Mario Avagliano

Mario Avagliano

Intervista a Pietro Lista, artista

di Mario Avagliano
 
 
“La Salerno di oggi culturalmente è un piattume”. A parlare così è Pietro Lista, 65 anni, allievo di Mario Colucci ed Emilio Notte all'Accademia di Belle Arti di Napoli, il più importante artista contemporaneo salernitano, assieme a Mario Carotenuto. Ha esposto i suoi dipinti a Parigi, Berlino, Tokio, Barcellona, Ginevra, Montecarlo, Hong Kong, Valencia, e le sue opere fanno parte di collezioni in varie nazioni del mondo, dalla Finlandia agli Stati Uniti d’America. Nello studio di Fisciano, in mezzo al suo “mondo disordinato di oggetti”, Lista racconta a la Città di avere un rapporto quasi erotico con la tela, rimpiange i ruggenti anni Settanta e il genio intellettuale di Filiberto Menna e svela che lui e l’amico Carotenuto si sono lanciati una “sfida” a colpi di pennelli: ritrarsi dal vivo, uno di fronte all’altro, guardandosi negli occhi. “Ho una fifa matta - afferma tra il serio e il faceto -. Mario è un maestro, ma sarà divertente!”.
 
Lei è nato in Umbria, anche se vive a Salerno da oltre cinquant’anni.
Sì, mi sono trasferito a Salerno con la mia famiglia nel 1954, due mesi prima dell’alluvione. Credo che sia stato un segno del destino, perché anche la mia vita è stata un’”alluvione” di sentimenti, di disastri, di emozioni… 
Ci parli dei suoi genitori.
Mio padre Salvatore era di origini lucane, maresciallo dei carabinieri. Era un uomo meraviglioso, dolcissimo, anche se faticava ad esternare il suo affetto verso i figli. Mia madre Amelia era napoletana, ed è stata la persona più importante della mia vita. Mi ha insegnato ad avere fede in Dio, e poi la generosità, la sensibilità, l’umiltà.
E’ vero che stava per diventare ragioniere?
Dopo la scuola media, mio padre voleva che facessi ragioneria. Io già allora ero un ribelle ed ero innamorato dell’arte, e allora scappai di casa perché volevo iscrivermi al liceo artistico. Ricordo ancora mio padre, vestito con un impermeabile bianco, che venne a prendermi a casa di un amico e mi scongiurò di tornare a casa perché mamma piangeva. E così ho frequentato prima il liceo artistico e poi l’Accademia delle Belle Arti di Napoli.
Chi sono stati i suoi maestri?
Ho avuto la fortuna di avere come insegnanti grandi artisti quali il pittore futurista Emilio Notte, Mario Colucci, fondatore del Gruppo 58, e il paesaggista Vincenzo Ciardo. Poi ho trovato l’amore, mi sono sposato con una ragazza finlandese e al terzo anno ho lasciato l’Accademia.
Ed è iniziata la sua carriera di artista.
Non è stato facile. E’ stato fondamentale l’incontro con Marcello Rumma, che è stato il mio mecenate e mi ha dato la spinta per andare avanti. Con lui, sul finire degli anni Sessanta, ho organizzato ad Amalfi tre grandi mostre, “L’impatto percettivo”, “Ritorno alle cose stesse” e soprattutto, nel ’68, “Arte povera + Azione Povera”, un’esposizione curata da Germano Celant. Marcello intuì subito la straordinaria vitalità di quella corrente artistica. In quel periodo conobbi artisti del calibro di Pistoletto, Fabro, Boetti, Anselmo, Kounellis, Merz, e critici del valore di Filiberto Menna e Achille Bonito Oliva.
Era un periodo d’oro per l’arte a Salerno?
Erano anni di grandi furori, di creatività, di fermenti. Nascevano nuove gallerie d’arte, come Il Catalogo di Lelio Schiavone. Gli artisti si confrontavano tra di loro. Si organizzavano eventi, rassegne, happenings. Insomma, era l’esatto contrario di oggi, dove prevale il piattume, e tutto è squallido e grigio.
Un giudizio duro.
E’ la realtà dei fatti. Ormai a Salerno sopravvive solo la splendida galleria di Lelio Schiavone. Diciamo la verità: si sente moltissimo la mancanza di una figura come Filiberto Menna.
Che ricordo ha di Filiberto Menna?
Era una persona straordinaria, che tengo nel mio cuore. Era un accentratore, che voleva la sua corte ma l’amava. Ci trattava come fratelli e ci incoraggiava a creare e a sperimentare.
E che ne pensa di Achille Bonito Oliva?
Sono legato a lui da grande affetto e da antica amicizia. Sul piano umano in passato abbiamo avuto qualche screzio, ma lo stimo tantissimo. E’ una figura creativa della critica italiana, una risorsa preziosa della cultura del nostro Paese.
Anche lei in quel periodo aprì una galleria d’arte.
Nel 1970 inaugurai la galleria Taide a Salerno, e in seguito fondai la rivista Taide - Materiali minimi. Ricordo che all’inaugurazione vennero Michele Santoro, Filiberto Menna, Celant. E’ stata un’esperienza meravigliosa, durata dodici anni, fino al 1982, quando fui costretto a chiudere lo spazio espositivo per il mio cronico problema di mancanza di fondi.
Qual è la mostra alla quale è più legato affettivamente?
La personale alla galleria Trans-Forum di Parigi, dove tra l’altro vendetti anche molte opere.
E la critica nella quale si è riconosciuto di più?
Quella di Achille Bonito Oliva il quale scrive letteralmente che per me “fare significa pensare, realizzare e fondare la propria cosmologia di immagini” e che la mia opera trova una premonizione nel mio nome, Lista, e diventa appunto “una lista d’attesa per il pubblico che aspetta l’epifania, l’apparizione dell’immagine”.
Perché l’epifania?
Io considero il quadro uno sguardo veloce sulla realtà. Una lampadina che si accende e poi si spegne. Il mio racconto nasce dal sudario della tela, dai grumi del colore. Su questo magma scorre il mio pennello, descrivendo scene in fondo teatrali. Ho la cultura profonda del segno che deve vibrare, ma cerco forzature, per analfabetizzare il mio segno e renderlo primitivo e sofferente. Mi eccita l’errore, l’imperfezione, in tutte le forme dell’arte. Per esempio, quando faccio ceramica, il filo attorno al piatto mi piace tremolante. Tendo a una pittura “sporca” come materia. Fare quadri eleganti non m’interessa.
Ha dei modelli o dei miti artistici?
I miei modelli sono Lucio Fontana, Bacon e, soprattutto, Morandi, che passò tutta la vita a dipingere bottiglie, come faccio io con le brocche.
Nel 1993 lei ha fondato a Paestum il Museo Materiali Minimi di Arte Contemporanea (MMMAC).
Ogni anno organizziamo una mostra importante. L’anno scorso abbiamo proposto una personale di Arnaldo Pomodoro. A luglio presenteremo un’esposizione di opere di Salvatore Paladino, in particolare il cavallo che lui ci ha donato, che ho intenzione di restaurare e di esporre sopra le mura, alcuni disegni e qualche statua.
Qual è il suo rapporto con Salerno?
Amo Salerno perché mi ha dato tutto. E’ una città bellissima e negli ultimi anni ha fatto un grosso scatto in avanti, soprattutto dal punto di vista urbanistico. Tuttavia, come ha detto Lelio Schiavone, oggi a Salerno fare è arte è un esercizio di testimonianza del tempo che fu. Sono molto amareggiato dal silenzio della cultura. 
Qualcosa si salverà dal punto di vista culturale…
Beh, a parte la galleria Il Catalogo e la Fondazione Menna, che comunque è una roccaforte di intellettuali, mi sembra che l’unico tentativo serio sia quello di Massimo Bignardi e del FRAC, il Fondo Regionale d’Arte Contemporanea, che ha realizzato a Baronissi. Anche noi artisti viviamo isolati uno dall’altro. Ognuno si è chiuso nel proprio castello.
Dimentica le grandi mostre al complesso di Santa Sofia?
Sicuramente la presenza a Salerno di opere di Picasso, di Mirò, di Warhol, è emozionante, ma paragonando le mostre salernitane ai meravigliosi allestimenti di Napoli, viene da dire che sono state un mezzo flop, forse perché sono stati stanziati pochi soldi.
Che cosa si potrebbe fare di più?
A Salerno manca uno spazio espositivo dove organizzare mostre. Ci vorrebbe il coraggio di creare una Galleria comunale e di nominare una commissione di esperti che selezioni nuovi pittori e scultori e permetta loro di esporre le proprie opere, di pubblicare un catalogo e di farsi conoscere dalla gente.
Chi stima tra gli artisti salernitani?
Innanzitutto Mario Carotenuto. Lo ritengo un artista eccezionale e un uomo perbene, sereno, come me. Anzi, le voglio raccontare una cosa. Abbiamo deciso di “sfidarci”. Un match artistico davanti a due tele bianche, ritraendoci dal vivo, guardandoci negli occhi. 
E a parte Carotenuto?
Ugo Marano, Virginio Quarta e Sergio Vecchio. E tra gli artisti emergenti, Giovanni Cavaliere, di cui apprezzo la pittura precisa, pulita, rigorosa.
E suo figlio Pier Paolo Lista?
Ha un segno straordinario. Racconta il quotidiano in modo originale, attraverso oggetti, bottiglie. La sua ultima mostra a Pavia ha avuto un grande successo. Ha un solo difetto, è un po’ svogliato. Ma è un giudizio che non fa testo: io sono della vecchia guardia, di quelli che considerano l’arte lavoro e artigianato. 
Come si definisce Pietro Lista come uomo?
Sono una persona di grande serenità e di grande fede, che si pone di fronte alla vita con la freschezza di un bambino e senza abbandonare mai il sorriso, anche se il mondo è cattivo e spesso mi ferisce. 
E come artista?
Ancora oggi a 65 anni di età mi alzo la mattina con l’entusiasmo di creare qualcosa. Io poi ho un rapporto fisico con la tela bianca, per me è come affrontare un amplesso con una donna. Il momento magico di quando ti siedi davanti a una superficie vergine è indescrivibile: è un caleidoscopio di immagini e di emozioni che ti corrono dentro. Quando dipingo, sono l’uomo più felice del mondo, con il mio sigaro toscano tra le labbra e un bicchiere di vino a farmi compagnia…
 
(La Città di Salerno, 16 aprile 2006)
 
 
Carta d’identità
 
Luogo e data di nascita: Castiglione del Lago (Perugia), 12 luglio 1941. Vive a Salerno dal 1954.
Separato, ha quattro figli: Riika, Amelia, Nuvola e Pier Paolo.
Titolo di studio: diplomato al Liceo Artistico di Napoli.
Hobby: collezionismo di sculture di falli (ne ha oltre 200).
Il libro preferito: La vita di San Francesco; il saggio “Lo sperma nero” del fratello Giovanni Lista, storico del futurismo; in genere tutti i libri d’arte.
Il film preferito: Fahrenheit 451 del regista francese François Truffaut e le pellicole di Federico Fellini.
 
Carriera: Pietro Lista a partire dagli anni Sessanta ha esposto le sue opere in tutto il mondo, partecipando alla VIII Biennale di Parigi ed alla X Quadriennale di Roma. Nel 1968 ha preso parte alla mostra "Arte povera - Azioni povere" a cura di G. Celant.  Nello stesso anno ha costituito il Gruppo Teatrale Artaud, e pubblicato il manifesto "Il Verbo sorge dal sonno come un fiore". Dal 1970 al 1982 ha diretto la Galleria d’Arte Taide.  Negli anni Ottanta ha iniziato a dedicarsi alla scultura e alla ceramica. Nel 1993 ha fondato il Museo d'arte contemporanea MMMAC di Paestum, intitolandolo a Marcello Rumma. Hanno scritto di lui i maggiori storici e critici d'arte italiani e internazionali: Argan, Dorfles, Menna, Bonito Oliva, Di Genova, Celant, Okamoto, Lemaire, Debeque-Michel, Barrier, Dalmijrò, Bory, Liot, Barilli, Trimarco, Mele. Per la grafica è stato segnalato in Bolaffi, nel 1969, da Filiberto Menna, nel 1976 da Achille Bonito Oliva. Ha realizzato numerose performances e girato tre film d'artista. 

 

Intervista ad Angelomichele Risi, artista

di Mario Avagliano
 
 
Sul biglietto della Lotteria Italia che sarà assegnata venerdì 6 gennaio, è riprodotta l’opera di un artista salernitano, Angelomichele Risi, 55 anni, originario di Fisciano. Allievo di Capogrossi e De Stefano, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Napoli, Risi ha partecipato alla X Quadriennale di Roma e alla Biennale del Sud ed è considerato dal critico d’arte Massimo Bignardi “il principale pittore salernitano a partire dagli anni Ottanta” perché ha saputo “declinare il linguaggio contemporaneo della transavanguardia” tenendo conto della “lezione della grande pittura italiana del Novecento”. Intervistato da la Città, Risi afferma che oggi a Salerno si vive un momento di tensione culturale di grande rilevanza, figlio dei fermenti positivi degli anni settanta, che dopo le mostre di Mirò e Picasso, ha portato all’attenzione un primo nucleo di opere di artisti  del territorio campano, con la presentazione della collezione del FRAC di Baronissi diretto da Massimo Bignardi.
 
Lei è nato e cresciuto a Fisciano. E’ cambiata dagli anni Cinquanta? 
E’ totalmente diversa da allora, anche come clima. Ricordo ad esempio che negli anni della mia infanzia d’inverno a Fisciano c’era sempre tanta neve e il paese era tutto imbiancato. Dal punto di vista sociale, Fisciano era caratterizzata dalla presenza di alcuni nuclei familiari forti come tradizioni. Le feste popolari per noi erano un appuntamento importante, che coinvolgeva tutta la popolazione. C’era anche una sana rivalità tra i due principali quartieri della città: Case Sarno, dove sorge la parrocchia di San Vincenzo, e Sabatini, dove c’è la Madonna delle Grazie. Si parlava tutto l’anno dei fuochi d’artificio, delle processioni, delle bande musicali, di chi riusciva ad organizzare la festa più bella, con reciprochi sfottò tra i paesani…
E’ mutato anche il sistema economico locale?
Eccome. Fisciano aveva una forte tradizione di artigianato legato alla lavorazione dei metalli, che ormai è scomparsa completamente. A Fisciano centro quasi tutti lavoravano il rame. C’erano due fonderie, le cosiddette “ramiere”, dove si fondeva il rame. A Penta, piccola frazione di Fisciano, c’era la tradizione del ferro battuto. A Lancusi, un’altra frazione di Fisciano, si fabbricavano le bilance e gli strumenti di precisione. Tutta l’economia locale girava intorno a questa attività, che però è stata abbandonata.
Come mai?
Sicuramente ha pesato il fenomeno migratorio degli anni Sessanta e Settanta. Molti fiscianesi sono emigrati in Germania, in Svizzera e, ancor di più, a Milano. L’altro motivo credo sia stato la pericolosità di questi mestieri, che si svolgono in un ambiente di lavoro inquinante, sempre a contatto con gli acidi. E’ quello che accaduto anche a me. Mio padre Andrea aveva una bottega artigiana di rame molto avviata e così anche mio nonno e mio zio. E’ stato lui a volere con determinazione che io studiassi e mi emancipassi da quella condizione.
La passione per la materia cromatica le deriva anche dall’esperienza della bottega di suo padre?
Le mie matrici artistiche affondano le radici nella tradizione dell’artigianato del rame, che ho anche manipolato da ragazzo, ma anche nel senso estetico del ricamo che caratterizzava il lato materno della mia famiglia. Le mie zie erano ricamatrici eccezionali. Bisogna anche dire che fin da piccolo ero consapevole di avere una grossa predisposizione per il disegno. Ricordo ancora con tenerezza il giorno in cui i miei zii americani mi regalarono una scatola di acquerelli. Avevo sei anni e mi parve di salire in cielo dalla contentezza.
Gli studi artistici sono stati quindi un percorso naturale?
Sì. Ho studiato all’Istituto d’arte a Salerno e poi mi sono diplomato all’Accademia di Belle Arti a Napoli, avendo come maestri tre grandi artisti italiani: Capogrossi, De Stefano e Scordia. Soprattutto i primi due mi hanno dato molto, aprendomi nuovi orizzonti e nuovi linguaggi.
In quegli anni a Salerno e in provincia si affacciava una giovane generazione di artisti.
Era un periodo di grandi fermenti. All’Università c’erano personaggi dello spessore di Filiberto Menna, Achille Bonito Oliva, Angelo Trimarco, Crispolti, Rino Mele. Ad Amalfi Marcello Rumma organizzava rassegne d’arte ad altissimo livello. A Salerno città, oltre allo straordinario Filiberto Menna, che non mancava mai di sostenerci e di incoraggiarci, un'altra persona molto attiva era Carmine Limatola, che poi negli anni Ottanta, sulla scia di Rumma, ha continuato il discorso delle rassegne d’arte internazionali ad Amalfi. A Napoli la galleria di Lucio Amelio era un vero e proprio centro artistico internazionale, frequentato dai più grandi pittori contemporanei, dove ad esempio ho potuto conoscere Andy Warhol. Insomma c’era un clima favorevole per noi giovani artisti, e così anche a Salerno, dopo la stagione  degli anni cinquanta che aveva visto emergere figure come  Carotenuto, la generazione sessantottina ha fatto i conti con una realtà diversa, ci siamo trovati di fronte una nuova economia dell’arte che si trovava di fronte un mercato diverso che andava oltre la dimensione della figurazione e  guardava con interesse al recupero dell’”oggetto”, alla poetica del “fare” e agli extra –media.
C’erano anche molte gallerie d’arte dove poter esporre le proprie opere.
Ricordo, accanto alla galleria Taide, che fondai nel 1974 insieme a Pietro Lista e Giuseppe Rescigno, la galleria Lapis–Arte  di Carmine Limatola  e la galleria Delta, che prestavano attenzione al contemporaneo ed allo sperimentale. Vi erano poi parallelamente altre  gallerie  che continuavano il discorso sulla figurazione, come Il Catalogo a Salerno e la galleria Il Portico a Cava de’ Tirreni, diretta da Sabato Calvanese e Tommaso Avagliano. 
Quali sono i suoi riferimenti culturali e come definirebbe il suo linguaggio artistico?
E’ evidente il mio guardare alla cultura artistica italiana e a figure emblematiche  quali Sironi, De Chirico e Carrà, coniugandole con la grande  avanguardia europea, da Cezanne al mio maestro Capogrossi, al suo segnismo declinato da una vivacità che tiene presente quanto di meglio ha prodotto la transavanguardia in questi ultimi decenni. Quanto al mio linguaggio artistico, io mi considero per certi versi un solitario, perché insisto testardamente nella ricerca intorno alla pittura,  alla materia, mentre la maggior parte degli artisti esplora altre modalità espressive. Io invece sono legato a doppio filo al pennello e alla tela, a strumenti che sono in apparenza arcaici in una società tecnologica come la nostra, ma che io adopero con la stessa curiosità e la stessa intensità dei colleghi artisti che si avvalgono del computer.
Lei ha esposto i suoi quadri e le sue opere in rassegne nazionali e in personali tenute a Monaco, Zagabria, Como, Roma, Napoli. C’è una mostra alla quale è legato di più, di cui va fiero?
Nel ’75, quando fui selezionato per la Quadriennale a Roma, fu per me un’emozione assai forte. Ricordo con piacere anche la Biennale del Sud del 1987, che mi vedeva assieme gli artisti più importanti dell’Italia meridionale. Andando a tempi più recenti, citerei la mostra di quest’anno al FRAC di Baronissi, curata con grande passione  da Massimo Bignardi ed Ada Patrizia Fiorillo, che vorrei ringraziare pubblicamente, e la mostra a Como, dove ho presentato le mie opere insieme a quelle di Castellani, uno dei più grandi artisti italiani contemporanei.
Com’è nata l’occasione della Lotteria Italia?
E’ stata una vera e propria “lotteria”, appunto. I Monopoli di Stato mi hanno selezionato tra una rosa di artisti contemporanei italiani e mi hanno convocato a Roma. Ho presentato loro alcune delle mie opere e alla fine hanno scelto “Terra di luce”.
Quali sono gli artisti salernitani che stima di più?
Carmine Limatola, per le continue riflessioni e provocazioni, e Sergio Vecchio, per la sua capacità di non farsi ammaliare dalle mode e di continuare la sua straordinaria ricerca su Paestum e sui miti. Poi ovviamente ho un grande rispetto per Mario Carotenuto.
Ha citato tre nomi che sono sulla scena da tempo. Non ci sono giovani talenti?
Sicuramente  ci sono moltissimi talenti, vedo una situazione in crescita, partendo da Scafati, con personaggi come Casciello, che è presente alla mostra sulla scultura italiana a Milano, Vollaro, Pagano, e ancora i giovani presenti alla Quadriennale di Roma, come Maiorino,  ben documentati dalla mostra  collezione del FRAC di Baronissi, e tanti altri che lavorano con un linguaggio diverso dal mio. Anche nel campo della critica, emergono giovani interessanti, come Marco Alfano, ma sicuramente ne dimentico altri. Viviamo un momento positivo per l’arte a Salerno e in provincia. Ci attendiamo  dalle istituzioni ulteriori segnali di apertura di nuovi spazi espositivi che consentono più momenti di confronto.
 
 (La Città di Salerno, 8 gennaio 2006)
 
Carta d’identità
 
Angelomichele Risi è nato a Fisciano (SA) il 10 settembre del 1950. 
Vive e lavora a Fisciano.
Sposato: sì
Figli: due (Andrea e Chiara)
Titolo di studio: Accademia delle Belle Arti di Napoli
Hobby: fotografia e collezione di apparecchi fotografici e di motociclette d’epoca (ne ha più di 30); è un grande esperto di disegno industriale e di motociclette, nel tempo libero si diverte a smontare motori, verniciare le moto e restaurarle 
Libro preferito: le biografie di De Chirico e di Carrà
Film preferito: ama tutto il cinema.
 
Fra le principali mostre personali si segnalano  quelle alla Galleria Taide di Salerno del 1977 e del 1980;  alla Galleria Pantha Arte di Como del  1982,  allo Studio  Cavalieri di  Bologna nel 1983,  mentre del 1984  sono quelle alla Galleria Giulia di Roma,  alla galleria Nova di Zagabria ed ancora a Como alla Galleria  Pantha  Arte.  Del 1986 è la personale alla Lapis Arte di Salerno,  mentre nel 1987 espone, con Bernd Zimmer , alla Galleria  Karl Pfefferle di Monaco  e nel 1991 all’Exofficina di  M.S. Severino. Nel  1999 espone alla Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Scafati ed al MMMAC di Paestum con Mimmo Paladino.  Partecipa  alla  X Quadriennale di Roma del 1975, Autodocumentazione, Salerno  del 1978,  Disegno gemello,Salerno  1982. Del 1985 è la presenza  alla Rassegna Internazionale di Amalfi ,Rondo’,  ed a Gallarate al XIII premio ‘Citta’ di  Gallarate,  mentre nel 1986  partecipa alla Rassegna Internazionale  ‘L’arsenale,il laboratorio, l’artista’ ad Amalfi. Del 1987 è ‘Dentro la pittura’ , Fondazione  Arechi  Arte, a Ravello;   ‘Il passo dell’acrobata, Auditorium S.Giovanni di Dio, Salerno;  ‘Pittura’ Arco di Rab, Roma Nel 1988 è invitato alla ‘Biennale del Sud’ , Accademia di Belle Arti di Napoli ;   ‘Disegno in Campania’ , Morcone.; Galleria  Fahlbusch  , Mannheim. Nel 1991, ‘Rassegna delle rassegne’ Forte la Carnale, Salerno ;  Invitato nel 1992 al XXXII Premio Suzzara;  nel 1996 realizza con  Zimmer e Vopawa un grande dipinto’Omaggio a Disler’  a Vietri sul Mare;  nel 1997 è presente alla mostra ‘Le vie della creta’,Villa Rufolo,Ravello.    Expo Arte  Bologna ,1998 Galleria Nanni ;  Galleria  ‘La canonica’, Milano;    ‘Piatto d’Artista’ , Parma. 1999  Suzzara, Galleria  Civica d’Arte Contemporanea   Premio  Suzzara ‘Opere 1989-1999’. Nel 2000, con Castellani, Marrocco e Minoli è presente a ‘Contemporanea Como5’,San Pietro in Atrio- Ex Ticosa, Como: ‘Arte come comunicazione di vita’ Rotary  Club  Milano Scala. Milano. Nel 2001 ‘Insorgenze nel classico –Sguardi in cammino da Oplonti’ Villa  Campolieto, Ercolano: ‘Corni d’autore’ Agora’ , Napoli: ‘Una luce per il Sarno’ Salone dei Marmi, Sarno:  ‘Akkampamento provvisorio’  Ex Idaf , Fisciano.  2005 ‘Sguardi diversi’ , Stella Cilento.:  ‘Tracce del disegno contemporaneo’ ,Fes Show Room, Minori.

 

Intervista a Rosario Pellegrino

di Mario Avagliano
 
 
La Salerno imprenditoriale ha poca fiducia nella classe politica locale e potrebbe scappare dalla città. “E’ più di un allarme. Noi stiamo già programmando il trasferimento di alcune delle nostre attività fuori Salerno”, avverte Rosario Pellegrino, 38 anni, capo di una holding nazionale presente a Salerno, Gubbio e Padova, che occupa 250 persone nel settore dei materiali edili, della plastica, del turismo e dell’abbigliamento, ed ha fatto registrare nel 2005 un fatturato complessivo di circa 10 milioni di euro. Il manager salernitano è anche presidente della Handball Pecoplast Salerno (squadra di pallamano femminile che milita in serie A) e proprio venerdì scorso ha acquistato un pacchetto azionario del 3% del Padova calcio. Nell’intervista a la Città Pellegrino sollecita i colleghi imprenditori a scendere in campo alle prossime elezioni amministrative, imponendo alle due coalizioni “strategie di sviluppo vero della città e la scelta di assessori tecnici e competenti in alcuni settori chiave dell’amministrazione: il bilancio, i lavori pubblici e lo sport”.
 
Se si guarda indietro e pensa al passato, che cosa le viene in mente?
Ricordo in particolare gli anni al liceo scientifico “Severi”, che sono stati per me importanti e formativi. Essendo nato nel ’68, nella seconda metà degli anni Ottanta ho vissuto dal di dentro il movimento studentesco e le occupazioni, ma anche le prime cotte, le amicizie, lo sport…
E’ stato anche arbitro di calcio.
Sì, ho iniziato a 16 anni e quando non ero ancora maggiorenne ho girato i campi di calcio di tutt’Italia, arbitrando sino alla serie C. Un hobby che ho coltivato fino al 2001.
Suo padre Egidio Pellegrino è stato un imprenditore importante a Salerno. Che rapporto ha avuto con lui?
Con mio padre ho avuto un rapporto meraviglioso. Era una personalità molto forte e la nostra è stata una famiglia patriarcale. Lui mi ha impartito un’educazione rigida, selettiva, ma allo stesso tempo - in maniera anche contraddittoria - è stato il mio miglior amico e mi ha dato affetto e confidenza massima. Ricordo per esempio con emozione quando da bambino mi portava con lui allo stadio a seguire la Salernitana. 
Quanto ha contato l’esempio di suo padre nella sua vita e nella sua carriera professionale?
Tantissimo. Mio padre ha fondato l’azienda di materiali edili nel 1965. E’ stato lui ad insegnarmi tutto. Una cosa in particolare gli devo: l’avermi trasmesso la passione per il lavoro senza impormi mai nulla e senza violentare la mia personalità. 
Lei ha cominciato a lavorare molto presto.
Credo di essere nato imprenditore, ho sempre immaginato di fare questo lavoro. Da quando avevo 15 anni ho passato le mie estati in azienda, svegliandomi alle sei di mattina e passando le mie giornate nello stabilimento, mentre i miei amici andavano al mare. Ho voluto imparare il mestiere partendo dalla produzione. Sono convinto che se non conosci a fondo una cosa, non la puoi trasmettere ai tuoi collaboratori. 
Studiava e lavorava…
Pensi che ho preso il diploma di maturità proprio mentre lanciavo sul mercato la mia prima creatura imprenditoriale, la Pelplast srl, che è nata nel 1985, affiancando all’attività di produzione di materiali edili, due nuove linee di produzione per gli shoppers, le buste di plastica per la spesa. A 18 anni d’età, ero già capo del ramo di azienda della plastica, mentre mio padre continuava a dirigere il ramo di azienda dei materiali edili. Mi sono laureato in Giurisprudenza studiando in ufficio, nelle ore serali. Non ricordo di aver mai portato un libro universitario a casa…
Nel 1995 lei e suo padre avete fondato la Pecoplast, che attualmente è l’azienda più importante del gruppo Pellegrino.  
La Pecoplast è nata da una join venture tra la famiglia Pellegrino e la famiglia Cornaglia di Torino, proprietaria di un grosso gruppo fornitore di primo livello della Fiat. In seguito all’apertura dello stabilimento di Melfi, la Fiat cercava un produttore di componenti di termoplastica a metà strada tra Melfi e Cassino, dove ha un altro importante stabilimento. Ha scelto noi in un ventaglio di 25 aziende tra basso Lazio e Campania.
La fiducia della Fiat è stata meritata?
La risposta è nei fatti. Nel 2001 abbiamo aperto un nuovo opificio a Salerno di 5 mila mq, nella nuova zona industriale. Attualmente Pecoplast fattura circa 6 milioni di euro all’anno, occupando circa 90 dipendenti articolati su tre turni.
Nel  2003 è morto suo padre. Come ha affrontato questo difficile momento personale e anche aziendale?
Dopo la morte di mio padre, mi sono trovato di fronte a due strade: o mi tuffavo ulteriormente nel lavoro oppure cedevo le attività e campavo di rendita. Gli avvoltoi erano già in agguato, pensavano che con la scomparsa della persona di riferimento, crollasse tutto…
E invece?
Invece il gruppo Pellegrino è cresciuto ancora di più. Oggi sono alla guida di una holding che occupa 250 dipendenti, che con la nascita della Tadi srl ora è impegnata anche nei settori del turismo e dell’abbigliamento, e che è presente con le proprie aziende a Salerno, a Gubbio e a Padova.
Parliamo dell’attività nel settore del turismo. 
Ho acquistato un castello medioevale a Gubbio, costruito da Federico Barbarossa nel 1063, di 2000 mq, e  l’ho trasformato in un suggestivo albergo aperto 365 giorni all’anno. Vengono da noi per i matrimoni, per trascorrere un piacevole week end  in Umbria, per organizzare convegni o seminari. E’ un’attività in cui credo molto, tanto è vero che sto trattando anche l’acquisto del Castello di Legri, a Calenzano, in provincia di Firenze.
Dalla plastica al turismo d’élite, il passo è lungo…
Io credo che nei prossimi anni il destino dell’Italia si giochi in due settori strategici, sui quali la Cina non può competere: l’artigianato sofisticato (cioè il made in Italy) e il turismo. 
Per questo sta investendo anche nell’abbigliamento?
Proprio così. La Tadi srl, che altro non è che l’anagramma di una frase per me importante, “ti amo da impazzire”, ha sede a Padova ed è pronta a lanciare sul mercato due nuove linee di abbigliamento. Il marchio Platina, che ho realizzato in collaborazione con alcuni amici padovani e svedesi, riguarda l’abbigliamento femminile, è rivolto ad un target alto e proporrà a la prima collezione per l’autunno-inverno 2006-2007. Il marchio R68 (la mia iniziale e il mio anno di nascita) è invece una linea di abbigliamento maschile, sport casual. I negozi Platina saranno presenti a Padova, Milano e Roma e poi, in un secondo momento, anche a Capri e a Londra. 
Perché la sede è a Padova e non a Salerno?
Il centro dell’Europa è il Nord-Est d’Italia. A Salerno non abbiamo la mentalità della globalizzazione né tanto meno una solida cultura del lavoro. Lo dice uno come me che è orgoglioso di essere meridionale e salernitano.
Sta dicendo che è più difficile fare impresa nel Mezzogiorno?
Senza dubbio. Le faccio un solo esempio: a Padova gli stabilimenti non hanno recinzioni, qui invece bisogna costruire muri in cemento armato alto tre metri per difenderci dai vandali.
E’ solo un problema di criminalità?
No, vi è anche una totale mancanza associativa ed aggregativa tra noi imprenditori, insomma l’incapacità di fare sistema. Ecco perché ho un po’ abbandonato l’Unione degli Industriali. Non m’interessa far parte di una lobby di cene e di cenette, ma di una lobby del mercato, che si batta per lo sviluppo del territorio e dell’economia locale, soprattutto industriale e non prevalentemente di terziario.
E’ un’accusa pesante.
E’ un’accusa motivata. Qui la maggior parte degli imprenditori si preoccupa solo delle sovvenzioni pubbliche, e non investe in ricerca, in sviluppo, in formazione.
Ci saranno delle eccezioni.
Certo, stimo molto Gerardo Soglia, Nino Paravia, Antonio Ferraioli. Non a caso tutti imprenditori  che si sono defilati dall’Unione degli Industriali.
Come vede il futuro di Salerno?
La Salerno di oggi come città è ancora una perla nel caos del Meridione, ma siamo sulla soglia del marasma. Sotto il punto di vista economico, la stiamo distruggendo.
A che cosa si riferisce?
Beh, il Comune, la Provincia e la Regione hanno lasciato gli imprenditori abbandonati a se stessi. Quando per avere una concessione edilizia occorrono 2-3 anni, significa negare le possibilità di sviluppo. E poi il mercato non è per niente incentivato e negli ultimi 5-6 mesi la microdelinquenza a Salerno ha raggiunto limiti di insopportabilità. Se continua così, saremo costretti a fuggire. Anzi, stiamo già fuggendo.
E’ una richiesta di archiviare l’era De Luca?
Non vedo in De Luca il responsabile di niente. A lui dobbiamo tantissimo. Tuttavia la figura del sindaco non basta a qualificare un’amministrazione. Non faccio differenze tra sinistra e destra, è un discorso che vale per tutti. E’ ora che noi imprenditori abbiamo un ruolo attivo per lo sviluppo di Salerno, a partire dalle prossime elezioni amministrative. Abbiamo il dovere di votare bene, per tentare di dare una scossa a questa città e per battere certe lobby oscure che bloccano lo sviluppo. E’ giusto che la res publica sia governata dai politici, ma in alcuni ruoli chiave della giunta occorrono tecnici dotati di adeguata professionalità e competenza.
Cioè?
Penso a tre settori fondamentali: il bilancio, i lavori pubblici e lo sport. Bisogna razionalizzare la spesa e gli investimenti, aiutare lo sviluppo del territorio e costruire le strutture sportive di cui la città ha veramente bisogno.
Lei ha polemizzato duramente contro la decisione di costruire il Palasalerno.
Sì, ritengo sia assurdo realizzare una struttura di 7 mila posti, del valore di 13 milioni di euro, con un costo annuo di gestione di 3 milioni e mezzo, completamente inutile, che non servirà a nessuno, né a organizzare eventi sportivi né ad ospitare concerti. 
Perché?
E’ una struttura troppo grande per gli incontri di pallacanestro, pallavolo o pallamano, e troppo piccola per i concerti musicali. Prevedo che una volta costruita, nel giro di pochi anni diventerà il regno di topi e lucertole… Con quei soldi si poteva riammodernare lo Stadio Vestuti, attrezzandolo per l’atletica, valorizzare strutture come la Palestra Palumbo e la Palestra Senatore, e realizzare almeno tre Palasport, come il PalaBarbuti che ospita le partite della Carpisa Napoli di basket, costruito nel rione Ponticelli in soli 90 giorni, rispetto ai 4 anni previsti per il PalaSalerno, e con una spesa di appena 1,2 milioni di euro e un costo di gestione di 200 mila euro. Non a caso alla presentazione del progetto volutamente solo io, come presidente  di una società sportiva, non sono stato invitato.
Già, perché lei è anche presidente della Pelplast Handball Salerno, che gioca in serie A.
E anche lì ho portato sistemi manageriali di gestione. Siamo l’unica società di pallamano in Italia ad essere società di capitali. Mi sembra che i risultati siano eloquenti. Nel 2004 abbiamo vinto scudetto, coppa Italia e supercoppa; nel 2005 siamo stati vicecampioni d’Italia e ora siamo al secondo posto in classifica e faremo i play off.
Torniamo a Salerno e all’economia salernitana. Che cosa farebbe lei per rilanciarla?
Punterei su una vera politica del turismo, imperniata sullo sfruttamento logistico della città. Salerno si trova in mezzo a due delle coste più belle del mondo, la costiera amalfitana e la costiera cilentana, e ad appena trenta km da Pompei ed Ercolano. Ebbene, quando si arriva alla Stazione di Salerno, il taxi più nuovo è del 1903… Non mi sembra un bel biglietto da visita. Il problema è che a Salerno abbiamo il sole, il mare, una posizione strategica, ma non abbiamo la competenza e la professionalità necessarie per attrarre le masse dei turisti. Per fare come Siviglia e Barcellona, bisognerebbe affidarsi a società leader nel turismo a livello nazionale, come per esempio la Valtur, e proporre loro di investire a Salerno in join venture con imprenditori locali.  
Lei sarebbe disponibile a questo progetto?
Certamente. 
Parliamo di Rosario Pellegrino nel privato. Che tipo è?
Sono una “croce e delizia”, come il mio libro preferito. Sono un tipo simpatico ed estroverso, ma allo stesso tempo sono un perfezionista nelle cose che faccio. Pretendo il meglio da me stesso e dai miei collaboratori. Devo dire che ho la fortuna di avere collaboratori eccellenti, tutti giovani under trenta.  
Qualche anno fa lei è stato protagonista anche di un episodio di cronaca che a Salerno ricordano ancora…
E’ vero, l’11 dicembre 2003, data per me indimenticabile, sono stato costretto da un guasto al motore ad un atterraggio di emergenza sul lungomare di Salerno con il mio aereo privato, mentre rientravo dall’aeroporto di Roma Urbe. E’ stata un’esperienza infernale, i sette minuti più terribili della mia vita. Ho conosciuto la morte da vicino. E’ davvero una brutta signora, il contrario di quelle che piacciono a me…
Allora è proprio vera la sua fama di dongiovanni?
Adoro le donne, sono state il mio “vizio capitale”… Ora credo di aver trovato quella giusta.
 
(La Città di Salerno, 2 aprile 2006)
 
Carta d’identità
 
Rosario Pellegrino è nato a Salerno il 12 maggio 1968.
Separato, ha una figlia di 4 anni, Alessia J.
Titolo di studio: laurea in Giurisprudenza
Hobby: lo sport (tennis, jogging, calcio, pallamano) e le donne (“le adoro, erano il mio vizio capitale”)
Film preferito: “Ricomincio da tre” di e con Massimo Troisi
Libro del cuore: “Croce e delizia” di Luciano De Crescenzo

Intervista a Ruggero Cappuccio, autore e regista teatrale

di Mario Avagliano
 
 
“Salerno ha bisogno di una forte identità culturale. Deve scegliere se vuole essere una città della movida o una città con la C maiuscola”. A parlare è Ruggero Cappuccio, uno degli autori e registi teatrali più glamour a livello europeo, napoletano di nascita, ma cresciuto e formatosi a Salerno, allievo di Leo De Berardinis e di Giuseppe Patroni Griffi, vincitore del premio dell'Istituto del Dramma Italiano, già direttore artistico del Festival teatrale “Città Spettacolo” di Benevento, uno dei due drammaturghi italiani viventi a scrivere nella collana del classici dell’Einaudi, assieme a Roberto De Simone. “Ho grande fiducia nel sindaco De Luca. Ho un dialogo aperto con lui e spero possa fare bene”, dice Cappuccio intervistato da la Città. E si dichiara disponibile a collaborare, ma a condizione che si tratti di un progetto di alta qualità: “Mettiamola così: tutte le cene possono essere belle, basta sapere chi sono i convitati”.
 
Quando nasce il suo rapporto con Salerno?
Praticamente da sempre. Le famiglie dei miei genitori sono originarie di antiche casate del Cilento: di Ferramezzana per parte di padre e di San Mango per parte di madre. Passavo tutte le estati in quei posti magnifici e ovviamente, viaggiando, transitavo sempre per Salerno. Poi, ad otto anni di età, Salerno divenne anche la città dove vivevo, perché ci trasferimmo lì, al seguito di mio padre, che era agente generale di assicurazioni. Il caso volle che prendessimo casa nella zona del Teatro Verdi. Quando si dice il destino… Ed è proprio a Salerno che ho avuto il mio primo contatto con la magia del teatro.
Come?
Ho ancora vivo il ricordo un po’ naif delle rappresentazioni del Teatro dei Burattini dei fratelli Ferraioli, al lungomare di Salerno. Quel mondo è stato di grande provocazione per me. Da bambino non mi perdevo un solo spettacolo e tutte le mie sostanze erano spese nel collezionare burattini. Una passione che dura ancora oggi.  
A Salerno si è anche laureato.
Sì, in Lettere. Sono stato uno degli ultimi studenti a completare il corso di studi nella struttura di via Vernieri, senza passare per le forche caudine di Fisciano. Ho avuto la fortuna di avere professori davvero eccellenti, come Augusto Placanica, Gioacchino Paparelli, Riccardo Avallone e soprattutto Achille Mango, grande critico teatrale. Sono stati anni bellissimi, vissuti intensamente dentro la città. Io non credo che la delocalizzazione dell’università fuori Salerno sia stata una buona idea.
A proposito di Achille Mango, che ricordo ha di lui?
Achille era un uomo di qualità, dotato del dono dell’ironia e della leggerezza. Il modo in cui conduceva le sue lezioni era quasi luciferino, perché riusciva a “comprare” la nostra anima, facendoci innamorare del teatro. Era capace di evocare grandi mondi, permettendoci però di incontrare i protagonisti di questi mondi. Ricordo ancora le lezioni straordinarie di Giorgio Strehler, del regista polacco Kantor, di Agostino Lombardo, il più importante traduttore di Shakespeare in Italia. Mango era anche un uomo di azione. Assieme a Franco Coda, era l’animatore delle stagioni del Teatro “A” di Mercato San Severino, che in quegli anni ospitava il meglio dello sperimentalismo italiano ed europeo. La tournée di Kantor, ad esempio, in Italia fece tappa soltanto a Firenze e a Mercato San Severino… 
Lei come drammaturgo ha bruciato le tappe. Nel 1993, a ventinove anni d’età, aveva già vinto il Premio dell’Istituto del Dramma Italiano.
Vinsi con un’opera teatrale che si intitola “Delirio marginale”, scritta in napoletano e in veneziano, e che è in versi e prosa. Essere insignito dello stesso premio che era stato assegnato a Bacchelli, a Brancati, a Eduardo e a Patroni Griffi, da un lato m’inorgoglì dall’altro mi responsabilizzò molto.
Beh, anche dirigere come regista ad appena trentacinque anni d’età, nel 1999, la prima opera lirica con Riccardo Muti alla Scala, “Nina pazza per amore” di Giovanni Paisiello, deve essere stata una bella soddisfazione...
Devo dire di sì, anche se fu un’occasione capitata a causa della morte di Strehler. Con Muti, però, è nato subito un rapporto bellissimo. Nel 2001 mi ha voluto come regista di “Falstaff” di Giuseppe Verdi, sempre alla Scala di Milano. E l’anno prossimo, assieme a lui, metteremo in scena un’opera di Cimarosa, al Festival di Salisburgo.
 
(La Città di Salerno, 2 luglio 2006)
 
 
Carta d’identità
 
Ruggero Cappuccio è nato a Torre del Greco il 19 gennaio 1964. E’ cresciuto tra Salerno, il Cilento e Napoli. Vive a Roma.
Titolo di studio: Laurea in lettere conseguita presso l’Università di Salerno, con tesi di laurea su Edmund Kean.
Hobby: gioca a calcio come “mediano di spinta”; ama anche l’equitazione e il tennis.
Film del cuore: “Otto e mezzo” di Federico Fellini e “Il Gattopardo” di Luchino Visconti
Ultimo libro letto: “L’amorosa inchiesta” di Raffaele La Capria.

 

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