì 26 novembre la presentazione del libro di Aldo Cazzullo, alle ore 17 al Teatro Argentina di Roma, con Matteo Renzi, Enrico Mentana, letture di Massimo Popolizio, ingresso libero.

Il libro

"Non ho nessuna nostalgia del tempo perduto. Non era meglio allora. E’ meglio adesso. L’Italia in cui siamo cresciuti era più povera, più inquinata, più violenta, più maschilista di quella di oggi. C’erano nubi tossiche come a Seveso, il terrorismo, i sequestri. Era un Paese più semplice, senza tv a colori, computer, videogiochi. Però il futuro non era un problema; era un’opportunità".


Aldo Cazzullo racconta ai ragazzi di oggi la storia della sua generazione e quella dei padri e dei nonni, «che non hanno trovato tutto facile; anzi, hanno superato prove che oggi non riusciamo neanche a immaginare. Hanno combattuto guerre, abbattuto dittature, ricostruito macerie. Hanno fatto di ogni piccola gioia un’assoluta felicità anche per conto dei commilitoni caduti nelle trincee di ghiaccio o nel deserto. Mia bisnonna sposò un uomo che non aveva mai visto: non era la persona giusta con cui lamentarmi per le prime pene d’amore. Mio nonno fece la Grande Guerra e vide i suoi amici morire di tifo: non potevo lamentarmi con lui per il morbillo. L’altro nonno da bambino faceva a piedi 15 chilometri per andare al lavoro perché non aveva i soldi per la corriera: come lamentarmi se non mi compravano il motorino?». I nati negli anni Sessanta non hanno vissuto la guerra e la fame; ma sapevano che c’erano state. Hanno assorbito l’energia di un Paese che andava verso il più anziché verso il meno. Hanno letto il libro Cuore, i romanzi di Salgari, Pinocchio, i classici. Non hanno avuto le opportunità dell’era digitale, scrivevano lettere e non mail o sms, ma proprio per questo hanno conosciuto il tempo in cui le parole avevano un valore. Basta piangere! (Mondadori, pp. 144, euro 9,99), rievoca personaggi, canzoni, film, libri e oggetti di un’Italia che si accontentava di poco: Yanez e Orzowei, il mago Silvan e le piste per le biglie, i Giochi senza frontiere e la Febbre del sabato sera, i miti dello sport e della musica, le mode effimere e i cambiamenti profondi. Attraverso il racconto degli ultimi decenni, Aldo Cazzullo ricostruisce l’inizio della crisi e il modo in cui se ne può uscire: i quarantenni, anziché beccarsi come i capponi di Renzo, si uniscano per cambiare il Paese. E i ragazzi smettano di piagnucolare per qualcosa che ancora non conoscono e che dipende soprattutto da loro: il futuro.

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Storie - Leggi razziste, "una cosa da niente"...

di Mario Avagliano

Settantacinque anni fa le leggi razziste chiusero in un nuovo ghetto, dalle mura invisibili, la minoranza ebraica che da lì a qualche anno avrebbe fronteggiato la soluzione finale nazista. Quale impatto ebbe la persecuzione dei diritti sulla comunità degli ebrei? E come reagì l'opinione pubblica italiana a quell’improvviso accanimento contro una minoranza che aveva partecipato a pieno titolo al Risorgimento?

È il tema della raccolta di racconti di Mario Pacifici, dal titolo "Una Cosa da Niente e Altri Racconti" (Edizioni Opposto), che presenterò assieme a Marco Palmieri giovedì 28 novembre, alle ore 18.30, nella Sala dell’Assunta dell’Ospedale Fatebenefratelli all’Isola Tiberina.

Dodici racconti in cui Pacifici, con uno stile narrativo incalzante ma non retorico, che in certi tratti ricorda Goffredo Parise e in alcune similitudini Giorgio Bassani, narra i soprusi, le umiliazioni, l’isolamento subiti dagli ebrei, ma anche la complicità e l’indifferenza dei loro connazionali “ariani”, che persiste nel dopoguerra. Insegnanti, burocrati, commercianti, alti ufficiali, ristoratori, che non di rado sono malevolmente partecipi all’antisemitismo di Stato, raramente indignandosi, nella maggior parte dei casi considerando appunto le misure razziste varate dal regime una cosa giusta o tutt’al più “una cosa da niente”.

(L'Unione Informa e Moked.it 26 novembre 2013)

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Storie – La famiglia De’ Rossi tra genealogia e Storia

di Mario Avagliano

Dedicarsi alla genealogia, ovvero accertare per via documentale, risalendo indietro nel tempo, i legami di parentela che intercorrono tra i membri di una o più famiglie, può essere assai utile per rileggere con occhi diversi certe pagine della Storia di una nazione come l’Italia. Si prenda ad esempio il volume appena uscito «La famiglia De’ Rossi. Vicissitudini di una famiglia ebraica da Gerusalemme a Roma e da Roma nel mondo...», di Elena Rossi Artom (Giuntina). Apparentemente la ricostruzione dell’albero genealogico della famiglia MeAdumim, tradotto in ebraico con De’ Rossi (anche se in italiano il De’ non è stato conservato in tutti i suoi rami e vi sono anche molti Rossi ebrei), potrebbe sembrare una ricerca fine a se stessa. In realtà nelle vicende di questa famiglia c’è inscritta la ricchezza e la vivacità del rapporto tra gli ebrei e l’Italia.
Partiamo dall’inizio. I MeAdumim furono una delle famiglie nobili deportate da Tito Flavio Vespasiano come trofeo di guerra a Roma, dopo la guerra in Giudea e la distruzione del secondo Tempio in Gerusalemme. Elena Rossi Artom ipotizza che il luogo di origine di questa famiglia deportata nella capitale fosse la zona vicina a Gerusalemme denominata Adumim, nome esistente ancora oggi. Nei secoli successivi la famiglia MeAdumim sparse i suoi rami in molte città italiane, tra cui Ancona, Ferrara, Firenze, Livorno, Torino, Cento, Venezia, Trieste.
Per rendersi conto del fecondo rapporto tra gli ebrei e l’Italia, basta scorrere alcuni dei nomi della galleria di personaggi illustri di questa famiglia citati da Elena Rossi Artom: il poeta Salomone De Rossi, che compose un’elegia su un terremoto dell’anno 1269 in Ancona, e la moglie amanuense Paula Anav; suo nipote Moise De’ Rossi, autore del Sefer HaTadir; il poeta Immanuel Romano, detto Immanuel Giudeo, sempre del XIII secolo; il medico Angelo De’ Rossi, che nel Quattrocento operava a Cesena, con il permesso del papa Pio II; i banchieri romani De’ Rossi, che dopo il XVI secolo potettero svolgere la loro attività solo nei confronti dei loro correligionari.
Due dei più famosi esponenti della famiglia furono certamente Azarià De Rossi, autore del Me’or ‘Einayim, nato a Mantova e deceduto a Ferrara nel 1578, e Salomone De Rossi, compositore che visse alla Corte dei Gonzaga a Mantova.
Anche il bisnonno dell’autrice apparteneva a quella famiglia: Salomone De Rossi, nato ad Ancona nel 1832, era uno stimato Sofer (scriba), insegnante e officiante nella sinagoga.
Arrivando al Novecento, come non ricordare il partigiano Walter Rossi, nato a Ferrara, nome di battaglia ‘Zanzara’, fucilato al Pian del Lot, vicino a Torino. E un altro appartenente a questa famiglia ucciso dai nazifascisti fu Alfred De’Rossi, avvocato di Tunisi, sionista, paracadutato in Sicilia e ivi fucilato.

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Non siamo noi che andremo all’inferno

di Mario Avagliano

Ci sono innocenti e colpevoli, ladri e puttane, rom in rivolta e bambini dell’asilo, assassini e padri di famiglia. Si parla di un criminale di nome George W. Bush, delle ragazze dell’Olgettina, di Auschwitz, di un lungo sogno di Hugo Chavez e dell’inverno russo del 1942, mentre in più di una pagina compare perfino Gesù Cristo. Sono poesie della pratica e della concretezza, sociali, politiche e anticonvenzionali, che Francesco Romanetti pubblica nella raccolta Non siamo noi che andremo all’inferno (Intra Moenia, pagg. 160, euro 10), con la prefazione di Roberto De Simone.
Il libro si presenta oggi 11 dicembre 2013 alle ore 17.30 alla Feltrinelli Libri e Musica di via Santa Caterina a Chiaia. Con l’autore intervengono: il presidente della Fondazione Sudd Antonio Bassolino, il presidente del Premio Napoli Gabriele Frasca, lo scrittore Peppe Lanzetta.
Il mondo narrato o evocato da Romanetti, è un mondo dove “mutazione antropologica” e “genocidio culturale”, di cui parlava Pasolini, sono ormai da tempo giunti a compimento. Di fronte alla mostruosità sociale così generata, le “ballate” di Francesco Romanetti intendono recuperare il diritto ad una parola forte, esplicita nella sua nuda semplicità, che per non lasciare equivoci ricorre anche alla reiterazione e all’allitterazione. Questa “poesia della concretezza” racconta anche il passato, ma rifiutando ogni forma di nostalgia: perché non rinuncia a schierarsi nel presente e a giudicarlo. Pur nella consapevolezza - come scrive Roberto De Simone nella sua prefazione - di dover utilizzare “un quasi realismo parlato ma in realtà virtualizzato dall’ampiezza piatta di una cultura di massa da Eurostar e non più di un popolo nazional-popolare”.

Francesco Romanetti è nato a Roma. Vive a Napoli da molti anni, dove fa il giornalista al “Mattino”. Si è occupato a lungo di questioni internazionali, scrivendo reportage da Medio Oriente, America Latina, Africa del Nord, Balcani, Europa, Cina e Stati Uniti. Ha insegnato Storia del Giornalismo all’università Federico II di Napoli. Attualmente lavora nella redazione Cultura.

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Storie – Zi’ Mario Limentani, il testimone di Mauthausen

di Mario Avagliano

Lo chiamano ancora oggi «il Veneziano», anche se vive ininterrottamente a Roma dai primi anni Trenta, a parte la drammatica parentesi dei due anni di deportazione. Mario Limentani, detto Zi’ Mario, a 90 anni di età è uno dei pochi sopravvissuti di quei circa 1.700 ebrei della comunità più popolosa d’Italia che, durante i nove mesi di occupazione tedesca della capitale, tra il settembre del 1943 e il giugno del 1944, vennero estirpati a forza dalle loro case e tradotti nell’inferno dei Lager del Reich. La sua storia, per tanti aspetti unica ed esemplare, è stata per la prima volta raccontata in modo organico e completo nel libro intitolato “La scala della morte. Mario Limentani da Venezia a Roma, via Mauthausen” (Marlin editore), scritto da Grazia Di Veroli, che con delicatezza e rispetto della sfera privata dell’interlocutore, ha sapientemente collazionato i suoi ricordi di oggi con le interviste rilasciate dallo stesso Limentani negli ultimi venti anni, a partire da quelle al Cdec e alla Shoah Foundation di Spielberg. Il saggio sarà presentato dal Centro di Cultura Ebraica, l’Aned di Roma e la Libreria Ebraica “Kiryat Sefer” giovedì 9 gennaio 2014, alle 20.30, presso il Museo Ebraico di Roma (via Catalana/Largo 16 ottobre). Intervengono, oltre al sottoscritto, Anna Foa e Marcello Pezzetti. Saranno presenti l’autrice e Mario Limentani.

Nel libro-intervista, che esce significativamente nel 70° anniversario della deportazione da Roma del 4 gennaio 1944 (ricordato domenica scorsa dall’Aned a Regina Coeli), scorrono le immagini dell’infanzia di Limentani, originario di Venezia ma trasferitosi nella capitale giovanissimo - par di sentirlo, nella sua classica parlata in romanesco verace impastata di inflessioni venete - fino all’impatto scioccante con le leggi razziste del 1938. E poi la guerra, la fame, i bombardamenti, la caduta del fascismo, l’occupazione tedesca, la raccolta dell’oro e la tragica alba del 16 ottobre del 1943, con la retata degli ebrei in tutta Roma, durante la quale i Limentani si nascondono in uno scantinato e si sottraggono alla cattura da parte delle SS di Herbert Kappler. Purtroppo il ventenne Mario Limentani, come centinaia di altri ebrei romani, finirà comunque tra le grinfie dei nazisti, qualche settimana dopo, a fine dicembre del 1943, nei pressi della Stazione Termini, forse a causa di una delazione della celebre spia ebrea Celeste Di Porto, detta la Pantera Nera. E ad arrestarlo e a consegnarlo ai tedeschi saranno alcuni fascisti, a testimonianza di quanto pesò il collaborazionismo italiano nella vicenda della Shoah. Incarcerato a Regina Coeli, il 4 gennaio del 1944 Mario viene condotto al binario n. 1 della Stazione Tiburtina e caricato su un vagone piombato in partenza per il Reich, assieme a circa 300 deportati. I suoi compagni di viaggio sono in maggioranza politici, dai nipoti di Badoglio, Pietro e Luigi Valenzano, al gruppo dei comunisti, tra i quali spicca la figura di Filippo D’Agostino, uno dei fondatori del partito comunista d’Italia. Ma vi sono anche una decina di ebrei. All’arrivo a Mauthausen, a Limentani, che pure viene registrato come ebreo, viene cucita sulla tuta a righe «una stella fatta con due triangoli: uno rosso con IT nero perché ero italiano e m’avevano portato con i politici e uno giallo perché ero ebreo». Quasi ad attestare il destino in parte comune che toccava a chi si era opposto al nazifascismo e a chi era perseguitato per il solo fatto di essere ebreo. La particolarità dell’esperienza di Limentani (come quella degli altri del suo gruppo) trae origine proprio da qui. Egli infatti, a differenza della maggior parte degli ebrei italiani, non viene deportato ad Auschwitz, ma a Mauthausen, uno dei Lager simbolo della deportazione politica, più avanti trasferito nel sottocampo di Melk, poi di nuovo a Mauthausen e infine nell’altro sottocampo di Ebensee. Nell’immaginario collettivo, quando si pensa alla Shoah, soprattutto per quanto riguarda gli ebrei italiani, il pensiero va subito al Lager di Auschwitz, dove furono deportati oltre 6mila di loro (su un totale di poco più di 6.800). Forse anche per questo motivo le vicende dei circa 800 ebrei che furono deportati in altri Lager, hanno avuto – ingiustamente – un’attenzione minore da parte della storiografia e dell’opinione pubblica. Il racconto dei due anni nei Lager nazisti è commovente, ma – come è nello stile asciutto e privo di retorica di Limentani – non indulge mai al pietismo e non insiste sui dettagli più crudi, mantenendo sempre un certo pudore e lasciando confinato ciò che è indicibile nella sfera dell’inesprimibile. Tra le pagine più toccanti delle memorie di Limentani, raccolte e verificate dalla Di Veroli, ci sono quelle sulla famosa «scala della morte» di Mauthausen, dalla quale prende il titolo questo libro: i 186 gradini, ripidi e scivolosi, che portano alla cava e che i deportati sono costretti a salire e scendere più volte al giorno, con un pesante carico di massi di granito.Molti di loro muoiono su quella scala, privi di forze, rotolando sui gradini oppure facendo un tragico volo nel burrone sul quale la scala si protende. Limentani sarà uno dei pochi ebrei romani a sopravvivere alla soluzione finale e a tornare a casa. E nel dopoguerra, diventerà una delle colonne portanti dell’Aned capitolino e uno dei principali testimoni italiani della deportazione razziale e politica.

(L'Unione Informa e Moked.it del 7 gennaio 2014)

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Fedifraghi che fanno Storia

di Mario Avagliano

Cosa avevano in comune Elisabetta I d’Inghilterra, Caterina II di Russia, Niccolò Paganini, Virginia Woolf, Colette, Albert Einstein, Richard Wagner e Giuseppe Stalin? Erano inguaribili fedifraghi, o se volete geniali traditori, strateghi dell’affaire e impareggiabili peccatori. Se fossero vissuti prima di Dante oppure alla sua epoca, il grande poeta li avrebbe condannati in eterno alle pene dell’Inferno, nel secondo cerchio degli incontinenti, tra i lussuriosi travolti dalla bufera ineluttabile della passione.
La storia del mondo e le vicende della politica (come dimostrano i casi di Silvio Berlusconi o del presidente francese François Hollande) non sono fatte solo di battaglie elettorali o sui campi di guerra, ma anche tra le lenzuola. E gli aneddoti sugli amori clandestini dei grandi personaggi servono a svelarne il carattere. Beninteso, sempre se accuratamente documentati. Ed è quello che fa lo scrittore e storico Pino Pelloni nel suo ultimo libro Fedifraghi, edito dalla piccola Iris4editrice di Roma (pp. 136, euro 15,50), raccontando con dovizia di particolari la vita privata di quindici uomini e donne eccezionali, spesso additati come modelli di virtù, la cui vita è stata costellata di meriti e successi, ma anche dei più incredibili tradimenti e di imbarazzanti sotterfugi.

Senza timori riverenziali, facendo propria la massima di Voltaire che la storia “è una burla che i vivi giocano ai morti”, Pino Pelloni, già autore di un licenzioso quanto documentato Risorgimento libertino, si è divertito a regalare ai lettori delle biografie border-line, volutamente irriguardose, osservando dal buco della serratura debolezze e virtù di questi personaggi della letteratura, della musica, della scienza e della politica alle prese con tradimenti, menzogne, liti e deviazioni morali. La scrittrice Virginia Woolf, che nell’adolescenza aveva dovuto subire gli abusi sessuali del fratello “orco” George, di quattordici anni più grande di lei, prima visse felicemente un ménage à trois con la sorelle Vanessa e il di lei sposo Clive, poi convolò a nozze e tradì il marito con una lunga serie di donne, scrittrici, pittrici o aspiranti tali. La futura imperatrice Caterina II di Russia, quand’era ancora giovane sposa di Pietro, fece collezione di amanti aitanti e gagliardi, decorando la sua camera da letto con dipinti che raffiguravano lascive scene erotiche, e fu aiutata nelle sue “imprese” dalla zarina Elisabetta e dal gran cancelliere Bestuev. Il musicista Richard Wagner, sposato con la seducente attrice e cantante Minna Planner, ebbe una tresca amorosa con una signora di Zurigo, Mathilde Wesendoch, moglie di un suo fan. Fuggì con lei a Venezia e Mathilde fu probabilmente la musa ispiratrice del suo capolavoro Tristano e Isotta. Un altro genio della musica, Niccolò Paganini, era un impenitente erotomane, famoso non solo per la grandiosità della sua arte di suonare il violino ma anche per un dono assai generoso della natura, che lo aveva dotato di un virile organo di considerevoli dimensioni. Nel suo periodo presso la corte di Lucca, Paganini fu amante ufficiale della principessa Elisa Bonaparte, sorella di Napoleone e principessa e consorte del granduca Pasquale Felice Baciocchi, ma la tradì con la sorella Paolina e con la giovanissima contessina Adele. Durante la sua vita irretì donzelle di ogni età ed estrazione, dalla cantante Antonia Bianchi alla tredicenne protestante Angelina Cavanna (la cui seduzione gli causò il carcere) fino alle ragazze di taverna. Josif Stalin, invece, quand’era un giovane dirigente di partito, era attratto dalle minorenni, al limite della pedofilia.
Nella sua vita ebbe due mogli e uno stuolo di amanti, che svezzarono dal punto di vista dell’ars amatoria il rozzo contadino russo (diventato col tempo esperto di preliminari) e con le quali intrecciò relazioni tempestose e infuocate. Lo stesso numero di consorti del grande fisico Albert Einstein, il più grande genio del XX secolo, che però era un po’ misogino e considerava “il matrimonio inventato da un maiale privo d’immaginazione”. Il premio Nobel costrinse la prima moglie Mileva ad accettare le sue tresche amorose, a partire da quella con la bionda e frivola cugina Elsa. Poi, sposata quest’ultima, seguitò a collezionare avventure erotiche con disinibite studentesse tedesche e, dopo il trasferimento in Usa a causa della salita al potere di Hitler, con giovani donne americane. Se il tradimento è un evento fondante della civiltà e della storia, ecco che questo curioso libro ci fornisce una nuova chiave interpretativa per studiare fatti e personaggi del passato, una cifra apparentemente scanzonata e piccante ma sostanzialmente interessante per comprendere l’impeto che dal privato investe le vicende istituzionali, globali, della vita. E in tale approccio, il voyeurismo è solo un effetto secondario, esito aggiunto di una ricerca storica che si fa divertente e provocante. E restituisce a queste “grandi orizzontali” e a questi “farfalloni amorosi”, le due categorie individuate dall’autore, una maschera nuova da giocare sul palcoscenico del teatro del mondo.

(Il Messaggero, 2 febbraio 2014)

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Mister Mussolini che piaceva all'America

di Mario Avagliano

 Quando nell’ottobre del 1936 il presidente americano Franklin Delano Roosevelt intrattenne per due giorni il cardinale Eugenio Pacelli (il futuro papa Pio XII), in visita privata negli Stati Uniti, l’alto prelato, parlando della Grande Depressione, disse preoccupato al suo interlocutore: “Secondo me il pericolo più grave è che l’America divenga comunista”. Roosevelt di rimando gli rispose: “No, il pericolo più grave è che l’America divenga fascista”.

Lo scambio di opinioni è illuminante. Il timore del presidente statunitense, protagonista del New Deal, era reale. All’epoca i comunisti americani non avevano un grande seguito (né per la verità lo ebbero mai). Viceversa i fascisti e Benito Mussolini, godevano di buona reputazione nella classe dirigente a stelle e strisce. Di più, molti americani erano addirittura infatuati dalla politica del duce. È il tema del bel libro “Quando l’America si innamorò di Mussolini” (Editori Internazionali Riuniti) del giornalista Ennio Caretto, che conosce bene gli Stati Uniti e i suoi archivi storici, essendo stato per 35 anni corrispondente oltreoceano per La Stampa, Repubblica e il Corriere della Sera. In America, il duce fu il capo di Stato o di governo straniero più popolare del suo tempo. Più che in ogni altra nazione occidentale, Gran Bretagna inclusa. Osannato soprattutto dall’industria, dalla finanza e dai conservatori, che lo ammiravano come “l’uomo nuovo” che trascendeva il liberalismo e debellava il comunismo. L’innamoramento durò almeno tre lustri, fino alle guerre d’Etiopia del 1935 e di Spagna del 1936.

Nell’epoca delle dittature, la maggioranza degli americani vide nel regime fascista – salvo poi pentirsene - un presentabile “autoritarismo democratico”, ritenendolo moderato e lontano dalle spietate tirannie sovietica e nazista di Stalin e Hitler. Lo dicono decine di migliaia di pagine di carteggi dei leader politici, culturali e religiosi americani, di documenti top-secret, di studi condotti da varie istituzioni, di giornali, di libri. Il fascino di Mussolini non riguardò solo i repubblicani. I media americani, inclusi quelli che oggi giudicheremmo di sinistra, applaudirono in prevalenza alla Marcia su Roma e all’ascesa del fascismo. Nell’ottobre del 1922, subito dopo la Marcia, il New York Tribune, di cui Karl Marx era stato il corrispondente europeo da Londra mezzo secolo prima, paragonò Mussolini a Garibaldi e a Giulio Cesare, e a novembre il New York Times elogiò “la forza” del duce, un leader che si collocava “tra Napoleone e un pugilista”. All’inizio perfino Ernest Hemingway (ma poi cambierà radicalmente idea) ne scrisse entusiasta: “Mussolini è una grossa sorpresa. Non è il mostro che hanno dipinto. Ha un volto intellettuale ed e soprattutto un patriota”. Contemporaneamente, si schierarono per il fascismo istituzioni finanziarie e patriottiche come la Camera di Commercio e la Legione Americana. Anziché isolarlo, quattro presidenti, da Warren Harding a Franklin Roosevelt (i primi tre repubblicani) collaborarono con lui considerandolo un baluardo contro il “contagio bolscevico” in Europa e un potenziale partner nel Mediterraneo. Al funerale di Harding il feretro fu scortato, tra altri, dalle Camicie Nere di Mussolini. E per un certo lasso di tempo Roosevelt espresse interesse e simpatia per “l’esperimento” del fascismo e intrecciò con lui normali rapporti, sperando fino al 1940 di riuscire a tenerlo fuori dal conflitto. Anche gli ambasciatori statunitensi a Roma si dimostrarono per lo più favorevoli al duce. Il più agiografico di essi, Richard Washburn Child, scrisse un’introduzione all’autobiografia di Mussolini pubblicata in America nel 1928 che rasentava il culto della personalità: “Mussolini è un super-statista umano e giusto”. Non che mancassero i critici di Mussolini, ma vennero neutralizzati. L’America voleva che l’Europa, il suo mercato naturale e più ricco, che doveva ripagarle l’enorme debito bellico della Grande Guerra, si ricostruisse in fretta. Chiunque ne garantisse la pace sociale e il liberismo economico, come il duce, era considerato un partner affidabile. Anche dopo la guerra di Spagna, nonostante l’opposizione americana al fascismo e al nazismo raccogliesse sempre maggiori consensi negli Stati Uniti, nell’establishment economico e politico restavano numerosi gli ammiratori del duce e del Fuhrer. Uno di loro era il miliardario e neoambasciatore americano a Londra Joseph Kennedy, padre del futuro presidente John F. Kennedy. E lo stesso giovane John, nel 1937, appena ventenne, esprimeva ancora ammirazione per i due dittatori. Lo rivelano le sue lettere e i suoi diari di viaggio, scritti in vacanza in Italia e in Germania, e pubblicati di recente dall’editrice tedesca Aufbau a cura dello storico tedesco Oliver Lubrich. “Sono giunto alla conclusione che il fascismo sia giusto per l’Italia − scriveva Kennedy − come che il nazionalsocialismo sia giusto per la Germania (…). Che cosa è mai il fascismo in confronto al comunismo? (…) Questi regimi fanno del bene ai loro paesi”. Di più: “Quanto al signor Adolf Hitler, sono persuaso che abbia la stoffa di chi entra nella leggenda”.

(Il Mattino del 14 marzo 2014)

Storie – Far conoscere Auschwitz

di Mario Avagliano

Nel primo dopoguerra Auschwitz non era ancora assurta a simbolo della Shoah italiana (ed europea) ed era quasi del tutto sconosciuta agli occhi dell’opinione pubblica. Tutt’al più era un nome tra i tanti della galassia concentrazionaria nazista. Uno dei primi in Italia a condurre ricerche per far conoscere cosa fosse accaduto agli ebrei nel cuore dell’Europa durante la seconda guerra mondiale e che fine avevano fatto gli ebrei deportati dal nostro Paese, fu Massimo Adolfo Vitale, un personaggio che meriterebbe maggiore notorietà a livello nazionale e che, fra l’altro, fu tra i fondatori del Cdec a Milano. Vitale, dopo ventotto anni vissuti in Africa come funzionario governativo del Ministero delle Colonie italiane e poi dell’Africa italiana e il licenziamento nel 1939 in seguito alle leggi razziali, nel maggio 1945 era stato nominato presidente del Comitato Ricerche dei Deportati Ebrei di Roma. In questa veste condusse un’instancabile attività di ricerca, oggetto dell’interessante libro di Costantino Di Sante, Auschwitz prima di Auschwitz. Massimo Adolfo Vitale e le prime ricerche sulla shoah italiana (ombre corte, 190 pp.).

 Il saggio è arricchito da vari preziosi documenti, tra cui spicca quello redatto dallo stesso Vitale sulla storia del campo di Auschwitz, uno dei primi in assoluto. Egli, dopo aver assistito a Varsavia, tra il marzo e l'aprile del 1947, al processo al comandante del campo Rudolf Höss, come osservatore italiano per conto dell'Unione delle Comunità Israelitiche Italiane e del Ministero di Grazia e Giustizia, stilò un dettagliato resoconto del suo viaggio in Polonia. La relazione di Vitale, la ricerca di notizie sui deportati italiani, la raccolta delle testimonianze dei sopravvissuti (pubblicate nel libro di Di Sante), tra cui anche quella di Primo Levi, e le battaglie che condurrà contro l'antisemitismo rappresentano ancora oggi un esempio e un antidoto contro il negazionismo, perché, come egli non si stancava di ripetere, "bisogna non dimenticare". Una battaglia per la verità storica condotta sempre in modo rigoroso, sulla base di prove e documenti. Nella convinzione che, come scriverà Georges Bensoussan in L’eredità di Auschwitz, “la nostra arma non è la memoria, che costruisce, demolisce, dimentica o edulcora, ma solo la Storia”. 

(L'Unione Informa e Moked.it del 25 febbraio 2014)

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