La colpa di chiamarsi Mengele. Così vissero i figli dei nazisti

di Mario Avagliano

  Le colpe dei padri ricadono sui figli? La risposta, in linea teorica, è no. Ma è difficile se non impossibile evitare di fare i conti col passato oscuro del nazismo, tanto più se ti chiami Himmler, Göring, Hess, Frank, Bormann, Höss, Speer o Mengele e sei figlia o figlio di un gerarca criminale del cerchio magico di Adolf Hitler.

È quanto racconta Tania Crasnianski, avvocato penalista franco-tedesca ma con origini russe, nel suo saggio «I figli dei nazisti» (Bompiani, pp. 268, € 18), in libreria in Italia dal 27 gennaio e già in corso di stampa in tutto il mondo, frutto di una lunga ricerca negli archivi pubblici e privati e dello spoglio di carte giudiziarie, lettere, libri, articoli e interviste sulla vita privata dei gerarchi del Terzo Reich e dei loro discendenti.

Otto storie esemplari, narrate con una scrittura rigorosa ma incalzante, sui figli dei fedelissimi di Hitler, nati tra il 1927 e il 1944, cresciuti in un’infanzia dorata, lontana dai clamori della guerra e dalle violenze del nazismo, garantita loro da padri in genere tanto crudeli e cinici nella loro attività di governo, di amministrazione o di polizia quanto affettuosi e amorevoli in famiglia. «La mia famiglia fu l’altro mio santuario. Il mio legame con essa fu saldissimo», ebbe modo di dire Rudolf Höss, comandante del campo di sterminio di Auschwitz. Una doppia personalità, quasi schizofrenica, che in qualche modo veniva fuori già dal ritratto di Eichmann che aveva tracciato Hannah Arendt ne «La banalità del male».

«Ciò che il padre ha taciuto – annotava Nietzsche in «Così parlò Zarathustra» – prende parola nel figlio; e spesso ho trovato che il figlio altro non era, se non il segreto denudato del padre». E infatti molti di questi rampolli dei gerarchi nazisti hanno scoperto la verità sui propri genitori e sul loro ruolo nella macchina di distruzione di massa del nazismo e di sterminio degli ebrei solo dopo la fine del conflitto. Ma le reazioni sono state differenti, a volte completamente opposte.

Giudicare i propri genitori è un’impresa difficilissima. «Come guardare in modo spassionato e imparziale alle persone che ci hanno messo al mondo? Maggiore è la prossimità affettiva, più problematico risulta prendere partito», scrive la Crasnianski. Anche in Italia, personaggi illustri hanno dovuto affrontare il dramma del confronto con il passato fascista dei genitori, dai giornalisti Pierluigi Battista e Giampiero Mughini al comico Paolo Rossi e agli scrittori Marco Lodoli e Margaret Mazzantini.

Le soluzioni adottate dai figli dei gerarchi nazisti si sono polarizzate in modo netto: alcuni si sono allineati alle posizioni dei genitori, altri le hanno condannato fermamente, rarissimo l’atteggiamento di neutralità.

Sono soprattutto le figlie uniche a non aver rinnegato i padri: Gudrun Himmler (chiamata dal padre Püppi, bambolina), sola discendente legittima di Himmler, l’architetto della Soluzione Finale, sempre in giro con una spilla d’argento con una svastica formata da quattro teste di cavallo disposte in cerchio; Edda Göring, figlia del maresciallo del Reich, considerato il Nerone nazista; e Irene Rosenberg, il cui padre era Alfred Rosenberg, l’ideologo del nazismo, nonché ministro dei territori occupati sul fronte orientale. Divenute donne, hanno finito per vivere nel culto del genitore, dedicando la propria vita alla sua riabilitazione.

Anche Hans-Jürgen, il secondogenito di Höss, il comandante di Auschwitz, è rimasto fedele ai vecchi ideali del proprio genitore. Il figlio Rainer lo ha descritto come un uomo violento, dittatoriale e antisemita.

Sull’altro versante, ci sono figli che non se la sono sentita di amare il padre “mostro” e hanno preso le distanze da lui. Niklas Frank, il figlio di Hans Frank, detto il «boia di Cracovia», considera il padre un «assassino», giudicandolo «debole», «fatuo», «ipocrita», «vile», oltre che un patetico «leccaculo». Insieme alle fotografie dei suoi cari, porta con sé anche un’immagine del cadavere del genitore. «Mi piace come è venuto in quella fotografia: è morto», risponde a chi gli domanda chiarimenti.

Rolf Mengele, il figlio di Josef, il medico della morte, ha voluto cambiare il proprio cognome per non tramandare ai figli la vergogna familiare. E non è mancato chi ha cercato di espiare le colpe dei padri scegliendo la via della fede, come Martin Adolf Borman, figlio del potente segretario di Hitler e figlioccio del Führer, diventato missionario cattolico. Addirittura c’è chi si è convertito all’ebraismo, come Aharon Shear-Yashuv, all’anagrafe Wolfgang Schmidt, diventato rabbino dell’esercito israeliano, e la nipote di Magda Göbbels, cioè la figlia del figlio che Magda ebbe dal primo marito Günther Quandt.

E Hitler? Era contento di non avere discendenti: «Che problemaccio se avessi dei figli! Magari si cercherebbe di fare di mio figlio il mio successore! E non è tutto! Per uno come me non c’è speranza che gli nasca un ragazzo in gamba. È la regola. Si veda il figlio di Goethe: un individuo che non servì assolutamente a nulla!».

(Pubblicato in versione più sintetica su Il Messaggero del 26 gennaio 2017)

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Libri. Hitler, ecco gli ultimi scritti del leader nazista - Così Hitler costruiva menzogne

di Mario Avagliano

  Adolf Hitler è morto da settant’anni, ma mai come oggi si registra tanto interesse attorno alla sua figura. È di pochi giorni fa la notizia, non proprio tranquillizzante, che diverse scuole italiane hanno adottato come libro di testo il suo delirante manifesto politico e ideologico, il Mein Kampf, con conseguente coda polemica da parte dell’Unione delle Comunità Ebraiche. Nel frattempo in libreria arrivano nuovi saggi su Hitler, che svelano nuovi dettagli del suo pensiero e della sua vita.
Ultima tra le pubblicazioni del Führer è la nuova edizione delle sue ultime riflessioni, pubblicata da Rizzoli col titolo Il mio testamento politico (pp. 162, euro 13), arricchita da una prefazione del politologo Giorgio Galli, il maggior studioso italiano dei rapporti tra nazionalsocialismo e cultura esoterica.
Si tratta degli appunti affidati da Hitler, in una serie di conversazioni a tavola, al suo segretario personale Martin Bormann nel bunker della Cancelleria, in una Berlino distrutta dai bombardamenti e assediata dai sovietici, tra il febbraio e l’aprile del 1945. Poche settimane dopo Hitler avrebbe nominato Bormann suo esecutore testamentario e suo successore come capo del partito. Hitler fa un bilancio della sua vita e s’interroga sui motivi della guerra e sul perché l'ha persa. Dove aveva sbagliato?
Il suo testamento, pubblicato negli anni Cinquanta e poi divenuto praticamente introvabile per decenni (in Italia venne edito solo nel '61), getta nuova luce sulle motivazioni che guidarono le scelte di Hitler. Si tratta dell’«ultima finestra che doveva aprirsi su quella buia stanza, così infetta, laida e stregata, e ciononostante così satura di autentica anche se terribile forza esplosiva, ch’era la sua mente», come scrive Trevor-Roper nell’introduzione.
Il Fũhrer afferma di essere stato «l’ultima speranza dell’Europa» contro il pericolo della Russia e contro «il veleno mortale dell’ebraismo» e sostiene che in realtà non voleva la guerra, che gli sarebbe stata imposta dagli Alleati, rifiutando le richieste della Germania, e dagli odiati ebrei che volevano dominare il mondo. Ciò non toglie che egli continuasse a paragonarsi a Napoleone, che, come lui, era stato costretto a fare la guerra anche se voleva la pace.
Quanto a Mussolini, il dittatore nazista afferma di riporre in lui personalmente «assoluta fiducia», ma di averlo tenuto all’oscuro di alcune sue iniziative militari a causa di Ciano «il quale, naturalmente, non aveva segreti per le belle donne che gli svolazzavano intorno come farfalle».

L’altro saggio da poco arrivato in libreria è Il libro proibito di Hitler. Storia del Mein Kampf (Rizzoli, pp. 356, euro 22), opera del giornalista e storico tedesco Sven Felix Kellerhoff, che ha ricostruito la genesi dell'opera di Hitler, vera e propria bibbia del nazismo, il suo percorso editoriale e la fortuna che ebbe da parte dei lettori (ne furono stampate 12 milioni di copie), fino al divieto di pubblicazione nel dopoguerra da parte della Baviera, caduto solo di recente, con il via libera a un’edizione ufficiale commentata.
Hitler concepisce la sua opera nel 1924, mentre è rinchiuso nel carcere di Landsberg, per alto tradimento dopo il putsch fallito. In cella sente l’esigenza di mettere nero su bianco la sua visione del mondo e della Germania.
La ricerca di Kellerhoff stabilisce sulla base di documenti (5 pagine originali del volume e ben 18 scalette ritrovate nel 2006 e provenienti dalla macchina da scrivere personale del futuro dittatore) che il libro sarebbe stato scritto integralmente da Hitler e anzi in gran parte da lui battuto direttamente a macchina, su una Meteor da viaggio. Rudolf Hess collaborò solo alla correzione delle bozze, con la collaborazione della futura moglie Ilse Pröhl.
Interessante anche la ricostruzione delle fonti del Mein Kampf, raramente citate da Hitler: dall'Ebreo internazionale di Henry Ford ai saggi dell'esperto di eugenetica svedese Herman Lundborg e del teorico razzista tedesco Hans F.K. Günther. Anche la teoria dello «spazio vitale» non fu opera del futuro Fũhrer che la copiò dalle idee di uno dei professori di Rudolf Hess: Karl Haushofer.
Non mancano le bugie costruite ad arte da Hitler. Ad esempio le informazioni autobiografiche non sono affidabili: il padre non era un oppositore della monarchia austroungarica, ma un funzionario doganale ripetutamente promosso per i suoi servigi e la sua lealtà.

Quanto all'antisemitismo di Hitler, che rappresenta il fulcro della Weltanschauung nazista, questi nel suo libro lo fa risalire già alla sua giovinezza a Vienna. Una tesi che, rileva Kellerhoff, contrasta con la sua vicenda biografica e con i suoi buoni rapporti con famiglie ebree del luogo, come gli Jahonda. Anzi, probabilmente fu il suo tenente ebreo Hugo Gutmann ad adoperarsi per fargli assegnare la Croce di ferro di prima classe il 4 agosto del 1918. Secondo lo storico tedesco la conversione ideologica di Hitler sarebbe avvenuta dopo la guerra. Un’altra bugia del futuro Führer del Terzo Reich.

(Il Messaggero, 29 dicembre 2016)

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Farmaci militarmente preziosi così si drogava la Germania nazista

di Mario Avagliano 

  Guerra e droga sono un binomio antico. I vichinghi andavano all’assalto dei nemici sotto l’effetto di funghetti, i guerrieri incas masticando le foglie di coca, i soldati della guerra civile americana dopati con la morfina, mentre durante la Grande Guerra i nostri soldati si davano coraggio bevendo la grappa, per non parlare del conflitto in Vietnam. Un best seller mondiale, Tossici. L’arma segreta del Reich. La droga nella Germania nazista, dello scrittore Norman Ohler, già tradotto in 18 lingue e appena uscito in Italia (Rizzoli pp. 383, euro 22), ricostruisce in modo documentato l’uso e l’abuso di metilanfetamine tra i soldati tedeschi durante la seconda guerra mondiale, in particolare il Pervitin, assunto anche dal generale Rommel e dallo stesso Adolf Hitler.
Il Pervitin venne sviluppato dallo scienziato Fritz Hauschild, che era rimasto strabiliato dagli effetti delle benzedrine sugli atleti americani in gara alle Olimpiadi di Berlino nel 1936. Brevettato dagli stabilimenti Temmler nel 1937, divenne in breve tempo di moda nella Germania nazista, che febbrilmente inseguiva il sogno di conquistare il mondo, perché bastava ingurgitare alcune pasticche «rivitalizzanti» per rimanere svegli ed euforici per ore e ore.
Il capo dei medici del Reich, Otto Ranke, lo considerava «un farmaco militarmente prezioso!», poiché consentiva ai soldati di tirare avanti per oltre due giorni senza provare stanchezza e sonno e aveva effetti anche sul sistema inibitorio. E così quando la Germania invase la Polonia, fu lo stesso quartier generale della Wehrmacht a distribuirne dosi massicce ai soldati tedeschi, assieme al rancio quotidiano.
Le pilloline miracolose si rivelarono particolarmente utili nel maggio del 1940, in occasione della conquista del Belgio e del blitzkrieg in Francia, in quanto assumendo una pasticca al giorno e due di notte i panzer nazisti poterono procedere a tutta velocità attraverso le Ardenne, non fermandosi mai per quattro giorni di filato, macinando centinaia di chilometri. Un’impresa che lasciò esterrefatti i francesi e contribuì in modo determinante alla loro disfatta.

Il saggio di Ohler, pubblicato in Germania con il titolo “Der totale Rausch”, ovvero “La totale euforia”, e basato su documenti degli archivi tedeschi e americani, dimostra che gli psicofarmaci furono uno dei fattori di costruzione del mito della macchina da guerra del Terzo Reich, accanto all’ideologia nazista e alla disciplina del popolo tedesco. Il Pervitin era largamente diffuso tra i tedeschi, nonostante che, ufficialmente, le droghe fossero state bandite dal nazismo. Lo prendevano sportivi, cantanti, studenti sotto esame e massaie e venne sperimentato anche da scrittori del calibro di Heinrich Böll, Gottfried Benn, Klaus Mann e Walter Benjamin.
Ogni giorno in Germania si producevano 833 mila compresse e nel 1944, quando le sorti della guerra erano segnate, la Wehrmacht ne ordinò quattro milioni di confezioni.  Altre droghe furono sviluppate dai medici nazisti, che le sperimentarono sui prigionieri dei lager, come in quello di Sachsenhausen.
Il primo a farne uso era il «paziente A» Adolf Hitler che, come emerge dalla lettura delle carte del suo medico personale Theodor Morell, da quasi vegetariano e non fumatore, col tempo divenne sempre più dipendente dalle metilanfetamine e, non contento, passò poi al consumo dell’Eukodal, un derivato dell’oppio più potente dell’eroina (nel periodo di Salò, Morell somministrò psicofarmaci anche a Mussolini, definito il «paziente D»).  
Ohler calcola che tra il 1941 e il 1945, Hitler fece almeno 800 iniezioni di sostanze chimiche, inghiottendo più di 1.100 farmaci in forma di pillola.
Grazie all’Eukodal, il Führer appariva sempre fresco e allegro, trasmettendo fiducia ai suoi uomini. Morrell rivelò che gliene iniettò una dose anche il giorno del famoso convegno di Feltre del 19 luglio 1943, quando il Führer invasato e sovraeccitato parlò per tre ore di fila e mise verbalmente kappaò Mussolini che voleva sfilarsi dalla guerra.
Dopo il fallito attentato del luglio 1944 che gli provocò danni permanenti al timpano, Hitler iniziò anche a sniffare cocaina e nella primavera del 1945, rinchiuso nel bunker di Berlino, finì la sua vita come un tossico, con la bava alla bocca e il tremore alle mani, soffrendo di allucinazioni e con le vene rovinate dai buchi.

(Il Messaggero, 29 novembre 2016)

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Nolte, primo dei revisionisti

di Mario Avagliano

  Il principe della corrente revisionista della storia del Novecento o uno storico coraggioso che ha rotto il muro del conformismo su quel periodo così controverso? Il tedesco Ernst Nolte, scomparso ieri  Berlino all’età di 93 anni, è stato almeno fino a un certo punto sia l’uno sia l’altro, in modo a volte contraddittorio e fuori dai canoni, strizzando però troppo l’occhio al negazionismo nella fase discendente della sua parabola di studioso.
Originario di Witten, nel Nord Reno-Westfalia, nel gennaio 1923, Nolte nasce filosofo, laureandosi a Friburgo e avendo maestri del calibro di Martin Heiddeger e Eugen Fink, con il quale nel 1952 consegue il dottorato con una tesi sull’idealismo tedesco e Marx. Ma ben presto si dedica alla ricerca storica, diventando professore emerito di storia contemporanea all’università di Marburgo e alla Freie Universitat di Berlino.
Il suo primo saggio, intitolato “Il fascismo nella sua epoca” (tradotto in italiano in “I tre volti del fascismo”), esce nel 1963 e viene ben accolto dall'opinione pubblica di matrice progressista, che condivide la riabilitazione della categoria di “fascismo” come concetto storiografico a sé stante rispetto al totalitarismo, nelle tre versioni del “pre-fascismo” dell'Action francaise di Charles Maurras, del fascismo di Mussolini e del “fascismo radicale” di Hitler.
Nei due decenni successivi Nolte approfondisce e radicalizza la sua tesi sulle origini del fascismo, anticipandola a grandi linee il 3 giugno 1986 sul quotidiano “Frankfurter allgemeine zeitung”, con un articolo intitolato “Il passato che non passa” e illustrandola l'anno successivo nel volume “La guerra civile europea 1917-1945”.
Rifiutandosi giustamente di considerare il nazismo come “il male assoluto” e ritenendo necessario analizzarlo come qualsiasi altro fenomeno storico, Nolte sostiene però che il fascismo e il nazismo costituiscono la reazione alla minaccia esistenziale rappresentata dal bolscevismo, proponendo quindi un nesso causale tra le due grandi ideologie totalitarie del Novecento: il comunismo e il nazionalsocialismo.
Per lo storico tedesco, la rivoluzione di ottobre del 1917 è la condizione necessaria per l’affermazione del fascismo, sia nella sua versione italiana, sia in quella “radicale” di  Adolf Hitler. Il successo e il seguito del fascismo si spiegherebbero in quanto esso si oppone come controrivoluzione militante alla rivoluzione bolscevica, che dall'ex impero di Russia minaccia di diffondersi in tutta Europa.
Nella visione di Nolte, il nazismo sarebbe andato a scuola dal bolscevismo, perché ne adotta i metodi e le pratiche brutali. In questo quadro i gulag e lo sterminio di classe di milioni di kulaki da parte di Stalin precederebbero Auschwitz e la Shoah degli ebrei e ne costituirebbero anche, in un certo senso, la premessa indispensabile.
La tesi  di Nolte provoca un acceso dibattito in Germania denominato Historikerstreit , “controversia degli storici”, i quali si dividono in due tronconi. Il principale critico di Nolte è il celebre filosofo tedesco Jurgen Habermas, che lo accusa di “giustificazionismo” nei confronti delle responsabilità della Germania e del popolo tedesco e di relativizzare l’Olocausto.
Da quel momento Ernst Nolte è considerato il capofila del “revisionismo”, subendo spesso attacchi, minacce fisiche (gli viene incendiata un'auto) e contestazioni, come avviene ad esempio nel 2009 a Trieste, dove il Comune lo aveva invitato a tenere una conferenza per il ventennale della caduta del Muro. E quando nel 2000 la fondazione dei cristiano-democratici tedeschi, la Konrad-Adenauer-Stiftung, gli assegna un premio per la letteratura, Angela Merkel, allora a capo del partito, si rifiuta di tenere la laudatio.
I limiti delle tesi di Nolte sono noti. Non convince la ricostruzione delle origini della guerra civile che ha coinvolto l'Europa fino al 1945 e la centralità attribuita alla rivoluzione russa del 1917, senza considerare la crisi del liberalismo, lo stravolgimento provocato dalla Grande Guerra e la precedente incubazione ideologica del nazionalismo, del pensiero antidemocratico e del mito biologista e della razza.
Inoltre Nolte, pur non negando l’Olocausto, derubrica e in qualche modo minimizza l’antisemitismo e il razzismo biologico di Hitler, inquadrando lo sterminio degli ebrei nell’ambito della reazione al bolscevismo. Una tesi resa ancor più discutibile dalle posizioni anti-israeliane dell’autore, che in interviste ed interventi pubblici non aveva esitato a porre in relazione, in modo poco ortodosso, bolscevismo, nazismo e sionismo. Un revisionismo che partendo da basi giuste (la necessità di studiare il nazismo e di non ignorare gli altri stermini e gli altri totalitarismi, a partire dal comunismo sovietico) era però pian piano scivolato verso il negazionismo.
 
(Il Messaggero del 19 agosto 2016)

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Storie – Il diario perduto del nazismo

di Mario Avagliano

   Tre anni fa, nell'aprile del 2013, l’ex agente dell’FBI Robert Wittman ritrovava il diario inedito di Alfred Rosenberg, il filosofo tedesco padre dell'ideologia e delle teorie antisemite del nazismo e membro di spicco dei gerarchi di Hitler. Ora quel documento viene pubblicato, a cura dello stesso Wittman e di David Kinney, con il titolo “Il diario perduto del nazismo. I segreti di Adolf Hitler nei diari inediti di Alfred Rosenberg e del Terzo Reich” (Newton & Compton).

Rosenberg svolse un ruolo di primo piano nel nazismo.  Quando nel 1923 Hitler venne arrestato per un fallito colpo di stato, divenne capo ad interim del partito. Nel 1933 venne nominato responsabile esteri e nel 1941 aiutò a pianificare l’operazione Barbarossa di invasione dell’Unione Sovietica. Negli ultimi anni del regime nazista fu «Ministro dei territori occupati», ruolo grazie al quale ebbe modo di impegnarsi in prima persona alla realizzazione del piano di sterminio di massa della popolazione ebraica,

Il diario, già rinvenuto negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale, nascosto dietro una finta parete in un castello bavarese, era stato utilizzato come prova durante il processo di Norimberga ma poi se ne erano perse misteriosamente le tracce. Ritrovato da Wittman, viene per la prima volta pubblicato. Tra i brani più interessanti delle 425 pagine del volume, figurano sicuramente quelli finali, che riportano i pensieri e le parole di Hitler nei giorni precedenti alla sua morte.

(L'Unione Informa e Moked.it dell'11 ottobre 2016)

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Storie – Il fisico che vendette l’anima a Hitler

di Mario Avagliano

   Un fisico brillante, che a 23 anni aveva già scoperto la meccanica quantistica, due anni dopo nel 1927 elaborava il principio di indeterminazione, ed ad appena 31 anni si si aggiudicava il Nobel per la fisica. Ma che non mosse un dito quando i suoi colleghi ebrei furono perseguitati dal nazismo e anzi poi collaborò al progetto di bomba atomica di Hitler. È la storia oscura di Werner Karl Heisenberg, raccontata in uno straordinario romanzo dallo scrittore francese Jérôme Ferrari, dal titolo “ll principio” (e/o, pagine 137). Un uomo timido, di grande intelligenza, che amava la musica e le passeggiate nei boschi.
Gli scienziati in quegli anni furono costretti a drammatiche scelte. La scienza, sotto il totalitarismo, non poteva essere neutrale. E così Heisenberg, che aveva seguito con indifferenza l’ascesa di Hitler e osservato in silenzio l’espulsione degli scienziati ebrei dalle università e la fuga in America del suo amico Albert Einstein, col quale fino a poco tempo prima aveva discusso animatamente della teoria della relatività, non solo decise di restare in Germania ma partecipò anche al programma nucleare dei nazisti.
Quando i fisici tedeschi furono arrestati dai soldati americani, si giustificarono affermando che non conoscevano gli orrori della Shoah e che la loro collaborazione al programma nucleare aveva scopi puramente pacifici. Una bugia pietosa che non li assolveva affatto dalla complicità al nazismo.

(L’Unione Informa e Moked.it del 13 settembre 2016)

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Storie - La legge del sangue

di Mario Avagliano

  L’enigma del nazismo resta ancora da scoprire. Come fu possibile che un'intera nazione, civile come la Germania, poté essere coinvolta o complice dell'orrore?  Lo storico Johann Chapoutot in “La legge del sangue” (Einaudi, pp. 472) tenta di spiegare il mistero, analizzando come si formò e quali erano i fondamenti di quello che oggi si definirebbe lo storytelling nazista. Un lavoro di ricerca compiuto esaminando una serie incredibile di libri, articoli, documenti, immagini, film, prodotti nell'arco di circa mezzo secolo in Germania da filosofi, giuristi, medici, antropologi, biologi, storici, etnologi, studiosi delle razze, chimici, e persino botanici o zoologi, ma anche registi o giornalisti.

Secondo Chapoutot l'insieme della «cultura » nazista converge verso un focus fondamentale: la «legge del sangue», una presunta legge della natura che, nelle intenzioni di Adolf Hitler e dei suoi discepoli, prescriveva la rigenerazione della razza attraverso politiche d'intervento sulla procreazione, la salute e la conservazione del «sangue tedesco», liberandolo da tutti i possibili agenti di contaminazione. L’obiettivo era quello di rendere la pura razza ariana capace di combattere i nemici, regnando sul mondo.

Sulla base di questa tesi, Chapoutot presenta nel suo saggio una specie di guida o cartografia “dei discorsi, saperi e credenze che lentamente ma in modo inesorabile resero possibile e dotarono di significato il terrore, i crimini e le pratiche di sterminio che furono l'architrave della politica nazista”.

(L'Unione Informa e Moked.it del 19 luglio 2016)

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Storie – La decisione di Thomas Mann

di Mario Avagliano
 
 Nella notte buia d’Europa nella prima metà del Novecento, ci fu un intellettuale tedesco che ebbe il coraggio di denunciare il nazismo e l’antisemitismo. Un romanzo di Britta Böhler, «La Decisione», appena uscito per i tipi di Guanda, ci racconta in modo mirabile lo stato d’animo dello scrittore nei tre giorni (dal 31 gennaio al 2 febbraio 1936) in cui, dall’esilio in Svizzera, decise di esporsi e di pubblicare sul giornale Neue Zurcher Zeitung una lettera durissima nei confronti del regime di Hitler.

Una scelta difficile per uno scrittore che si considerava un patriota e che appena tre anni prima aveva dedicato al suo Paese il premio Nobel per la letteratura: "Depongo questo premio mondiale ai piedi della Germania e del mio popolo". Ma una scelta necessaria. Come aveva scritto nella lettera, era convinto che "Dall'attuale governo tedesco non può venire nulla di buono né per la Germania né per il mondo".
Parole profetiche le sue, anche sull’antisemitismo: "L'odio dei tedeschi o dei loro governanti per gli ebrei è il tentativo di scrollarsi di dosso legami di civiltà e minaccia di portare a un orribile e sciagurato allontanamento tra la terra di Goethe e il resto del mondo".
Il suo coraggioso appello non fu raccolto. Ma la sua «decisione» e il suo coraggio restano un esempio straordinario di come ci si debba opporre alle dittature e all’orrore.

(L’Unione Informa e Moked.it del 14 giugno 2016)

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