Premio Acqui Storia, “Vincere e vinceremo!” tra i finalisti

di Federica Balza

Arrivano i magnifici sei dell'Acqui Storia, premio che, ancora una volta, propone una rosa vasta e interessante fra cui sarà scelto il vincitore. La Giuria della Sezione scientifica ha scelto i seguenti finalisti: Mario Avagliano - Marco Palmieri, «Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte, 1940-1943», ed. Il Mulino; Riccardo Calimani, «Storia degli ebrei italiani. Nel XIX e nel XX secolo», ed. Mondadori; Antonio De Rossi, «La costruzione delle Alpi. Immagini e scenari del pittoresco alpino (1773-1914)», Donzelli editore; Marcello Flores, «Traditori. Una storia politica e culturale», ed. Il Mulino; Mario Arturo Iannaccone, «Persecuzione. La repressione della Chiesa in Spagna fra Seconda Repubblica e Guerra Civile (1931-1939)», ed. Lindau.

Ma c'è di più. La Giuria della Sezione divulgativa ha indicato come maggiormente significativi i seguenti volumi: Franco Cardini, «L'appetito dell'Imperatore. Storie e sapori segreti della Storia», ed. Mondadori; Simona Colarizi, «Novecento d'Europa. L'illusione, l'odio, la speranza, l'incertezza», Editori Latenza; Roberto Floreani, «I Futuristi e La Grande Guerra», Campanotto Editore. E POI Paolo Isotta, «La virtù dell'elefante. La musica, i libri, gli amici e San Gennaro», Marsilio Editori; Angelo Ventrone, «Grande guerra e Novecento. La storia che ha cambiato il mondo», Donzelli Editore.
La Giuria della Sezione Romanzo Storico ha designato come finalisti: Licia Giaquinto, «La briganta e lo sparviero», Marsilio Editori; Ketty Magni, «Arcimboldo, gustose passioni», Cairo Editore; Marina Plasmati, «Il viaggio dolce. Il soggiorno di Leopardi a Villa Ferrigni», ed. La Lepre; Davide Rondoni, «E se brucia anche il cielo. Il romanzo di Francesco Baracca. L'amore, la guerra», ed. Frassinelli; Paolo Rumiz, «Come cavalli che dormono in piedi», ed. Feltrinelli.
I vincitori saranno premiati sabato 17 ottobre ad Acqui Terme al Teatro Ariston. L'attuale edizione del Premio Acqui Storia ha registrato una grande partecipazione con 167 volumi in concorso a fronte di una media di circa 30 delle prime 40 edizioni, confermandosi, anno dopo anno, un ambito riconoscimento da parte di autori ed editori, grazie anche alla preziosa regia del responsabile esecutivo del premio Carlo Sburlati.

(“Acqui Storia, i finalisti”, Il Giorno, 8 luglio 2015)

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Fascismo. La rimozione delle colpe

di Mario Avagliano

Disquisendo della memoria della seconda guerra mondiale, lo storico inglese Tony Judt parla di “eredità maledetta”. Per lo scontro di civiltà che incarnò quel conflitto globale e per le sue truculente appendici (la Shoah, le deportazioni, la bomba atomica). Ma anche per il racconto mitizzato di quelle vicende. Con la (comoda) attribuzione alla Germania nazista di tutte le responsabilità e la presunzione di innocenza degli altri. Compreso chi, come l’Italia, vantava la primogenitura mondiale del fascismo e aveva collaborato strettamente con Hitler e i suoi atroci crimini.

A distanza di settant’anni da quei fatti, il nostro Paese non si è ancora liberato di quell’ “eredità maledetta”. E la visione autoassolutoria, con il corollario dello stereotipo de Il cattivo tedesco e il bravo italiano, come titola il saggio di Filippo Focardi (Editori Laterza, pp. 288, euro 24), resiste nell’immaginario collettivo.Per dirla altrimenti, ampi settori dell’opinione pubblica italiana condividono il giudizio buonista su Benito Mussolini formulato da Silvio Berlusconi il 27 gennaio scorso (salvo rettifiche serali). Bastava ascoltare ieri mattina le telefonate di consenso di molti ascoltatori alle parole dell’ex premier, nel corso della trasmissione condotta da Platinette su Radio Montecarlo.

E infatti “il mito del bravo italiano”, analizzato da David Bidussa già nel 1994, ha viaggiato (e viaggia) di pari passo con l’idea che il fascismo sia stata una dittatura all’acqua di rose, tenera verso gli oppositori e gli ebrei, i cui unici errori furono le leggi razziali e l’ingresso in guerra, e solo per compiacere l’alleato Hitler.
Così, alla figura esecrabile del “cattivo tedesco”, barbaro, imbevuto di ideologia razzista e pronto ad eseguire gli ordini con brutalità, è stata contrapposta quella del “bravo italiano”, pacifista, non antisemita, generoso anche quando veste i panni dell’occupante, prodigandosi nel salvataggio degli ebrei e nel soccorso dei civili. Tacendo, minimizzando o negando il coinvolgimento del popolo italiano nel fascismo e le responsabilità del paese nelle guerre fasciste e nei suoi numerosi crimini.
Quando questa narrazione assurge ad architrave della memoria pubblica nazionale? Focardi ritiene che le sue fondamenta siano state poste già fra l’armistizio del settembre 1943 e il 1947, quale strategia condivisa di un fronte composto dai partiti antifascisti, dal re e dal governo Badoglio, che utilizzarono la differenza tra Italia e Germania (e il contributo della Resistenza alla liberazione) “ai fini di autolegittimazione politica, di mobilitazione bellica e soprattutto di salvaguardia degli interessi nazionali”, per evitare una pace punitiva nei confronti del nostro Paese.
La mancanza di una “Norimberga italiana”, cioè il fallimento della prevista azione penale contro i circa 850 presunti criminali di guerra italiani individuati dalle Nazioni Unite, e l’amnistia per i reati politici (compreso il collaborazionismo con i tedeschi) concessa nel 1946 dal ministro della Giustizia Palmiro Togliatti, segretario del partito comunista, con il conseguente stop al processo di epurazione, completarono l’opera di rimozione.
Questa rappresentazione dei fatti è stata alimentata nei decenni successivi a livello storiografico, attraverso i giudizi autoassolutori di Renzo De Felice (celebre l’intervista del 1987 a Giuliano Ferrara, sul Corriere della Sera, in cui affermava che “il fascismo italiano è fuori dal cono d'ombra dell'Olocausto”) e di altri saggisti di fama, come Indro Montanelli e Arrigo Petacco. Ma ha trovato una sponda – come ci racconta Focardi – anche “sul piano della cultura popolare e di massa legata ai rotocalchi, al cinema, alla televisione e alle canzoni”. Fino al recente film Mediterraneo di Gabriele Salvatores, premio Oscar del 1992.
Intendiamoci, il mito del bravo italiano ha un suo nucleo di verità. Ci sono stati diversi Giusti italiani, che hanno salvato centinaia di ebrei dalle deportazioni, e nelle zone di occupazione spesso (anche se non sempre) le nostre truppe hanno trattato con umanità gli ebrei perseguitati, a volte rifiutandosi di consegnarli ai tedeschi. “Ma il confronto con la malvagità tedesca – spiega Focardi – ha funzionato, volutamente o no, come un perfetto alibi, permettendo di rinviare una riflessione pubblica sulla violenza fascista nel suo complesso: le politiche razziste e antisemite, i progetti espansionistici, le occupazioni militari, le repressioni e i crimini di guerra”. A differenza, ad esempio, di quanto si è fatto in Francia.
Negli ultimi anni la storiografia ha compiuto molti passi avanti nel colmare le lacune di conoscenza sul regime fascista e le sue guerre, alzando il velo su aspetti taciuti e rimossi, dalle responsabilità autonome dell’Italia nelle leggi razziali fino all’uso dei gas chimici in Etiopia e alle violenze dei militari italiani in Russia e nei Balcani. Ma i risultati di queste ricerche hanno prodotto, come rileva Focardi, “solo flebili effetti sull’opinione pubblica, toccata alla superficie”. E gli stessi manuali scolastici di storia ignorano il tema o lo trattano con sufficienza.
Manca ancora una riflessione collettiva nazionale sul fascismo e sulle responsabilità e le colpe italiane. I tedeschi continuano ad essere “una grande risorsa per la tranquillità della nostra coscienza”, come temeva Vittorio Foa. E c’è chi, come il comune di Affile, innalza addirittura mausolei a un criminale di guerra (il maresciallo Rodolfo Graziani). Nell’aprile 2002 l’ex presidente tedesco Joannes Rau si recò assieme al presidente Ciampi alle commemorazioni della strage di Marzabotto. A quando, si chiede Focardi, una visita ufficiale italiana all’isola di Raab in Croazia, sede di un famigerato campo di concentramento italiano per slavi, o a Debrà Libanòs in Etiopia, dove le nostre truppe fucilarono circa 2000 persone?

(Il Messaggero, 29 gennaio 2013)

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Libri e giornali, l'ossessione del Duce

di Mario Avagliano

L’abitudine delle note a margine a matita blu, da pedante maestrino di provincia, e la forma mentis da giornalista, Benito Mussolini non le perse mai, neppure quando l’Italia divenne un “Impero”. Anzi, durante tutto il Ventennio il duce coltivò una vera e propria ossessione per l’editoria. E forse anche per appagare le sue ambizioni d’intellettuale autodidatta, riservò una parte della sua attività quotidiana al monitoraggio della stampa e dei libri in uscita. Nessun capo del governo europeo e nessun dittatore, compresi Hitler, Stalin e Franco, dedicarono una simile attenzione (come rilevò anche il capo della polizia Carmine Senise) alla produzione editoriale del proprio paese.

Insomma il duce si comportò da severo controllore dell’editoria italiana, sempre attento a cosa si diceva e soprattutto a cosa si scriveva, come ci racconta Guido Bonsaver nel suo nuovo libro Mussolini censore. Storie di letteratura, dissenso e ipocrisia (Laterza, pp. 231, euro 18). E così, quando riceveva segnalazioni su libri da parte dalle strutture ministeriali, le esaminava con cura e vergava il suo responso, seguito dall’iniziale «M». Oppure ordinava alle prefetture l’immediato sequestro di un volume o che il funzionario di turno comunicasse a editori e scrittori la sua volontà.
L’apparato censorio diretto dal duce ebbe come prima vittima l’opposizione intransigente di Piero Gobetti e dell’editoria di parte socialista. Gobetti, che aveva fondato l’omonima casa editrice e dirigeva il periodico “La Rivoluzione Liberale”, era considerato da Mussolini uno dei suoi più pericolosi nemici. Il duce si occupò ripetutamente di lui, chiedendo al prefetto di Torino di rendergli la vita “difficile”, fino all’atto finale: la “diffida a cessare da qualsiasi attività editoriale”, che costrinse il suo giovane oppositore ad emigrare a Parigi.
A partire dal 1925-1926, quando il potere di Mussolini si fu consolidato, egli strinse rapporti controversi con gli editori più importanti, da Arnoldo Mondadori (che finanziava il suo movimento fin dal 1919) a Bompiani, e con personalità della cultura italiana, come Brancati, Moravia, Pirandello, Vittorini e altri. Ma continuò ad esercitare con pignoleria un’opera di censura, per motivi di opportunità politica, di decoro morale e, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, anche di razzismo.
Nel 1934 fu la pubblicazione di Sambadù, amore negro della scrittrice Maria Volpi (in arte Mura) a provocare la sua sdegnata reazione e la direttiva a tutte le prefetture di sorvegliare le pubblicazioni che avvenivano nei territori di competenza sotto il profilo della decenza morale.
Ma la storia di Mussolini censore non è la storia di contrapposizione tra un regime burbero e liberticida e gli intellettuali oppositori. Già nel 1975, lo storico italo-americano Philip Cannistraro, nel saggio La fabbrica del consenso. Fascismo e mass-media, si soffermò sulle enormi dimensioni della «zona grigia» della cultura italiana, cioè di quell’ambigua, larga fascia di intellettuali che navigavano a metà tra collaborazionismo e opposizione. Un caso interessante è quello di Elio Vittorini, l’autore del più famoso romanzo censurato nell’Italia fascista, Conversazione in Sicilia, di cui Bonsaver ricostruisce il sofferto passaggio dalla militanza fascista, con la protezione di Alessandro Pavolini, sino alla disillusione e all’aperto antifascismo.
Questo saggio ci aiuta a capire, una volta di più, che durante il fascismo, anche nel settore dell’editoria il regime godette dell’apporto di schiere di intellettuali, chi in convinta militanza, chi per quelle inevitabili incrostazioni di parassitismo che ogni centro di potere chiama a sé, chi semplicemente accettando di fare il proprio lavoro nel contesto di un’Italia fascista. In un simile quadro, i concreti atti di protesta da parte di personaggi come Piero Gobetti, Roberto Bracco, Benedetto Croce e gli editori Laterza risaltano ancor di più, proprio perché appaiono come “picchi isolati in una distesa di piatto conformismo e di compromessi opportunistici”.
La censura riguardò tutti i campi del vivere civile e toccò il suo culmine con le leggi razziali del 1938 e la successiva “bonifica” dalle librerie, dalle biblioteche e dai programmi scolastici dei testi di autori ebrei e il divieto per questi di pubblicare libri. Negli anni di guerra, poi, oggetto del controllo del duce e dei suoi funzionari fu anche quello che oggi si chiamerebbe politically correct. Così quando nel gennaio 1941 Luigi Pirandello chiese l’autorizzazione a una trasmissione radiofonica della sua commedia Come tu mi vuoi, oltre al passaggio dal “lei” al “voi”, gli fu ordinato di eliminare ogni riferimento alla brutalità dei soldati austriaci e tedeschi durante la prima guerra mondiale. Per riguardo all’alleato Adolf Hitler, che con le sue truppe uncinate stava mettendo a ferro e a fuoco mezza Europa.
Dopo la caduta del fascismo del 25 luglio 1943 e la violenta stagione di Salò, “l’Italia del libro – come osserva Bonsaver – sopravvisse al proprio dittatore-censore e dimenticò presto i propri trascorsi durante il Ventennio”. Editori e intellettuali si rifecero la verginità e molti di loro passarono nelle file dell’antifascismo più acceso, cancellando le tracce del loro oscuro passato.

(Il Mattino, 7 aprile 2013)

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Storie – Umberto Saba e il sogno di Hitler

di Mario Avagliano

"A quelli che credono ancora che Adolfo Hitler… abbia almeno amata la Germania, racconto qui qual è stato veramente il suo Sogno. Ridurre la Germania un mucchio di macerie; e, fra nuvole di gas asfissianti, rimproverando ai tedeschi di averlo – per colpa degli ebrei – tradito, salire EGLI al cielo, in una specie di apoteosi, circondato dal fiore delle più giovani e fedeli S.S. Questo sogno egli lo ha sognato così profondamente … che si può dire che egli abbia vinta – almeno in parte – la SUA guerra”. Così scriveva Umberto Saba in Scorciatoie e Raccontini, pubblicato nel 1946.

Non molti sanno che il grande poeta triestino fu uno dei primi intellettuali europei ad interrogarsi sul nazismo e la Shoah. Impagabile il ritratto di Hitler “eseguito nel 1933” e proposto in questa stessa opera: “Con quei baffetti sotto il naso, e quella smorfia facciale, come fiutasse sempre… un cattivo odore”.
“Accanto alla metafisica post-Auschwitz di Primo Levi - come ha osservato acutamente Ettore Janulardo, in un saggio apparso sulla rivista Studi e ricerche di storia contemporanea - si situa la prosa lirica post-Majdaneck di Umberto Saba”.
Majdaneck era un piccolo campo di concentramento tedesco, sito a Lublino, in Polonia: il primo scoperto dagli Alleati. Il 22 luglio 1944 vi giunsero le prime pattuglie russe, trovandovi qualche migliaio di sopravvissuti. Mauthausen, Dachau, Buchenwald, Auschwitz erano allora sconosciuti. Costituito nel 1941, vi transitarono circa 300 mila deportati, di cui il 40 per cento ebrei di varie nazionalità. Campo di concentramento e di sterminio, fu un sito di morte con ogni mezzo: gas, armi da fuoco, impiccagioni. Vi morirono circa 80 mila persone.
Majdaneck è per Saba il simbolo della vicenda concentrazionaria, l’inizio della conoscenza da parte dell’umanità degli orrori del nazismo (quello che è ora Auschwitz). Egli in Scorciatoie e Raccontini si confronta con l’annullamento della persona al tempo dei lager: “Dopo Napoleone ogni uomo è un po’ di più, per il solo fatto che Napoleone è esistito. Dopo Majdaneck…”
Quanto alla vicenda italiana, Saba è più indulgente del suo amico Giacomo Debenedetti, come ha rilevato di recente Alberto Cavaglion sulla rivista storiAmestre. Il poeta triestino scrive che “Gli ebrei italiani non potevano fare all’Italia (in quanto ebrei) né bene né male. Mediterranei come la maggioranza, viventi in Italia da secoli o da millenni; c’è – con qualche eccezione – meno diversità fra un italiano ebreo e un italiano non ebreo, che non, p. es., fra un bresciano e un calabrese”.
A differenza di Debenedetti, Saba sostiene che in Italia non vi era stato bisogno di difendersi dall’antisemitismo: “non c’è mai stato in Italia – tolti gli anni dell’agonia del fascismo – un bisogno di difendersi da queste cose”. Una visione generosa dei fatti. Pesa in questo, probabilmente, la sua esperienza personale di discriminato, grazie al risolutivo intervento dello stesso Benito Mussolini. Per questo motivo, il giudizio sul duce, pur restando negativo, è più conciliante: per Saba infatti Mussolini non fu antisemita o sanguinario ma “carcerario”.
Si tratta di testi scritti, come Saba stesso annota, “sotto l’impressione, estremamente piacevole, della dissoluzione di un incubo”. Ma lo stesso poeta triestino avverte: “Dieci anni ancora di fascismo, nazismo, razzismo e si regrediva tutti (vero alla lettera) al cannibalismo”.

(L'Unione Informa e portale moked.it, 21 maggio 2013)

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Lo strano patto tra Stalin, Hitler e Mussolini

di Mario Avagliano

Nell’agosto del 1939, quando fu siglato iI Trattato Molotov-Ribbentrop tra Terzo Reich e Urss, i giornali britannici pubblicarono irriverenti vignette che raffiguravano Adolf Hitler e Josif Stalin che si salutavano sul cadavere della Polonia, dandosi della “feccia della terra” e del “sanguinario oppressore dei lavoratori”, oppure si scambiavano una stretta di mano con la sinistra, mentre con la destra, dietro la schiena, impugnavano una pistola. Quando il 22 giugno 1941 le colonne corazzate tedesche irruppero in territorio sovietico, sembrò che il sarcasmo inglese avesse colto nel segno. E per oltre cinquant’anni una consolidata tradizione storiografica ha ribadito che quel trattato fu un accordo provvisorio attraverso il quale il Cremlino guadagnò il tempo sufficiente per prepararsi a sconfiggere il Moloch nazista. È andata proprio così? Un documentato saggio di Eugenio Di Rienzo e Emilio Gin, intitolato Le Potenze dell’Asse e l’Unione Sovietica. 1939-1945 (Rubbettino, pp. 514, € 17), avanza una tesi alternativa. Unione Sovietica e Germania, mentre si combattevano epicamente, sbandierando due visioni ideologiche opposte del mondo, trattavano sottobanco per formare una “Coalizione planetaria” destinata a comprendere anche Italia e Giappone e a distruggere il predominio mondiale anglo-sassone.
I due storici, facendo ricorso alle corrispondenze diplomatiche giapponesi, ai documenti di guerra dei National Archives di Washington, ai verbali del War Cabinet britannico, e spulciando i diari dei diplomatici italiani Luca Pietromarchi e Attilio Tamaro, ricostruiscono il lavorio dietro le quinte dell’Urss e delle forze dell’Asse, compresa l’Italia, teso a creare un blocco euroasiatico centrato sull'alleanza fra il nazionalsocialismo e il bolscevismo contro il nemico comune: la società capitalistico-borghese e l’odiato Occidente. L’idea accarezzata da Hitler, Stalin e Mussolini era quella di un’intesa politica invulnerabile sul piano militare, in grado di avere ragione della Gran Bretagna, con tutti i suoi Dominions, e degli Stati Uniti, con i Paesi dell’America Latina. D’altronde la Russia e il Reich, come aveva comunicato Ribbentrop a Molotov già nell’agosto del 1939, riportando testualmente una dichiarazione di Hitler, dovevano prepararsi per tempo a porre le basi di «una difesa emisferica contro l’aggressione americana che si sarebbe sicuramente materializzata tra 1970 e 1980».
Fu la polveriera balcanica a provocare la dissoluzione del blocco nazi-bolscevico e in particolare la disponibilità di Mosca a siglare il Trattato di amicizia e non aggressione con Belgrado, nell’aprile del 1941, alla quale Berlino rispose con l’immediata invasione della Jugoslavia. Nonostante la guerra, i rapporti sotterranei e clandestini tra Urss e forze dell’Asse proseguirono, soprattutto grazie alla mediazione del Giappone che aveva firmato, il 13 aprile 1941, un trattato di non aggressione con la Russia. Anche Palazzo Venezia e Palazzo Chigi svolsero un ruolo incisivo, dinamico e tutt’altro che marginale, iniziato subito dopo la fortunata contro-offensiva russa dell’inverno del 1941, per arrivare ad una pace di compromesso tra il colosso comunista e l’Europa sottomessa al Nuovo Ordine nazista.
Dopo aver assunto l’interim degli Esteri, il Duce scriverà tra il marzo e aprile 1943 due lunghe lettere a Hitler per spingerlo a «chiudere il capitolo russo». E sul tema tornerà ancora nei colloqui di Klessheim (7-10 aprile 1943), poi in quelli di Feltre (19 luglio), e, infine, nel mattino del 25 luglio, poco prima di essere arrestato, incontrandosi con l’ambasciatore giapponese a Roma. Mussolini insisteva sulla necessità di stipulare una tregua d’armi con Stalin e sapeva che, nonostante le apparenze, Hitler non era del tutto sordo alle sue richieste e che importanti gerarchi nazisti (Göring e Goebbels) erano favorevoli ad accettare quella soluzione. E il Cremlino non si sottraeva a quelle suggestioni. Insomma, il libro di Di Rienzo e Gin ci rivela che la «Grande Alleanza» antinazista era meno solida di quanto comunemente si creda (esattamente come non lo era l’Asse Roma-Berlino-Tokio) e che Stalin, sull’altare della realpolitik, prese in considerazione l’ipotesi di mollare Gran Bretagna e Usa al loro destino. Tutti questi sforzi fallirono. La “pace di Mussolini” non ebbe luogo e per fortuna non nacque l’Euroasia nazista-fascista-bolscevica immaginata dai leader dell’epoca. Il vecchio continente era però destinato ancora a soffrire e a dividersi. La fine del secondo conflitto mondiale portò alla “pace di Stalin” che, sui campi di battaglia e al tavolo della diplomazia, riuscì nel disegno di restituire alla Russia la statura imperiale dell’età zarista, provocando la lunga «guerra fredda», destinata a terminare solo nel novembre del 1989.

La fabbrica del consenso. Il libro sul falso mito di Mussolini nelle lettere degli italiani

di Mario Avagliano

Nella storia d’Italia non vi è stato un uomo politico così passionalmente e visceralmente amato (ma anche così detestato) come Benito Mussolini. Il duce, come lui stesso si definì, ha segnato un’epoca, tracciando la strada del totalitarismo fascista in Europa e nel mondo, che da Hitler a Franco e ai dittatori sudamericani, tanti emuli avrebbe avuto nel Novecento. Durante il Ventennio, la fabbrica del consenso messa in piedi dal regime si concentrò nell’esaltazione di Mussolini, avvolgendo la sua figura di un alone di divinità e di immortalità (anche grazie ai numerosi attentati a cui era sopravvissuto), oltre che del crisma dell’infallibilità, in coerenza con l’architettura para-religiosa del fascismo.
La penetrazione capillare del mito del duce nelle menti e nel cuore degli italiani è testimoniata dal corpus straordinario (anche nei numeri) di lettere, cartoline, telegrammi a lui diretti che è conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato e che costituisce l’oggetto del libro «Duce! Tu sei un Dio!» (Baldini & Castoldi, pp. 320, euro 16,90) di Alberto Vacca, che ne propone un’accurata e intelligente selezione antologica, suddivisa cronologicamente dal 1932 al 1943 e per temi e suggestioni.

In modo singolare, lo stesso Mussolini denominò «Sentimenti per il duce» la serie dei fascicoli che raccoglieva questo tipo di corrispondenza. E in effetti il sentimento è la cifra prevalente di queste missive, che rappresentano un termometro attendibile di quel che pensavano milioni di italiani dell’epoca del duce. Gli aggettivi e le definizioni altisonanti accostate al suo nome e alla sua figura si sprecano, a volte con ricchezza espressiva, a volte con l’eccesso di retorica del tempo: «amatissimo», «sommo», «buono, grande, sapiente, intelligente e generoso», «augusto», «magnifico», «Prode», «Giusto», «santo», «benedetto». In percentuale a scrivere di più sono le donne, che, come rileva Vacca, subirono in modo particolare il fascino del duce («ti amo tanto, più di me stessa […] ardo dal desiderio di conoscerti», scrive una diciassettenne). Ma molte lettere sono anche di sacerdoti o monaci, e numerosi bambini e adolescenti, sull’onda del coinvolgimento emotivo delle organizzazioni giovanili di regime, delle sfilate, del mito della romanità e dell’Impero.
I toni delle lettere, lo stile di scrittura (ufficiale o informale), la qualità stessa dei messaggi variano a seconda della personalità del mittente, dell’estrazione sociale e del suo livello di istruzione. Ed è davvero impressionante in questa antologia la ripetitività del concetto di investitura divina del duce – giustamente ripreso nel titolo del libro – da parte dei mittenti delle più varie categorie sociali e classi anagrafiche. Questo è un elemento conosciuto ma spesso sottaciuto dalla storiografia, anche se non sorprendente, visto che lo stesso papa Pio XI, dopo la firma del Concordato del 1929, definì Mussolini «l’uomo della Provvidenza» che era riuscito a ridare «Dio all’Italia e l’Italia a Dio».
È interessante esaminare quali altre rappresentazioni abbia avuto la figura del duce nell’immaginario degli italiani. Vacca ha individuato tre ulteriori importanti categorie: il «Salvatore d’Italia», al quale affidare ciecamente le chiavi del destino della Patria; il «Difensore della civiltà romana e cristiana», «Artefice della Conciliazione fra la Chiesa e lo Stato»; e almeno fino al 1939-1940, l’«Angelo della pace». L’approvazione a Mussolini continuò anche duranti gli anni della guerra mondiale e perfino in quel 1943 che segnò la fine del suo regime. Ancora in aprile un domenicano chiamato in servizio come cappellano militare gli mandava a dire: «Sei il nostro Padre. Noi ti amiamo e siamo pronti a dare la vita per Te. Tu sei la Patria che crede, combatte e vincerà».
Certo, nel corso del Ventennio, i sentimenti degli italiani non furono unanimemente improntati al consenso a Mussolini. L’adesione dell’opinione pubblica al fascismo fu altissima ma non monolitica. Lo stesso Vacca, in un altro saggio, Duce truce, ha analizzato e antologizzato le lettere dei critici del fascismo. Una minoranza di italiani, anche se più consistente di quanto si possa pensare. Peraltro, dopo il primo anno di guerra, a seguito dei rovesci militari sui vari fronti esteri e delle pesanti difficoltà economiche, anche il popolo che aveva mitizzato Mussolini iniziò a interrogarsi su di lui. Ma le menzogne della propaganda dell’epoca sulle sue capacità quasi divine, il suo buonismo, la sua generosità, hanno attraversato il lungo dopoguerra repubblicano e sopravvivono tuttora nel sottostrato di ampie fasce dell’opinione pubblica. Il duce resta quindi una presenza ingombrante, con cui il nostro Paese non ha ancora fatto del tutto i conti. Questo libro contribuisce a svelare le ragioni di fondo della longevità del mito di Mussolini e della sua eredità scomoda e pesante.

(Il Messaggero, 19 settembre 2013)

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Storie - L'Eredità su RaiUno e i Mostri della Memoria

di Mario Avagliano

Frequentando le scuole da anni per i miei tour della Memoria, la paradossale scena di qualche giorno fa nel corso della trasmissione “L’Eredità” su Rai Uno, condotta da Carlo Conti, in cui tutti i giovani concorrenti non hanno saputo indicare la data di nomina a cancelliere di Adolf Hitler (1933), scegliendo ciascuno le altre improbabilissime opzioni (1948, 1964, 1979), non mi ha sorpreso più di tanto. Proprio un paio di settimane fa, in una scuola del Lazio, in un’aula magna colma di studenti, ho provato a chiedere la data della marcia su Roma delle camicie nere di Mussolini (1922), dando per scontato che qualcuno la conoscesse, e invece in sala è calato un imbarazzante silenzio.
Carlo Conti ha commentato in diretta: “Sono senza parole. Io farei un ripassino di storia”, e il video dell’Eredità, giustamente, ha fatto il giro dei social network, ricevendo circa 800 mila click su Youtube e suscitando indignazione in molti. Ma indignarsi non basta. L’ignoranza genera mostri della Memoria, come le affermazioni dell’esponente dei Forconi sui banchieri ebrei che egemonizzerebbero il nostro Paese. E’ evidente quindi che la scuola, gli storici, i giornalisti, le associazioni e anche le istituzioni abbiano molto lavoro da fare. Lo stesso Giorno della Memoria va ripensato, in modo meno rituale e stanco, rendendolo più vivo, partecipato, informato. E utilizzando meglio lo strumento libro e l’approfondimento e l’analisi storica. Un segnale positivo lo ha dato il governo varando una norma che, se sarà confermata, come è il mio auspicio, consentirà di detrarre fiscalmente per il 19% l’acquisto di libri nel corso dell’anno per una spesa massima di 2mila euro. Una delle armi che ci resta, è la lettura. Citando Woody Allen: “Leggo per legittima difesa”.

(L'Unione Informa e Moked.it del 17 dicembre 2013)

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Mister Mussolini che piaceva all'America

di Mario Avagliano

 Quando nell’ottobre del 1936 il presidente americano Franklin Delano Roosevelt intrattenne per due giorni il cardinale Eugenio Pacelli (il futuro papa Pio XII), in visita privata negli Stati Uniti, l’alto prelato, parlando della Grande Depressione, disse preoccupato al suo interlocutore: “Secondo me il pericolo più grave è che l’America divenga comunista”. Roosevelt di rimando gli rispose: “No, il pericolo più grave è che l’America divenga fascista”.

Lo scambio di opinioni è illuminante. Il timore del presidente statunitense, protagonista del New Deal, era reale. All’epoca i comunisti americani non avevano un grande seguito (né per la verità lo ebbero mai). Viceversa i fascisti e Benito Mussolini, godevano di buona reputazione nella classe dirigente a stelle e strisce. Di più, molti americani erano addirittura infatuati dalla politica del duce. È il tema del bel libro “Quando l’America si innamorò di Mussolini” (Editori Internazionali Riuniti) del giornalista Ennio Caretto, che conosce bene gli Stati Uniti e i suoi archivi storici, essendo stato per 35 anni corrispondente oltreoceano per La Stampa, Repubblica e il Corriere della Sera. In America, il duce fu il capo di Stato o di governo straniero più popolare del suo tempo. Più che in ogni altra nazione occidentale, Gran Bretagna inclusa. Osannato soprattutto dall’industria, dalla finanza e dai conservatori, che lo ammiravano come “l’uomo nuovo” che trascendeva il liberalismo e debellava il comunismo. L’innamoramento durò almeno tre lustri, fino alle guerre d’Etiopia del 1935 e di Spagna del 1936.

Nell’epoca delle dittature, la maggioranza degli americani vide nel regime fascista – salvo poi pentirsene - un presentabile “autoritarismo democratico”, ritenendolo moderato e lontano dalle spietate tirannie sovietica e nazista di Stalin e Hitler. Lo dicono decine di migliaia di pagine di carteggi dei leader politici, culturali e religiosi americani, di documenti top-secret, di studi condotti da varie istituzioni, di giornali, di libri. Il fascino di Mussolini non riguardò solo i repubblicani. I media americani, inclusi quelli che oggi giudicheremmo di sinistra, applaudirono in prevalenza alla Marcia su Roma e all’ascesa del fascismo. Nell’ottobre del 1922, subito dopo la Marcia, il New York Tribune, di cui Karl Marx era stato il corrispondente europeo da Londra mezzo secolo prima, paragonò Mussolini a Garibaldi e a Giulio Cesare, e a novembre il New York Times elogiò “la forza” del duce, un leader che si collocava “tra Napoleone e un pugilista”. All’inizio perfino Ernest Hemingway (ma poi cambierà radicalmente idea) ne scrisse entusiasta: “Mussolini è una grossa sorpresa. Non è il mostro che hanno dipinto. Ha un volto intellettuale ed e soprattutto un patriota”. Contemporaneamente, si schierarono per il fascismo istituzioni finanziarie e patriottiche come la Camera di Commercio e la Legione Americana. Anziché isolarlo, quattro presidenti, da Warren Harding a Franklin Roosevelt (i primi tre repubblicani) collaborarono con lui considerandolo un baluardo contro il “contagio bolscevico” in Europa e un potenziale partner nel Mediterraneo. Al funerale di Harding il feretro fu scortato, tra altri, dalle Camicie Nere di Mussolini. E per un certo lasso di tempo Roosevelt espresse interesse e simpatia per “l’esperimento” del fascismo e intrecciò con lui normali rapporti, sperando fino al 1940 di riuscire a tenerlo fuori dal conflitto. Anche gli ambasciatori statunitensi a Roma si dimostrarono per lo più favorevoli al duce. Il più agiografico di essi, Richard Washburn Child, scrisse un’introduzione all’autobiografia di Mussolini pubblicata in America nel 1928 che rasentava il culto della personalità: “Mussolini è un super-statista umano e giusto”. Non che mancassero i critici di Mussolini, ma vennero neutralizzati. L’America voleva che l’Europa, il suo mercato naturale e più ricco, che doveva ripagarle l’enorme debito bellico della Grande Guerra, si ricostruisse in fretta. Chiunque ne garantisse la pace sociale e il liberismo economico, come il duce, era considerato un partner affidabile. Anche dopo la guerra di Spagna, nonostante l’opposizione americana al fascismo e al nazismo raccogliesse sempre maggiori consensi negli Stati Uniti, nell’establishment economico e politico restavano numerosi gli ammiratori del duce e del Fuhrer. Uno di loro era il miliardario e neoambasciatore americano a Londra Joseph Kennedy, padre del futuro presidente John F. Kennedy. E lo stesso giovane John, nel 1937, appena ventenne, esprimeva ancora ammirazione per i due dittatori. Lo rivelano le sue lettere e i suoi diari di viaggio, scritti in vacanza in Italia e in Germania, e pubblicati di recente dall’editrice tedesca Aufbau a cura dello storico tedesco Oliver Lubrich. “Sono giunto alla conclusione che il fascismo sia giusto per l’Italia − scriveva Kennedy − come che il nazionalsocialismo sia giusto per la Germania (…). Che cosa è mai il fascismo in confronto al comunismo? (…) Questi regimi fanno del bene ai loro paesi”. Di più: “Quanto al signor Adolf Hitler, sono persuaso che abbia la stoffa di chi entra nella leggenda”.

(Il Mattino del 14 marzo 2014)

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