Il partigiano e i misteri del Duce

di Mario Avagliano

  Chi uccise Benito Mussolini e la sua amante Claretta Petacci il 28 aprile del 1945? E quali misteri nasconde la tragica fine del dittatore fascista, il cui corpo venne poi appeso a testa in giù a Piazzale Loreto a Milano, proprio nel luogo dove nell'agosto del '44 erano state esposte in pubblico per sfregio le salme di quindici partigiani? Gli storici non sanno ancora dare una risposta definitiva a questi quesiti. E ieri è morto a 94 anni, nella sua casa a Brescia, uno degli ultimi testimoni di quegli avvenimenti, l'ex partigiano Bruno Giovanni Lonati, nome di battaglia «Giacomo», commissario politico della 101a Brigata Garibaldi.
Nel 1994 Lonati pubblicò il libro "Quel 28 aprile. Mussolini e Claretta: la verità" (Mursia), in cui si assunse la responsabilità di essere stato l'autore materiale dell'uccisione del dittatore fascista, tre giorni dopo la liberazione di Milano. Un'esecuzione che sarebbe avvenuta poco dopo le ore 11, in una stradina a Bonzanigo di Mezzegra, sul lago di Como, nell'ambito di una missione segreta diretta da un agente segreto inglese, figlio di emigrati italiani in Gran Bretagna, detto «il capitano John», ufficiale dello Special Operations Executive (Soe).
Una testimonianza clamorosa, che smentiva la versione ufficiale circolata per cinquant'anni, in base alla quale ad uccidere Mussolini con una scarica di mitra Sten era stato il partigiano comunista Walter Audisio, il famoso Colonnello Valerio, coadiuvato dai compagni Michele Moretti e Aldo Lampredi, davanti al cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra; azione poi rivendicata dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia con un comunicato emesso il giorno dopo.
Secondo la versione di Lonati, poi definita dagli storici "la pista inglese", lo scopo della missione sarebbe stato il recupero del presunto carteggio tra Winston Churchill e Mussolini, al fine di cancellare le tracce di quel rapporto imbarazzante, attraverso la soppressione di due scomodi testimoni, lo stesso duce e la Petacci, prima che finissero nelle mani degli americani, che avrebbero voluto sottoporre il capo del fascismo ad un processo.
Il memoriale di Lonati afferma che il "carteggio Churchill-Mussolini" non fu trovato e che tuttavia i servizi segreti inglesi avrebbero concordato il silenzio di Lonati e dei due partigiani superstiti per altri cinquant'anni. Per tale motivo il suo libro sarebbe uscito solo allora.
Una ricostruzione dei fatti confermata nel 2002, con nuovi dettagli, dal giornalista Luciano Garibaldi nel saggio "La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci" (Ares), oltre che dall'ex agente segreto americano Peter Tompkins, secondo cui addirittura il futuro segretario del Pci Luigi Longo avrebbe organizzato la finta fucilazione del duce per nascondere la verità. Lo stesso Renzo De Felice, nel libro "Rosso e Nero" (Baldini e Castoldi, 1995), ritenne credibile un intervento inglese per eliminare Mussolini ed evitare una sorta di processo di Norimberga nei confronti del duce.
Il racconto di Lonati, però, era privo di riscontri documentali e presentava diversi punti oscuri, contrastanti con i risultati di altre ricerche storiche. L'orario dell'esecuzione fu davvero le 11 di mattina o le quattro e dieci di pomeriggio come riferisce la versione ufficiale? Come mai il carteggio tra Churchill e Mussolini non è mai venuto fuori? Perché l'altro componente del commando di Lonati, all'epoca ancora vivente, si rifiutò di confermare la sua versione? Va detto che fra l'altro il numero di colpi sparati dichiarato dall'ex partigiano "Giacomo" non corrisponde con i rilievi compiuti sul corpo di Mussolini e che Lonati si sottopose anche all'esame della macchina della verità, con esito negativo.
Di recente lo storico Mimmo Franzinelli ha smontato pezzo per pezzo, con uno studio documentato, la tesi dell'esistenza di un carteggio segreto tra il duce e lo statista britannico ("L'arma segreta del Duce. La vera storia del carteggio Churchill-Mussolini", Rizzoli, 2015). La "pista inglese" si è quindi di fatto indebolita. Resta da capire il motivo che avrebbe spinto un personaggio di rilievo come Lonati a sostenere tale tesi e ad alimentare quella che sembra una grande "bufala" storica.
E infatti l'ex partigiano "Giacomo", nato a Legnano il 3 giugno 1921, non fu un esponente di secondo piano della Resistenza. Fu commissario politico della 101a Brigata Garibaldi e comandante di una divisione partigiana formata da tre brigate operanti nel capoluogo lombardo. Nel dopoguerra Lonati riprese il lavoro alla Franco Tosi e trasferitosi poi a Torino nel 1958, ricopri incarichi di dirigente alla Fiat e negli anni ottanta guidò a Bari un'importante società metalmeccanica. Dopo la pensione si stabilì a Brescia, dove ha trascorso gli ultimi anni della sua vita, prima di portare i suoi segreti nella tomba.

(Il Messaggero, 17 novembre 2015)

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Storie – La marcia su Roma e il mito del buon fascismo

di Mario Avagliano

   Che strano Paese senza memoria è il nostro. Due giorni fa, il 28 ottobre, si sono tenute in varie parti d’Italia (da Perugia alla Lombardia, passando per Predappio) manifestazioni celebrative dei novant’anni della sciagurata marcia su Roma del 1922, che aprì la strada al ventennio fascista e alla soppressione delle libertà civili. Ad Affile, nel Lazio, è stato innalzato con i finanziamenti della Regione un mausoleo a Rodolfo Graziani, ministro della guerra di quella Repubblica Sociale che combatté contro partigiani e alleati e diede la caccia agli ebrei. Un uomo che fu processato e condannato per collaborazionismo con i nazisti e fu incluso dall’Onu nell’elenco dei criminali di guerra per l’uso dei gas tossici in Etiopia.

A Roma i gruppi di estrema destra hanno organizzato al Campidoglio convegni su personaggi della Repubblica Sociale e blitz nei licei al grido di “Viva il duce!”.  A Castellafiume, in provincia dell’Aquila, è stata dedicata una strada a Cornelio Di Marzio, «scrittore e poeta» si legge nella targa, che omette però di ricordare che costui nel 1920 fondò i primi fasci nella Marsica, fu il segretario politico del fascio di Avezzano e della federazione fascista marsicana e poi divenne segretario generale dei Fasci all'estero e membro del Gran Consiglio del Fascismo, della direzione del PNF e console della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Negli istituti superiori di tutta Italia proliferano i gruppi che si richiamano, apertamente o velatamente, al neofascismo, con tanto di profili su Facebook che vantano migliaia di contatti. Appena qualche mese fa a Giulino di Mezzegra, in provincia di Como, dove Benito Mussolini e Claretta Petacci vennero fucilati 67 anni fa, l’Unione nazionale combattenti della Repubblica sociale italiana ha organizzato un corteo che si è recato alla casa dove il duce e la sua amante avevano trascorso l’ultima notte, per affiggervi una lapide. Solo folklore? Di fronte a tanti segnali convergenti, è difficile non essere preoccupati. La sensazione è che la discutibile opera di riscrittura politica della storia nazionale avviata negli anni Novanta, tesa a rivalutare il fascismo e Salò, a ridimensionare le responsabilità italiane nella persecuzione degli ebrei e a denigrare la Resistenza e la Costituzione repubblicana, abbia prodotto gravissimi danni culturali nel comune sentire, ai quali non sarà facile rimediare. E la crisi economica internazionale fa il resto, dando fiato agli estremismi.

(L'Unione Informa, 30 ottobre 2012)

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L'ebraismo ufficiale e gli ex fascisti

di Dario Calimani

  Già mi stavo preoccupando per una mia certa monomaniacalità. Pensavo che il ritorno del fascismo sotto mentite spoglie di varia foggia fosse una mia fissazione allucinatoria. Ora vedo che altri, con competenza e sensibilità, affrontano il delicato argomento. Eppure fino a qualche tempo fa abbiamo rispolverato senza troppi riecheggiamenti lo spauracchio vergognoso di certo collateralismo tipo ‘La nostra bandiera’, di quegli ebrei che in altri tempi hanno levato in alto il vessillo del fascismo e l’hanno fatta sventolare con orgoglio, mentre altri ebrei ingoiavano olio di ricino e prendevano mazzate sulla schiena.
Ma questi nuovi fascisti sono grandi amici di Israele, si è detto, magari pur rimanendo nel loro intimo viscerali antisemiti. La storia, come spesso accade, non ci ha insegnato molto. Ci siamo entusiasmati alle conversione democratica degli ex-fascisti, li abbiamo accompagnati ammiccanti, abbiamo sparso fiori al loro passaggio. E il nuovo fascismo di chi è figlio, dunque? E l’ebraismo italiano ufficiale, se non la società civile, vorrà prima o poi occuparsi con meno contingenza dell’argomento aprendo un dibattito ampio e approfondito? Ci vuole coraggio, naturalmente, e, si sa, si rischia di perdere qualche amico, ma ne va della nostra salute e della salute della nostra democrazia.

(L'Unione Informa, 30 ottobre 2012)

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Storie – Il 17 novembre, le leggi razziste e i baroni di razza

di Mario Avagliano 

  Il 17 novembre del 2013 ricorre il 75° anniversario dell’emanazione del regio decreto legge sulle leggi razziali (meglio sarebbe dire leggi razziste). Un appuntamento importante per riflettere e approfondire, anche dal punto di vista storiografico, la prima fase della persecuzione degli ebrei in Italia, quella che Michele Sarfatti ha definito la persecuzione dei diritti, un po’ messa in ombra dalla tragicità della fase successiva della Shoah.
Io credo che il 27 gennaio costituisca una data-simbolo insostituibile del calendario internazionale della Memoria. Non vi è dubbio però che quella giornata riguardi in particolare le immani responsabilità della Germania nella vicenda delle deportazioni, non solo di tipo razzista, ma anche politico e militare. E per evidenti motivi, a partire dall’altissimo numero delle vittime, nelle scuole, sui giornali, nei convegni si parla quasi esclusivamente dell’esperienza dei lager.

Il dramma universale di Auschwitz, in qualche modo, oscura il 1938. E a noi italiani, bisogna ammetterlo, in fondo questa lettura storica non dispiace, perché ci consente di autoassolverci e, come diceva Vittorio Foa, di scaricare sui tedeschi il peso storico che portiamo sulle nostre coscienze e di soffermarci sui Giusti e sugli episodi, che pure ci sono stati, di salvataggio degli ebrei.
D’altra parte l’incredibile fretta con cui, dopo la liberazione, in un clima imbevuto di logiche di amnistia collettiva, ci si precipitò ad archiviare quanto accaduto tra il 1938 e il 1943, ha impedito una vera presa di coscienza del passato e ha coperto, omettendoli, i nomi e i cognomi dei responsabili. Che non furono solo Benito Mussolini e i gerarchi fascisti.
Un bel libro appena uscito, Baroni di razza di Barbara Raggi (Editori Riuniti, 216 pagine), spiega, come recita il sottotitolo, «come l’Università del dopoguerra ha riabilitato gli esecutori delle leggi razziali». Per sei anni intellettuali, docenti universitari, magistrati, avvocati e funzionari di basso e di alto livello prestarono la propria opera al servizio della propaganda antisemita e della persecuzione. Rimasero tutti (o quasi) al loro posto. L’epurazione annunciata dal nuovo Stato democratico non ci fu e l’apparato burocratico, culturale, amministrativo del fascismo “subentrò” a se stesso, in una sostanziale continuità.
I baroni del potere culturale, scientifico, professionale e universitario, che avevano fatto il bello e il cattivo tempo durante il Ventennio mussoliniano, scansarono senza colpo ferire le dure sentenze della Storia. E a questo gioco, rivela lo studio di Barbara Raggi, si prestarono anche figure luminose dell’antifascismo, come Guido Calogero, che ad esempio scrisse una lettera già nel 1944 per difendere Antonio Pagliaro, insigne linguista e glottologo, che aveva fatto parte del Consiglio superiore della demografia e della razza e aveva “lavorato” per dare un’inclinazione storica e culturale al razzismo fascista. Grazie a Calogero anche Pagliaro venne degnamente riabilitato nel 1946 e concluse serenamente la sua carriera col rango di professore emerito.
I francesi, com’è noto, hanno  istituito una giornata nazionale del ricordo il 16 luglio, data in cui nel 1942 fu attuato il cosiddetto Rastrellamento del Velodromo d'inverno e le milizie francesi arrestarono 13.152 ebrei, gran parte dei quali furono deportati e morirono ad Auschwitz. A titolo personale, avanzo una proposta. Perché non fare lo stesso anche in Italia, magari in coincidenza dell’anniversario del 2013, istituendo un giorno della memoria delle responsabilità nazionali proprio il 17 novembre, data di emanazione delle leggi razziali del 1938?

(L'Unione Informa, 13 novembre 2012)

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Storie – Facebook e I Giovani Fascisti Italiani

di Mario Avagliano

«Gruppo per soli FASCISTI, chi non condivide gli ideali del Fascismo non è benvenuto. Per la rinascita dell'Italia! FASCISMO VUOL DIRE: ORDINE, RIGORE, POTENZA, UNIONE, LEGALITA', GIUSTIZIA, AZIONE, RINNOVAMENTO, PATRIA, LIBERTA', AMORE, FAMIGLIA, LAVORO». Non è uno scherzo. È la scheda di presentazione di un gruppo “regolarmente” costituito sul social network Facebook, denominato I Giovani Fascisti Italiani.

Un gruppo che ha già raccolto oltre 34 mila «mi piace». E che vomita slogan tipo questo: «Meglio avere un dittatore che mi dia da mangiare che una democrazia che mi fa morir di fame… Meglio avere un dittatore che pensi all’Italia, che una democrazia che la distrugge. Meglio avere un dittatore che ama il popolo italiano, che una democrazia che ama le banche, i massoni e gli extracomunitari e non».
E non è la sola pagina di questo tenore esistente su Facebook. In rete con I Giovani Fascisti Italiani ci sono gruppi o pagine come Cuore nero anima tricolore, con lo slogan «Il Duce ha sempre ragione», Benito Mussolini eterna passione, Italia fascista, Fasci littori di combattimento (che “simpaticamente” definisce Roberto Saviano «filoisraeliano» e «ebreo di merda»), Fuori tutti gli immigrati dall’Italia, Benito Mussolini duce d’Italia (che apostrofa il presidente della Repubblica Napolitano con «un bavoso pezzo di merda»), Repubblica Fascista d’Italia, Dio Patria e Famiglia (dove, in riferimento a quanto avviene in queste ore in Israele e a Gaza, si leggono commenti del tipo «MALEDETTO ISRAELE!!!!!! portano solo guai, sti giudei!!») e via dicendo.
L’elenco è lunghissimo e comprende anche CasaPound Italia e Blocco Studentesco, che ormai raccoglie migliaia di studenti in moltissime città italiane e il 24 novembre ha indetto una manifestazione nazionale a Roma contro il governo, organizzata con CasaPound Italia.
Sono tutti gruppi o pagine con decine e decine di migliaia di iscritti o di «mi piace», dotati anche di giornali on line e di web-radio (come radiobandieranera.org). Una galassia nera da far spavento. E che, giorno dopo giorno, cresce nelle scuole, sulla rete, nella società.

(L'Unione Informa, 20 novembre 2012)

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Forte Bravetta. La fabbrica di morte

di Mario Avagliano

  Dopo la presa di Porta Pia, il giovane Regno d’Italia si preoccupò di allestire una linea di difesa militare dal Tirreno all’Adriatico. Il progetto definitivo approvato dal Parlamento nel 1878 prevedeva che Forte Bravetta, sulla via Aurelia, fosse una delle quindici fortezze di tipo prussiano poste a difesa di Roma capitale. All’epoca nulla lasciava prevedere che quella lugubre e massiccia costruzione, con il portone di ferro e un terrapieno alto 15 metri, sarebbe diventata un monumento a cielo aperto della Resistenza romana e dell’opposizione al fascismo e al nazismo, al pari di Regina Coeli, via Tasso e le Fosse Ardeatine.

La storia di questo triste edificio, che ospitò le fucilazioni eseguite a Roma dal 1932 al 1945, è stata ricostruita da Augusto Pompeo nel saggio Forte Bravetta. Una fabbrica di morte dal fascismo al primo dopoguerra (Odradek, pp. 300, euro 23).
Nel 1926 il regime fascista, allo scopo di ridurre al silenzio ogni forma di opposizione, istituì il Tribunale speciale per la difesa dello Stato e reintrodusse la pena capitale, abolita quasi quarant’anni prima dal codice Zanardelli. Fino all'8 settembre 1943 il «Tribunale di Mussolini» colpì, in prevalenza, presunti attentatori al capo del governo, agenti al servizio di potenze straniere, «slavofili», partigiani appartenenti a formazioni jugoslave operanti in Venezia Giulia e anche alcuni rapinatori e «borsari neri».
I condannati erano rinchiusi nel carcere di Regina Coeli dove, come scrive Giuseppe Kiraz alla cugina, «di notte si dorme poco» e si stava in compagnia di «centinaia, migliaia di cimici, piccole, grosse, bianche e rosce di tutte le varietà». Di lì venivano condotti al forte e fucilati alla schiena come traditori, come voleva il codice penale fascista. Le prime condanne ad essere eseguite riguardarono due antifascisti fuoriusciti all’estero, l’industriale Domenico Bovone e l’anarchico Angelo Pellegrino Sbardellotto, rientrati in Italia per uccidere Mussolini e liberare il Paese dalla dittatura.
Dopo l’armistizio le sentenze di morte furono emanate dalle autorità tedesche di occupazione e riguardarono, in prevalenza, oppositori e combattenti della Resistenza romana, arrestati spesso da militi della Repubblica sociale e su delazione di italiani. Le ultime fucilazioni, invece, furono eseguite dopo la liberazione di Roma e decretate da tribunali italiani e alleati costituiti per punire chi aveva collaborato con i tedeschi e i fascisti repubblicani.
Augusto Pompeo, utilizzando documenti d'archivio, resoconti della polizia, relazioni dei questori, lettere dei condannati a morte e dei loro congiunti e testimonianze di persone che vissero quegli eventi, ha recuperato le biografie dei caduti e ripercorso le vicende di quel periodo.
Le scariche di fucileria colpirono uomini assai diversi fra di loro. Alcuni provenivano dalla Venezia Giulia o dall’allora regno di Jugoslavia. Altri, pur nati in Italia, avevano trascorso parte della loro vita lontano dalla penisola per sfuggire alle persecuzioni politiche. Altri si trovarono, spesso non più giovani, a fare la «scelta di campo» nella «Città aperta» di Roma dopo essersi opposti alla dittatura fascista. Altri ancora furono fucilati per aver commesso delitti comuni o per aver collaborato con fascisti e nazisti.
Strazianti sono le ultime lettere dei partigiani condannati. «Amate la libertà e ricordate che questo bene deve essere pagato con continui sacrifici e qualche volta con la vita», è il messaggio del comunista Pietro Benedetti. «Me ne vado cosciente di avere sempre fatto il mio dovere di uomo», mandò a dire Antonio Lalli al figlio Luigi. «Come sai non ho fatto nulla che possa disonorarti, perciò puoi sempre andare a fronte alta», scrisse nella sua ultima lettera alla moglie Salvatore Petronari.
Una delle figure più luminose dei resistenti fucilati a Forte Bravetta è quella di don Giuseppe Morosini, collaboratore del Fronte militare clandestino di Giuseppe Montezemolo ed ispiratore (assieme a don Pietro Pappagallo) della figura del sacerdote del film Roma città aperta di Roberto Rossellini. Don Morosini si prodigava per aiutare oppositori e ricercati a nascondersi e celebrava messa per i partigiani nelle caverne e nei nascondigli di Monte Mario.
L’auspicio è che ora, anche grazie a questo libro, il sito di Forte Bravetta, abbandonato a se stesso, venga recuperato all’uso pubblico e divenga davvero, come propone Augusto Pompeo, “il luogo della memoria, oltre che dell’antifascismo e della Resistenza, anche dell’abolizione di un istituto arcaico e barbaro come la pena di morte da parte della neonata Repubblica italiana”.

(Il Messaggero, 4 dicembre 2012)

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Mussolini-Churchill, carteggio fantasma

di Mario Avagliano

Davvero il primo ministro inglese Winston Churchill brigò col duce Benito Mussolini per far entrare in guerra i soldati italiani al fianco dei tedeschi e poi condizionare Adolf Hitler nelle trattative di pace? Se ne parla dall’immediato dopoguerra, favoleggiando di fantomatici viaggi di Churchill in Italia e di manovre oscure del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e dei servizi segreti italiani e stranieri per distruggere le prove di questo complotto. Ma il carteggio tra i due uomini politici, divenuto il prototipo dei misteri d’Italia, sarebbe solo una “leggenda nera”, creata ad arte per rivalutare la figura di Mussolini. È la conclusione a cui giunge, sulla base di un’approfondita ricerca storica e un robusto apparato di documentazione, il saggio di Mimmo Franzinelli L’arma segreta del Duce (Rizzoli, pagine 439, euro 23).

Franzinelli non è nuovo in lavori di demolizione di tesi storiche campate in aria o di documenti falsi, come i presunti diari di Mussolini (vedi Autopsia di un falso. I Diari di Mussolini e la manipolazione della storia, Bollati Boringhieri 2011). Questa volta a farne le spese sono le misteriose lettere tra il duce, Churchill e altri famosi personaggi (tra cui re Vittorio Emanuele III, Badoglio, De Gasperi, Grandi, Sforza, e a ecclesiastici del calibro di don Luigi Sturzo e monsignor Giovanni Battista Montini, il futuro papa Paolo VI) che riguarderebbero l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 e l’accordo segreto secondo cui, in caso di sconfitta della Gran Bretagna, Mussolini avrebbe mitigato le pretese di Hitler al tavolo della pace in cambio di concessioni territoriali.
La caccia alla borsa di documenti di Mussolini si aprì già nell’aprile 1945. “Per l’Italia valgono più di una guerra vinta” aveva confidato il Duce al gerarca Alessandro Pavolini. I clamorosi documenti (custoditi da personaggi di dubbia reputazione), apparvero sulla stampa negli anni Cinquanta e divennero oggetto di negoziazioni, ricatti, speculazioni tra Italia e Svizzera, Germania e Regno Unito, alimentando numerosi servizi giornalistici e monografie. Ci cascò perfino il massimo esperto del fascismo Renzo De Felice, seguito peraltro da altri illustri storici.
Franzinelli, nel suo saggio, osserva che tutti i personaggi coinvolti nell’intrigo internazionale  “vengono presentati con una connotazione negativa, come egoisti e doppiogiochisti. Gli unici documenti che sprizzano idealismo e amor patrio sono quelli a firma di Mussolini”. Quanto a Churchill, dopo aver concordato col Duce l’ingresso italiano in guerra, avrebbe violato le intese riservate.
Esaminando un’ingente mole di fonti diplomatiche, epistolari, testi di memorialistica e storiografia, Franzinelli boccia l’attendibilità di tale tesi. E spiega che nella primavera del 1940, Churchill, in qualità di Primo Lord dell’Ammiragliato ovvero ministro della Marina militare, dirigeva la guerra in Norvegia e aveva ben altre urgenze piuttosto che trattare col Duce. Sino alla sua investitura a premier, il 10 maggio 1940, non poteva offrire alcunché a Mussolini, né tantomeno rivolgerglisi in qualità di portavoce del Regno Unito.
Questo non significa che i due uomini politici ebbero fino a un certo momento storico buoni rapporti, in quanto Churchill apprezzava il Mussolini «antibolscevico» e nella seconda metà degli anni Trenta ambiva a scongiurare il rinsaldarsi dell’alleanza italo-germanica. Nel mese intercorso tra l’ingresso a Downing Street e la dichiarazione di guerra italiana, il 10 giugno 1940, Churchill scrisse effettivamente una lettera al duce, augurandosi che l’Italia rimanesse fuori dal conflitto, ma Mussolini con la sua risposta sprezzante pose fine ad ogni speranza sul protrarsi della non belligeranza dell’Italia.
La campagna di disinformazione sul carteggio iniziò già sotto Salò e continuò nel dopoguerra con quattro obiettivi indicati da Franzinelli: in primo luogo, strappare a grandi editori italiani e stranieri cospicui diritti di pubblicazione; poi, negoziare col governo la consegna di materiale apocrifo, per trarne vantaggi politici e per legittimare il Carteggio; non ultimo, modificare il senso comune su Mussolini e sui suoi oppositori, sollevando il Duce dalla responsabilità di una guerra disastrosa e addossando la disfatta agli antifascisti; e infine riprendere le ostilità contro la «perfida Albione» e denigrare Churchill, colpevole di aver vinto l’Italia fascista.

(Il Messaggero, 17 agosto 2015)

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Storie – Qui solo di passaggio

di Mario Avagliano

Quando nel giugno del 1940 l’Italia entrò in guerra, il regime fascista inasprì le misure persecutorie nei confronti degli ebrei. Tra i primi provvedimenti adottati, vi fu l’arresto e l’internamento in appositi campi o luoghi di confino di oltre 6 mila ebrei stranieri o apolidi residenti in Italia e di centinaia di ebrei italiani considerati “pericolosi”.
Nell’ultimo ventennio, a livello locale, si è cercato di ricostruire tramite ricerche d’archivio e interviste ai protagonisti dell’epoca le vicende individuali degli internati, molti dei quali poi finiti nel tunnel della morte dei lager nazisti.

L’ultima pubblicazione al riguardo, intitolata “…Siamo qui solo di passaggio”, è quella dell’Associazione il Fiume-Stienta, a cura di Maria Chiara Fabian e Alberta Bezzan, che hanno raccontato la storia degli ebrei internati in 20 comuni del Polesine, in provincia di Rovigo, per i tipi della casa editrice Panozzo di Rimini.
Il titolo riprende la frase dell’ultimo biglietto scritto da Werner Schlòss, giovane ebreo viennese internato a Fiesso Umbertiano con i genitori, prima di essere caricato sul treno piombato per Auschwitz. Lo scriveva agli amici Aldo e Mario Bombonati, che lo avevano accolto nella loro casa di campagna, profugo e fuggiasco dalla furia nazista, dal campo di Fossoli. Werner e i genitori vennero deportati e furono tra le vittime della Shoah italiana.
Il libro si avvale della grande mole di dati raccolta meritoriamente a livello locale da Luciano Bombarda e da altri appassionati. Un modo per contribuire a non perdere la memoria di quei giorni tristi e tragici.

(L’Unione Informa e Moked.it dell’1 settembre 2015)

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