Mario Avagliano

Mario Avagliano

Curriculum

Attività di storico

Autore di vari saggi, si occupa di storia del Novecento, con particolare riferimento al fascismo e alla RSI, alla persecuzione razziale degli ebrei, alle vicende dell'armistizio dell'8 settembre 1943, al dopoguerra, agli internati militari, alla resistenza italiana, alla deportazione degli ebrei, dei politici e dei civili. È membro dell'Irsifar (Istituto romano per la storia d'Italia dal fascismo alla resistenza), della Sissco, del comitato scientifico dell'Istituto storico "Galante Oliva" (www.igo900.org) e direttore del Centro Studi della Resistenza dell'Anpi di Roma-Lazio. È direttore, assieme a Marco Palmieri, della collana storica "Il Filo Spinato" della Marlin Editore, che raccoglie diari, memorie e testi inediti relativi alla storia del Novecento. È anche webmaster dei portali storici www.storiaXXIsecolo.it e www.resistenzaitaliana.it. Dal 19 novembre 2011 al febbraio 2014 è stato vicepresidente dell'Anpi di Roma e del Lazio, con la delega alla Storia e Memoria.

Nella sua attività di saggista ha pubblicato numerosi libri sulla storia italiana, in prevalenza del XX secolo. Si segnalano qui in particolare:
 
LIBRI
Il partigiano Tevere. Il generale Sabato Martelli Castaldi dalle vie dell'aria alle Fosse Ardeatine, Avagliano Editore, Cava de' Tirreni 1996 (introduzione di Vittorio Foa)
Il Cavaliere dell'Aria. L'asso dell'aviazione Nicola Di Mauro dal mitico Corso Aquila ai record d'alta quota, Avagliano Editore, Cava de' Tirreni 1998
"Muoio innocente". Lettere di caduti della Resistenza a Roma, (con Gabriele Le Moli), Mursia, Milano 1999 (introduzione di Pietro Scoppola)
Il Profeta della Grande Salerno. Cento anni di storia meridionale nei ricordi di Alfonso Menna, (con Gaetano Giordano), Avagliano Editore, Cava de' Tirreni 1999 (introduzione di Piero Ottone)
Generazione ribelle. Diari e lettere dal 1943 al 1945, Einaudi, Torino 2006 (introduzione di Alessandro Portelli)
Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-45, (con Marco Palmieri), Einaudi, Torino 2009 (introduzione di Giorgio Rochat) - vincitore del 7º Premio Nazionale Anpi "Renato Benedetto Fabrizi" (aprile 2010)
Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia. Diari e lettere 1938-45, (con Marco Palmieri), Einaudi, Torino 2011 (introduzione di Michele Sarfatti)
Voci dal lager. Diari e lettere di deportati politici italiani 1943-1945, (con Marco Palmieri), Einaudi, Torino 2012
Il partigiano Montezemolo. Storia del capo della resistenza militare nell'Italia occupata, Dalai, Milano 2012 - vincitore del Premio Fiuggi Storia 2012, del 5º Premio “Gen. Div. Amedeo De Cia” 2012 e del Premio Cultura "Santa Barbara" di Rieti 2014
Di pura razza italiana. L'Italia "ariana" di fronte alle leggi razziali, (con Marco Palmieri), Baldini & Castoldi, Milano 2013
Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte, 1940-1943, (con Marco Palmieri), il Mulino, Bologna 2014
• L'Italia di Salò. 1943-1945, (con Marco Palmieri), il Mulino, Bologna 2017
• 1948. Gli italiani nell'anno della svolta, (con Marco Palmieri), il Mulino, Bologna 2018 - vincitore del Premio Fiuggi Storia 2018 (sezione saggistica) e menzione speciale del Premio Galante 2019
• Dopoguerra. Gli italiani fra speranze e disillusioni (1945-1947),(con Marco Palmieri), il Mulino, Bologna 2019
• I militari italiani nei lager nazisti. Una Resistenza senz'armi (1943-1945),(con Marco Palmieri), il Mulino, Bologna 2020
 
LIBRI (curatele)
Roma alla macchia. Personaggi e vicende della Resistenza, Avagliano Editore, Cava de' Tirreni 1997
Ho scelto il lager. Memorie di un internato militare italiano di Aldo Lucchini (a cura di Mario Avagliano e Marco Palmieri), Marlin, Cava de' Tirreni 2011
Gli zoccoli di Steinbruck. Peripezie e di un bersagliere tra guerra e lager di Pompilio Trinchieri (a cura di Mario Avagliano e Marco Palmieri), Marlin, Cava de' Tirreni 2012
 
SAGGI in OPERE COLLETTIVE
Montezemolo Giuseppe (Cordero Lanza di), voce del "Dizionario del Liberalismo italiano", Rubbettino, Soveria Mannelli 2015, pp. 776-780
Offen rassistich? Die 'arischen' Italiener un die Rassengesetze, in C. Müller, P. Ostermann, K-S. Rehberg, "Die Shoah in Geschichte und Erinnerung. Perspektiven medialer Vermittlung in Italien und Deutschland", Verlag Transcript, 2015, pp. 57-74
 
Tra gli altri saggi:
Sabato Martelli Castaldi, in "Rivista Aeronautica", n. 1, 1997
Via Rasella: polemica infinita, in "Patria Indipendente", n. 9, 25 ottobre 1998
Sud, la Resistenza dimenticata, in "Patria Indipendente", n. 4, 25 aprile 2001
Ebrei e fascismo, storia della persecuzione, in "Patria Indipendente", n. 6-7, giugno-luglio 2002
Storia dal "vivo" di Imi e deportati, (con Marco Palmieri), in "Rassegna", ANRP, n. 10/11/12, Anno XXIX, ottobre-dicembre 2006
Morte dal cielo per gli internati e deportati, (con Marco Palmieri), in "Rassegna", ANRP, n. 3-4, Anno XXIX, marzo-aprile 2007
Per una storia complessiva dell'8 settembre, (con Marco Palmieri), in "Rassegna", ANRP, n. 9/10/11, Anno XXIX, settembre-novembre 2007
Disegni di prigionia come fonte storica, (con Marco Palmieri), in "Rassegna", ANRP, n. 12, Anno XXIX, dicembre 2007
Breve storia dell'internamento militare italiano in Germania. Dati, fatti e considerazioni, (con Marco Palmieri), in "le porte della memoria", ANRP, n. 1, 2008
Voci dal lager. Prigionia, lavoro coatto e Resistenza nelle lettere a casa degli Internati Militari Italiani (Settembre 1943-Aprile 1945), (con Marco Palmieri), in "La critica sociologica", XLIII, n. 170, giugno 2009
Prefazione al libro "A me pare che il mondo resti fermo", (a cura di Mimmo Oliva), Istituto storico “Galante Oliva”, Nocera Inferiore 2010
Un’ebrea napoletana nella bufera razziale. Nelle lettere ritrovate di Suzette la storia commovente di un salvataggio, in "Pagine Ebraiche", n. 5, maggio 2011, pp. 34-35
Gli italiani e le leggi razziali: indifferenza e complicità, (con Marco Palmieri), in "Patria Indipendente", n. 5, maggio 2011
Raffaele Zicconi, l'Icaro siciliano che morì alle Fosse Ardeatine, in "Patria Indipendente", n. 7, luglio 2011
Emilio Sacerdote, il servitore dello Stato che non piegò la schiena e scelse la lotta, in "Pagine Ebraiche", n. 8, agosto 2011, pp. 32-33
La propaganda fascista nei lager e il coraggioso “no” degli IMI, (con Marco Palmieri), in "Patria Indipendente", n. 8, settembre 2011
Le persecuzioni a Praga in un documento inedito del 1745, in "Pagine Ebraiche", n. 12, dicembre 2011
Partigiani e combattenti ebrei: tanti gli eroi e i massacrati, in "Patria Indipendente", n. 10, dicembre 2011
Introduzione al libro "Una gavetta piena di fame. Due anni di lager e di sofferenze raccontati alla piccola Pucci" di Luigi Salvatori, (con Marco Palmieri), Marlin, Cava de' Tirreni 2012
In fuga dalla Shoah a bordo di un battello, in "Pagine Ebraiche", n. 4, aprile 2013
Introduzione al libro "Le donne ebree in Sicilia al tempo della Shoah. Dalle leggi razziali alla liberazione (1938-1943)" di Lucia Vincenti, (con Marco Palmieri), Marlin, Cava de' Tirreni 2013
Introduzione al libro "Una vittoria amara. Diari e lettere di Giulio Tamassia e di sua moglie Bianca (1943-45)" di Renato Tamassia, Marlin, Cava de' Tirreni 2013
Introduzione al libro "Il diario di Giovanni Malisani", Anpi Udine, Udine 2013
Prefazione al libro "Diario proibito. L’Aquila degli anni Quaranta" di Mario Fratti, graus editore, Napoli 2013
Prefazione al libro "Duce! Tu sei un Dio! Mussolini e il suo mito nelle lettere degli italiani" di Alberto Vacca, Baldini & Castoldi, Milano 2013
Introduzione al libro "La scala della morte. Mario Limentani da Venezia a Roma, via Mauthausen" di Grazia Di Veroli, Marlin, Cava de' Tirreni 2014
Introduzione al libro "Ero un bandito. Pietro Schietroma partigiano e sindaco" di Enrico Zuccaro, Marlin, Cava de' Tirreni 2014
La difesa della razza e l'assurda persecuzione, (con Marco Palmieri), in "Patria Indipendente", numero speciale per il 70º anniversario della Liberazione, aprile 2014
Internati Militari Italiani, il dolore dei volontari del lager, (con Marco Palmieri), in "Patria Indipendente", numero speciale per il 70º anniversario della Liberazione, aprile 2014
Introduzione al libro "Pane secco e Avemarie" di Valeria Nicolis, Marlin, Cava de' Tirreni 2015
 
Tra le altre pubblicazioni:
Imprese e acquisizione di risorse. Guida normativa al reperimento dei fondi da parte delle PMI, (con la collaborazione di Marco Palmieri), Roma 2001

 

Intervista a Nello Mascia, attore

di Mario Avagliano
 
Uno dei grandi interpreti a livello mondiale del teatro napoletano classico di Viviani, di Scarpetta e dei De Filippo, è l’attore salernitano Nello Mascia, classe 1946, originario di Sala Consilina. Allievo di Eduardo, fondatore con Tato Russo della "Cooperativa Teatrale Italiana del Mezzogiorno Gli Ipocriti", ha lavorato con Giorgio Strehler e Mario Missiroli. In questi giorni è in scena al Teatro Eliseo di Roma, in "Miseria e Nobiltà", con Carlo Giuffrè. Mascia vive al Vomero, si definisce  “mite ma passionale” e dice di essere supertifoso del Napoli calcio (“nessuno è perfetto!”, spiega). Poi annuncia che presto riporterà in teatro Fango, il toccante monologo sul disastro dell’alluvione di Sarno che, rivela, “è anche una creatura del presidente della Provincia di Salerno Andria”.
 
Ci parli delle sue origini salernitane.
Negli anni della guerra la famiglia di mio padre si era trasferita a Sala Consilina, dove si viveva più sicuri che a Napoli e soprattutto si trovava più cibo. Fu proprio lì, in un paese a due passi da Sala, a Monte San Giacomo, che mio padre conobbe mia madre, Anita Buono, che apparteneva a una famiglia del luogo. Si piacquero, si amarono e si sposarono. Prima nacque mia sorella e poi, nel dicembre del ’46, toccò a me.
Che ricordo ha di quegli anni?
Mio padre Roberto era un poeta. Un latinista e un grecista, amante di cose belle, di pittura, di letteratura, di teatro. Ricordo che all'età di tre anni sapevo già leggere e scrivere perfettamente e recitavo a memoria alcune poesie di Pascoli, di Gozzano, di Carducci, anche se il mio cavallo di battaglia era "Il prode Anselmo" di Giovanni Visconti Venosta. Avevo già il mio piccolo repertorio. E lo sciorinavo nel corso della mia quotidiana “tournée”, quando con mia madre, nel fare la spesa a Sala Consilina, si sostava ora dal macellaio ("Oh Valentino vestito di nuovo…), ora dal fruttivendolo ("Signorina Felicita, a quest'ora, scende la sera…"), ora dal giornalaio ("Pollicino morta mamma, non sa più di che mangiare…").
Lei andò via da Sala Consilina piuttosto presto?
Sì, avevo quasi 4 anni. Mio padre aveva avuto un incarico presso una scuola di Castellamare di Stabia, e così ci trasferimmo tutti a Gragnano.
Dove continuò la sua fama di enfant prodige
Le maestre letteralmente mi contendevano per avermi nelle loro classi a recitare poesie, ad una platea di compagni di scuola entusiasti - se non altro - di evitare così un'interrogazione. Fino a quando, all'età di sette anni, il parroco mi diede l'incarico di imparare una lunga orrenda poesiola scritta da lui, da recitare nella piazza principale, in occasione della Festa della Madonna del Carmine. C’era tutto il paese. Ma una volta che fui salito sul palco, fui colto dal panico. Scappai via, a più non posso, come un forsennato. Giù per le scale del palco. Via! Giù, lungo la discesa. Col fiato in gola. Via! Dopo quell'episodio la mia vita cambiò. Mai più recite improvvisate. Mai più poesie. Più nulla.
Poi però è diventato un attore. Quando è scattata la scintilla della recitazione?
A tredici anni mio padre volle portarmi a Napoli, al Mercadante. Si dava una commedia di cui non ricordo il nome. Eravamo cinque spettatori. Compresi io e mio padre. Ci sistemammo in poltrona. Si fece buio. E dal sipario chiuso uscì fuori un vecchietto molto simpatico e dal fare molto autorevole. Era Sergio Tofano. Disse più o meno così: "Questa sera, secondo una consuetudine teatrale, essendo gli spettatori in sala inferiori per numero agli attori in palcoscenico, potremmo non fare lo spettacolo, e potremmo restituirvi il costo del biglietto. Ma non lo faremo. Noi questa sera faremo un'altra cosa. Faremo per voi il più bello spettacolo della nostra vita.". Ecco. Se qualcuno mi chiedesse quando ho deciso di fare l'attore, credo che risponderei: in quella magica affascinante memorabile sera del Mercadante.
Iniziò a studiare teatro più tardi, o sbaglio?
Quando avevo 17 anni. La mia famiglia si era trasferita a Napoli, in via Duomo. La mia scuola era sita nel malfamato vico Zuroli, di fianco a un noto bordello. I miei compagni di classe erano i figli dei venditori di sigarette di contrabbando di Forcella. Molti di loro oggi hanno fatto “carriera”. Li vedo spesso fotografati sui giornali, nelle pagine di cronaca nera, a volte sorretti al braccio da un paio di giovanottoni in divisa. Erano i miei amici quotidiani. Parlavo il loro linguaggio colorito. Si giocava a pallone insieme. Insieme si organizzavano i mitici "balletti" del sabato pomeriggio. Mio padre ne era spaventato e inorridito. E allora, un po' per allontanarmi da quella compagnia, un po' per pulire la mia parlata che lui definiva "volgare e orribile", prese una decisione che avrebbe cambiato la mia vita: iscrivermi a una scuola di recitazione. 
Quale scuola?
La scuola di recitazione del Circolo Artistico, che all’epoca era l'unica esistente a Napoli. Tutta la mia generazione l’ha frequentata, da Lina Sastri a Franco Iavarone, da Lucio Allocca a Giulio Adinolfi e Tommaso Bianco. Ero considerato tra i più bravi del corso. E così nel 1967 il regista Mico Galdieri mi scritturò. Debuttai al Teatro La Verzura in Floridiana, in "La Tabernaria" di Giovan Battista Della Porta. Il mio ruolo era quello di "Terzo Soldato Spagnolo". Il primo era Lucio Allocca, il secondo Armando Pugliese. Le musiche erano curate da un giovane semisconosciuto, a cui nessuno dava molta importanza, un certo Roberto De Simone.
De Simone?
Diventammo amici. Fu lui a proporre che cantassi nello spettacolo "Li saracine adorano lu sole", che successivamente fu incisa da Patrizio Trampetti in uno storico album della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Ricordo che andavo a casa sua – viveva ancora con sua madre – per fare le prove. Allora lui fumava come un turco e poggiava le sigarette sulle tastiere del pianoforte, che erano diventate tutte nere.
Qualche anno più tardi, nel 1972, arrivò l’incontro con Eduardo De Filippo.
Fu grazie a Eduardo se ora faccio l’attore e non sono un impiegato di banca. Morto mio papà, la mia famiglia navigava in cattive acque dal punto di vista finanziario. Allora mia madre mi procurò presso parenti potenti la classica raccomandazione per un posto fisso. Mi chiamarono al Banco di Napoli. Proprio in quei giorni, però, arrivò la telefonata di Eduardo, che mi era stato presentato da Gennarino Palumbo. Dovevo scegliere. Una vita a metter timbri e a contare soldi. O il salto "conradiano" senza rete. Scelsi Eduardo. E fui attore per sempre.
Con Eduardo trascorse una stagione sola. 
Recitai in "Il sindaco del rione Sanità" e nella prima assoluta mondiale de "Gli esami non finiscono mai". Fu per me un anno fondamentale. Eduardo era un grande maestro, di palcoscenico e di vita. Era un grande vecchio saggio, sapeva tutto, tutto, ed era una fonte inesauribile di insegnamenti. Lo ricordo con grandissimo affetto e devozione. Mi insegnò una cosa in particolare: il rispetto dei ruoli, in teatro come nella vita. Un principio al quale mi sono sempre ispirato.
Nel ’73 fondò con Tato Russo la "Cooperativa Teatrale Italiana del Mezzogiorno Gli  Ipocriti".
Eravamo giovani. Volevamo fare da soli. Volevamo cambiare le regole. Eravamo contro il teatro vecchio, paludato, dei sipari di velluto e delle poltrone rosse. Così andai nel camerino di Eduardo e gli espressi il mio desiderio di andar via. Proprio nei giorni in cui lui aveva dato la distribuzione dei ruoli per le commedie che di lì a poco avrebbe registrato in televisione. Rimase molto sorpreso. "Non vi piacciono le parti che vi ho assegnato?". "No" - dissi con imbarazzo. - "Non si tratta di questo. Ho formato una compagnia mia. Sento l'urgenza di andare avanti con le mie gambe". "Non lo capisco. Ma vi faccio i migliori auguri. Siete un giovane che ha coraggio", fu il suo commento.
Che tipo era Tato Russo?
Con Tato Russo il sodalizio non era soltanto artistico. Eravamo amici. Ci intendevamo su tutto. Passavamo giorno e notte a fare progetti. A leggere. A fare. Mettemmo su un teatrino all'Arenella, in un sottoscala di una vecchia fabbrica abusiva di scarpe. Si chiamava "Il Teatro delle Arti". Aveva appena cento posti e un palcoscenico piccolo, ma confortevole. Lo aveva concepito Bruno Buonincontri, geniale e appassionato scenografo. Costruì praticamente da solo, con le proprie mani, quel teatro. Un gioiellino.
I successi che ricorda con più orgoglio?
Sicuramente la prima di "Uscita di emergenza", di Manlio Santarelli, con Bruno Cirino. E poi la riscoperta di Raffaele Viviani, al quale decidemmo di dedicare molti anni della nostra attività. Allestendo spettacoli memorabili: "L'ultimo scugnizzo", con la regia di Ugo Gregoretti; "Fatto di Cronaca" con la regia di Maurizio Scaparro; "Guappo di Cartone" con la regia di Armando Pugliese; "Musica dei ciechi", con la regia di Antonio Calenda. E organizzando mostre e convegni itineranti ai quali per la prima volta parteciparono i più autorevoli critici e studiosi di teatro a livello nazionale. Fu il nostro impegno costante e ossessivo su questo grandissimo autore a convincere finalmente l'editore Guida a pubblicare l'opera omnia di Viviani e a divulgarlo definitivamente a livello nazionale. Anche se molti lo hanno dimenticato.
A che cosa allude?
Senza il nostro impegno, oggi di Viviani si parlerebbe molto di meno. Eppure questa pagina importante della storia del teatro napoletano è stata dimenticata da tutti. Oggi sembra che il miglior interprete di Viviani sia uno che ha fatto il cantante per tutta la vita (Nino D’Angelo, ndr). Un controsenso, anche perché Viviani era soprattutto un attore.
L’avventura con la Cooperativa Gli Ipocriti è durata fino al 1995.
E’ un’avventura che ha occupato gran parte la mia vita artistica. Al di fuori di essa, nel periodo 1975-1995, mi sono permesso solo due fughe significative. Una nel 1983 allorquando fui chiamato da Giorgio Strehler a interpretare Trinculo ne "La tempesta" di William Shakespeare per l'inaugurazione del Teatro d'Europa all'Odeon di Parigi. L'altra, nel 1993, quando fui Don Marzio il protagonista de "La Bottega del Caffè" nell'allestimento di Mario Missiroli al Teatro di Roma.
Come mai è finita quella esperienza?
Beh, l’esito non è stato molto gradevole. La ferita è ancora aperta, e mi sono riproposto di non parlare di quello che è accaduto, perché la delusione è stata forte. Posso solo dire che si è trattato del tradimento di un’amicizia, più che di un’evoluzione in campo professionale.
In questi giorni Mascia è in scena a Roma in Miseria e Nobiltà, nel ruolo di Pasquale, con il grande Carlo Giuffrè.
Giuffrè è uno degli ultimi grandi interpreti della tradizione del teatro napoletano e Misera e Nobiltà è uno dei grandi classici del teatro mondiale. Più di così! Tra l’altro questo spettacolo, che portiamo in scena con grande successo da due anni, mi ha consentito di raccogliere due nomination ai due premi più importanti che esistono nel mondo del teatro, il premio ETI e il premio UPU. Devo confessare che non me l’aspettavo.
E’ stato anche a Salerno?
Sì, e anche a Salerno è stato un successo incredibile. Il pubblico del Teatro Verdi è molto caldo.
Che impressione le ha fatto Salerno?
Io vengo abbastanza spesso a Salerno. La trovo un città bellissima, assolutamente incantevole. E poi mi piace la movida salernitana, la voglia di vivere e la vivacità dei giovani.
Com’è Nello Mascia nel privato?
E’ un uomo mite, che cerca di essere razionale, nonostante venga travolto dalle passioni. Poi è una persona che ha il gusto di mangiare sano, di godersi una bella giornata, e che ama il calcio, è supertifoso del Napoli (nessuno è perfetto!), e quando può, non disdegna la bici, magari per raggiungere – attraverso il passo di Chiunzi - quello splendido gioiello che è Amalfi.
Dove va il teatro italiano? Molti parlano di crisi.
E’ da vent’anni che si parla di crisi del teatro italiano. Credo che una grossa responsabilità ce l’abbia quel signore che Altan disegna con la banana (sì, parlo di Berlusconi), che ha esportato in Italia la peggiore tv demenziale americana, quella che brucia il cervello della gente. Quel modello culturale, volgare, vuoto di contenuti, ha provocato un appiattimento della società italiana che si riflette su tutta la cultura, e quindi anche sul teatro. Non è un caso che adesso gli spettacoli teatrali più visti sono i musical all’americana. Con la differenza che noi in Italia non li sappiamo fare.
E’ in crisi anche il teatro napoletano?
Napoli è una città di una vitalità incredibile, che si rigenera continuamente. Le uniche novità interessanti del teatro italiano vengono da Napoli. Penso a Moscato, che è uno degli autori contemporanei più bravi. Ma penso anche al coraggio con il quale Martone sta gestendo il Teatro Stabile di Napoli.
Programmi per il  futuro?
Questa primavera ho intenzione di riprendere ''Fango'', l'oratorio civile scritto da Ernesto Dello Jacono e Mario Gelardi, che racconta le tappe delle frane che devastarono Sarno, Siano, Quindici, Bracigliano e San Felice a Cancello. Uno spettacolo di grande tensione emotiva, che indaga sulle responsabilità di una tragedia annunciata. Tra l’altro l’idea di farne uno spettacolo nacque proprio a Salerno, al Palazzo della Provincia, alla presentazione del romanzo di Ernesto Dello Jacono. Io lessi alcuni brani e dissi che sarebbe stato bello portarlo a teatro. Il presidente Andria, con la consueta sensibilità che lo contraddistingue, ci diede tutto il suo appoggio. Questo spettacolo è anche una sua creatura.
 
(La Città di Salerno, 11 maggio 2004)
 
Scheda biografica
 
Nello Mascia nasce a Sala Consilina (Salerno) il 28 dicembre del 1946. Studia recitazione alla scuola del Circolo Artistico di Napoli. Debutta nel 1967 al Teatro La Verzura in Floridiana, in "La Tabernaria" di Giovan Battista Della Porta, per la regia di Mico Galdieri. Nel 1973, dopo una breve ma intensa esperienza nella compagnia di Eduardo De Filippo (Il sindaco del rione sanità, Gli esami non finiscono mai), fonda insieme a Tato Russo la Coop. Teatrale Gli Ipocriti che dirige e di cui è l'animatore principale per circa venticinque anni. In questa struttura profonde ogni energia e ad essa dedica gran parte della sua attività di attore, regista e direttore artistico. Si pone all'attenzione della critica e del pubblico nel 1980 interpretando il personaggio del sagrestano Pacebbene in Uscita di emergenza di Santarelli, in coppia prima con Bruno Cirino, poi di Sergio Fantoni. Nel 1983-84 è al Piccolo Teatro dove interpreta Trinculo nell'allestimento strehleriano de La tempesta di Shakespeare che inaugura il Teatro d'Europa all'Odéon di Parigi. Dal 1986 si dedica alla divulgazione e alla valorizzazione dell'opera di Raffaele Viviani di cui presenta quattro spettacoli: L'ultimo scugnizzo, regia di Ugo Gregoretti; Fatto di cronaca, regia di Maurizio Scaparro; Guappo di cartone, regia di Armando Pugliese; La musica dei ciechi, regia di Antonio Calenda. Si ricorda anche il suo esilarante Don Marzio ne La bottega del caffè di Goldoni al Teatro di Roma, con la regia di Mario Missiroli nel 1993. In televisione nel 1979 è l'operaio Marco nello sceneggiato in quattro puntate Tre operai dal romanzo di Carlo Bernari per la regia di Francesco Maselli. Nel 1983 è protagonista del Carmagnola, libero adattamento di Ugo Gregoretti dalla tragedia di Alessandro Manzoni. Nel 1997 è il crudele Ferdinando in I conti di Montecristo, singolare versione di Ugo Gregoretti dal romanzo di Dumas. Nel cinema nel 1998 è tra i protagonisti de La cena di Ettore Scola e nel 2001 di L’uomo in più di Paolo Sorrentino. 
 
 

Intervista a Ugo Pirro, sceneggiatore

di Mario Avagliano
 
Uno dei più grandi sceneggiatori italiani di tutti i tempi, è il salernitano Ugo Pirro. Palma d'Oro a Cannes con A ciascuno il suo di Elio Petri (1967), due volte candidato all’Oscar per la migliore sceneggiatura, è stato l’autore di film cult come Achtung! Banditi, La classe operaia va in paradiso, Il Giardino dei Finzi Contini e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. A 83 anni di età, Pirro sprizza vitalità da tutti i pori e non ha smesso di scrivere romanzi o soggetti per il cinema, nella sua casa romana a due passi da Piazza del Popolo. Lo sceneggiatore salernitano è anche un divulgatore appassionato della memoria e della storia del cinema made in Italy, e uno scrittore e un teorico importante, che ha contribuito a segnare la strada per le nuove generazioni di cineasti. 
 
Ci parla delle sue origini salernitane?
La mia famiglia è di Battipaglia. Mio padre era capostazione, mia madre era figlia di un agricoltore. Io sono nato a Salerno, e ci ho vissuto fino al 1923, quando mio padre fu trasferito a Castellamare di Stabia.
Che ricordi ha di Salerno?
Ero piccolo, ma ricordo benissimo la strada e l’edificio dove abitavo: Palazzo Salsano, in via Garibaldi. Un giorno avevo la febbre alta ed è passato sotto casa un carro con alcuni musicisti che chiedevano soldi per i terremotati. Mi affacciai alla finestra per vedere lo spettacolo e mia madre, per proteggermi dal vento, mi avvolse in una coperta disegnata con rose rosse. Se mi guardo indietro, posso ancora vedere il mio appartamento; aveva un corridoio lungo dove giocavo con mio fratello. Gli facevo i dispetti, lui era più grande di me, poi purtroppo morì di nefrite.
E Battipaglia, com’era in quegli anni?
Allora Battipaglia era poco più che un paese, era una frazione di Eboli. Ricordo che non c’era l’acqua nelle case, e si utilizzavano i secchi. Ci abitavano i miei nonni, e andavamo spesso a trovarli. Il mio nonno materno, Carmine Turco, fu il primo sindaco del nuovo comune. 
Come si viveva a casa Pirro?
All’anagrafe il mio vero cognome è Mattone. Comunque la mia adolescenza è stata un romanzo, tanto è vero che ci ho scritto un libro, Figli di ferrovieri, uscito nel 1998. Tra le altre cose, ho scoperto di avere un fratello naturale, e questo mi ha cambiato la vita.
Com’è scoccata dentro di lei la passione per il cinema?
Credo che una grossa parte di “responsabilità” ce l’abbia mio padre. Vede, allora le pizze dei film arrivavano per treno e mio padre, che era capostazione a Castellamare di Stabia, aveva acquisito per sé e per i suoi il “diritto” di ingresso gratuito al cinema. Il risultato è che passavo le mie giornate dentro la sala cinematografica, invece di studiare, e in latino ero un vero asino.
Poi arrivò la guerra…
E io combattei sul fronte in Jugoslavia, in Grecia e in Sardegna. Quattro lunghi e terribili anni, che ho in parte descritto nel mio primo libro, Le soldatesse, che racconta il viaggio di un ufficiale ventenne in compagnia di un «carico» di prostitute destinato ai soldati italiani dell'Armata Sagapò.
Quando ha iniziato a scrivere sceneggiature?
Da giovane ero più appassionato di teatro che di cinema. Ricordo che scrivevo commedie teatrali con il lapis, sui fogli da telegramma che si usavano nella stazione. Poi, finita la guerra, vinsi un piccolo premio letterario in danaro e nel ’47 mi trasferii a Roma. Cominciai a collaborare con qualche giornale, e solo più tardi entrai nel mondo del cinema.
Quale fu il suo primo soggetto per il cinema?
Quando ero ancora giornalista, incontrai un collega che aveva appena intervistato, in Puglia, Giuseppe Di Vittorio, il grande sindacalista della Cgil. Mi raccontò che Di Vittorio, a quindici anni, avendo costituito una lega bracciantile, si rese conto che il suo analfabetismo danneggiava i lavoratori che intendeva rappresentare. Questa constatazione lo spinse ad imparare a scrivere: iniziò a scrivere sui muri di casa con il carbone, a strappare i manifesti dalla strada e a ricopiare le lettere. Questa storia mi colpì a tal punto che decisi di scrivere un film, prendendo spunto, appunto, da questa immagine di Di Vittorio.
Lei ha vissuto in prima persona la grande stagione del cinema italiano degli anni Sessanta. Quali sono i registi a cui è legato di più?
Senza dubbio Elio Petri e Carlo Lizzani, con i quali ho avuto un lungo e fecondo sodalizio. E poi, come dimenticare Vittorio De Sica. Tra i film che ho scritto, Il giardino dei Finzi Contini è uno di quelli che amo di più…
La sceneggiatura può essere considerata come un genere letterario con una propria dignità?
Credo di sì. Naturalmente vi sono molti modi di scrivere una sceneggiatura: c'è la sceneggiatura italiana, la sceneggiatura all'americana... Comunque, nel complesso, si può considerare un genere letterario. Anche se bisogna osservare che purtroppo, negli studi sul cinema, non si esamina mai la sceneggiatura. Se per il teatro si fa sempre riferimento al testo, per il cinema generalmente gli studiosi non fanno cenno al testo e questa è una limitazione del ruolo dello scrittore nel cinema.
Se ci si ispira ad un'opera letteraria, bisogna attenersi ad essa fedelmente?
Si può sintetizzare un’opera letteraria, oppure la si può modificare, cambiandone il senso, prendendone soltanto spunto. Io ho avuto una lunga lite con Giorgio Bassani per Il giardino dei Finzi Contini, proprio perché mi accusò di aver modificato il libro. La sua riserva consisteva nel fatto che nel romanzo il padre del protagonista non finisce in campo di concentramento, mentre nella mia riduzione cinematografica anche il padre finisce in campo di concentramento insieme con Micole, che è la protagonista femminile. Questo cambiamento l'offese: ne venne una polemica sui giornali, che è durata a lungo. Ma mi sono sempre sentito completamente a posto con la coscienza. Tra l'altro il film ha vinto un Premio Oscar: quindi posso dire che i fatti mi hanno dato ragione.
Che differenza c’è tra cinema e letteratura?
Bisogna sempre ricordarsi che il cinema è fatto di immagini; in caso contrario diventa uno sproloquio. La letteratura, permettetemi il paragone, è una realtà vista con due occhi; il cinema, invece, è una realtà vista con un occhio, l'obiettivo. Se noi togliamo un occhio, ci rendiamo conto che, per raccontare la realtà, dobbiamo fare alcuni movimenti di macchina. In letteratura questo non è necessario: racconto la scena nel suo insieme. In questo consiste, detto in modo paradossale, la differenza di stile che c'è tra il racconto letterario e il racconto cinematografico.
Lei ha a lungo insegnato il mestiere di sceneggiatore. E’ utile frequentare le scuole di cinema?
Se avessi avuto qualcuno che mi avesse dato delle lezioni, avrei guadagnato qualche anno nell'apprendere la professione. Invece ho dovuto imparare il mestiere insieme con qualche amico, facendo tesoro anche di alcuni sbagli. Quello che non si può in alcun modo insegnare, è il talento che, tuttavia, è qualcosa che si affina con il lavoro ed anche in seguito ad una ricerca su se stessi.
Ha mai pensato di fare il regista?
Mai. Ho sempre pensato di fare lo scrittore. Ho cominciato come giornalista per poi fare il “negro”, cioè ho scritto film per altri, registi e sceneggiatori affermati.
Le piace ancora scrivere?
Scrivere è la mia vita. Lo chieda alla mia segretaria che trascrive al computer tutti i miei testi. Il mio studio è stracolmo di soggetti e di romanzi.
Ha qualche sceneggiatura nel cassetto che le piacerebbe tirare fuori?
Ce n’è una che doveva girare De Sica, intitolata “Il coraggio e la fame”,  ambientata a Napoli. Poi si ammalò e non se ne fece niente.
Che giudizio ha del cinema italiano contemporaneo?
Oggi è difficile fare cinema, anche perché oggettivamente è difficile raccontare la società italiana. La situazione sociale è sfuggente. Di conseguenza le pellicole italiane sono poco gradite al pubblico. Esistono dei casi isolati che però non fanno scuola. Moretti è un regista interessante. Benigni è geniale, ma unico nel suo genere.
Mi sembra un po’ disincantato verso il cinema di oggi. 
Si, è così. Anche perché tra sceneggiatori e produttori non c’è più un dialogo costruttivo. Io con De Laurentis ci facevo delle grandi litigate. Se avevo una idea buona, veniva messa in atto. 
Forse una volta si aveva la forza di rischiare di più. 
Si, i vecchi produttori erano dei grandi giocatori e non a caso andavano sempre al casinò. E poi avevano la grande capacità di annusare le storie. Di capire quali erano i soggetti che sarebbero potuti piacere anche all’estero. Oggi la produzione ha bisogno di coprirsi le spalle perché il mercato non c’è e i rischi sono troppi. Quindi se non c’è un finanziamento statale o la copertura della televisione il film non si fa.
Forse è per questo motivo che hanno più successo le fiction televisive?
A parte qualche eccezione, come La meglio gioventù, le fiction italiane sono detestabili. Il medico in famiglia, per esempio, è di una banalità che fa impressione. Anche se credo che Un posto al sole sia la peggiore in assoluto.
La tv uccide il cinema?
Non lo so. Di certo la tv uniforma tutto, anche perché la televisione non crea, ma rivede. Va bene per rivedere i fatti, per rivedere i film, per rivedere la storia, non per creare storie…
Com’è caratterialmente Ugo Pirro?
Sono dolce, ma anche testardo. Su certe cose, non cambio facilmente idea. Per dirne una, sarò contro Berlusconi per tutta la vita. E poi mi piace una cosa molto rara nel nostro ambiente: la modestia.
E’ ancora legato alla sua terra?
Eccome! I miei genitori e i miei nonni sono seppelliti a Battipaglia. A Salerno e a Battipaglia ho ancora diversi parenti e amici. E io mi sento intimamente salernitano. Le mie radici meridionali sono fortissime, e sono fatte di tante cose: le abitudini familiari, il dialetto, gli affetti...
E il cibo?
Quello forse non tanto, o meglio non più come un tempo. Certo amo la pastasciutta più della polenta, però i piatti di una volta non esistono più. Faccio un esempio: la vera mozzarella di bufala ora non si trova. Io lo ricordo bene il sapore autentico delle mozzarelle di Battipaglia. D’altra parte tutto è cambiato. Prima le bufale erano allevate allo stato brado, mangiavano l’erba naturale delle campagne, non i mangimi. Anche il latte aveva un sapore diverso.
Ha visitato di recente Salerno?
Sì, e l’ho trovata una bella città, molto sviluppata. Mi ha davvero sorpreso, e non lo dico per piaggeria…
 
 (La Città di Salerno, 28 dicembre 2003)
 
Scheda biografica
 
Ugo Pirro (all’anagrafe il cognome è Mattone) nasce a Salerno il 26 aprile del 1920. Ha al suo attivo una lunga carriera sia come sceneggiatore (vanta più di una quarantina di sceneggiature, realizzate tra il 1951 e il 1996) sia come romanziere. 
Il suo esordio letterario risale al 1956, quando pubblica il romanzo "Le soldatesse". Tra le sue opere narrative vanno ricordate: “Jovanka e le altre” (1959); “Mio figlio non sa leggere” (1981), “Celluloide” (1983), “Il luogo dei delitti” (1991); “Osteria dei pittori” (1994); “Soltanto un nome sui titoli di testa” (1998); “Figli di ferroviere” (1999); “Il cinema della nostra vita” (2001). 
Come scrittore per il cinema si fa già notare negli anni ‘50, associando il proprio nome a pellicole quali “Achtung! Banditi” (1951) di Carlo Lizzani, “Canzoni di tutta Italia” (1955) di Domenico Paolella, “L’amore più bello” (1957) di Glauco Pellegrini, “Cerasella” (1959) di Raffaello Matarazzo. (dal suo primo romanzo, “Le soldatesse”, è stato tratto, nel 1965, l’omonimo film di Valerio Zurlini). 
Nel decennio successivo, la sua attività s’intensifica: mentre continua il proficuo rapporto con Lizzani (“Il gobbo”, 1960; “Il processo di Verona”, 1963; “Svegliati e uccidi”, 1966; “L’amante di Gramigna”, 1969; “San Babila ore 20 un delitto inutile”, 1976;), egli lavora con molti altri cineasti, dallo statunitense Martin Ritt (“Jovanka e le altre”, 1960) a Glauco Pellegrini (“Capriccio italiano”, 1961), dallo jugoslavo Veliko Bulajic (“La battaglia della Neretva”, 1969) a Gianfranco Mingozzi (“Sequestro di persona”, 1968) e a Damiano Damiani (“Il giorno della civetta”, 1968). Versato per un cinema d’impegno civile, che tratta problemi di attualità sociale e politica, Pirro trova in Elio Petri il regista più adatto, realizzando film di grande spessore: “A ciascuno il suo”, 1967, vincitore della Palma d’Oro a Cannes; “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, 1970, candidato al premio Oscar; “La classe operaia va in paradiso”, 1971; “La proprietà non è un furto”, 1973. Pirro collabora inoltre con Mauro Bolognini per “Metello” (1970, dal romanzo di Vasco Pratolini) ed “Imputazione di omicidio per uno studente” (1972); con Vittorio De Sica per “Il Giardino dei Finzi Contini” (1971), vincitore del premio Oscar; con Pasquale Squitieri per “I guappi” (1974) ed “Il prefetto di ferro” (1977); e con Gillo Pontecorvo per “Ogro” (1979).
Nel 1993 Pirro scrive insieme ad Andrea Purgatori “Il giudice ragazzino” di Alessandro Di Robilant e, nel 1996, “Celluloide” di Carlo Lizzani, vincendo il Premio Donatello per la migliore sceneggiatura. 
Pirro è anche un importante teorico del cinema. Autore del manuale "Per scrivere un film", ha contribuito con i suoi insegnamenti a formare nuovi sceneggiatori, divulgando il proprio modo di intendere la sceneggiatura.
 
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