Mario Avagliano

Mario Avagliano

Intervista al Prof. Angelo D’Orsi, storico

di Mario Avagliano
  
Quando emigrò con la famiglia a Torino, nel lontano 1957, erano anni in cui, nella capitale dell’automobilismo made in Italy, si attaccavano ai portoni  cartelli con la scritta: “Non si affittano case ai meridionali”. Oggi il professor Angelo D’Orsi, 57 anni, salernitano doc, anche se nativo di Pontecagnano, è uno dei più apprezzati storici italiani. Allievo di Norberto Bobbio, autore di studi sul fascismo, su Gramsci e sugli intellettuali piemontesi, scrive saggi per prestigiose case editrici del Nord, come l’Einaudi, la Feltrinelli e Bollati Boringhieri, e ha messo in cantiere anche un romanzo, che viaggia tra eros ed emarginazione. D’Orsi non ha mai rinnegato le sue origini meridionali, ama il mare di Salerno, dove torna spesso, ed è ghiotto di mozzarelle di bufala. E confessa: “Il compito che mi sono dato per la vecchiaia, è di analizzare alcuni aspetti e figure della storia politica del Sud”.
 
Professore, si sente più salernitano o piemontese?
Salernitano, non vi è dubbio. Mio padre Francesco era originario di un meraviglioso paesino del Cilento interno, Valle dell’Angelo, in mezzo ai lupi, dove abbiamo ancora la casa dei nonni. Mia madre aveva una piccola proprietà terriera a Salerno. Io sono cresciuto nella piana del Sele, tra Battipaglia, Paestum e Eboli. Le mie radici sono lì.
Immagini, odori, emozioni. Che cosa si porta nella valigia dei ricordi?  
L’infanzia per me è stato il mare, che a Torino è la cosa che mi è mancata di più. Ho anche un bellissimo ricordo degli odori della campagna, di quando salivo sugli alberi a raccogliere le mele acerbe, della raccolta dei pomodori, dell’allegro rito della trebbiatura, che coinvolgeva tutta la famiglia, dai vecchi ai bambini. Io ero un ragazzo macilento, mi chiamavano passaguai, già allora ero poco avvezzo alle cose pratiche e più predisposto agli studi e alla cultura, ma partecipavo a quelle giornate con entusiasmo e mi divertivo molto, cercando di rendermi utile.
Come mai la sua famiglia emigrò a Torino?
I miei genitori esercitavano un lavoro legato alla cultura napoletana dei Totò e dei De Filippo, i ricevitori del lotto, che a quel tempo erano pubblici funzionari. Si accedeva al lotto attraverso pubblici concorsi, come nei ministeri o nelle scuole. In base all’esito degli esami e agli avanzamenti di carriera, si veniva destinati ad altre sedi. Mio padre fu assegnato prima a Salerno, poi a Lagonegro, e infine a Oristano, in Sardegna. Mia madre Teresa non volle saperne di trasferirsi lì, allora venne fuori la possibilità di recarsi a Torino. Mio padre, che aveva il mito del Risorgimento, non ebbe dubbi, e ci convinse tutti.
Il suo impatto con Torino fu buono?
Fu traumatico. Era una domenica di inizio ottobre del 1957. Il giorno prima ero stato al mare e avevo fatto il bagno. Quando arrivammo a Torino, trovammo un’aria lugubre. Pioveva, faceva freddo, e la città ci sembrò grigia e cupa. Nella nostra nuova casa non c’era riscaldamento, ed eravamo stretti: sei persone in tre stanze. Fu uno shock. Io poi mi ero immaginato Torino come una città piena di luce, e l’appartamento grande e bello. Rimasi deluso. Anche mio padre era imbarazzato. Anni dopo, mia madre mi ha raccontato che, dopo il mio arrivo a Torino, cambiai carattere: da allegro e scherzoso che ero, diventai timido e introverso.
Torino era tanto terribile?
Guardi, i primi tre anni per me furono un inferno. Mi sentivo estraneo ed estraniato. Anche a scuola, c’era un razzismo strisciante. I miei compagni mi chiedevano di dov’ero, e quando rispondevo Salerno, replicavano: “Ah, Salerno, dalle parti di Palermo”, oppure: “Da Firenze in giù, siete tutti di Napuli”. Io non ho mai parlato in dialetto, ma avevo l’accento, e le prese in giro degli altri ragazzi erano feroci. Ricordo che, per reazione, comprai un dizionario di pronuncia e nel giro di 15 giorni, a forza di esercitarmi fino a notte, avevo già perso l’accento e toccava a me prenderli in castagna.
Erano anni difficili per i meridionali che lavoravano al Nord?
Ai portoni non di rado trovavi affissi cartelli con la scritta “Non si affittano case ai meridionali”. Il razzismo verso la gente del Sud era palpabile. C’è un episodio della mia vita che non dimenticherò mai. Un giorno l’insegnante di matematica, facendo l’appello, chiese se c’era qualche meridionale in classe. Io ero l’unico, rimasi in silenzio, rosso di vergogna, abbassando la testa. I miei compagni si voltarono tutti verso di me, guardandomi fisso. E la professoressa disse: “Ah D’Orsi, volevo ben dire, sei il più stupido!”. Ovviamente quell’anno fui rimandato in matematica.
Come nacque la sua passione per la filosofia e per la storia?
La passione per la cultura e per l’arte me l’ha trasmessa mio padre, che era musicista e poeta dilettante anche se – suo malgrado - era autodidatta e non aveva completato gli studi. Un giorno aveva marinato la scuola e aveva nascosto la cartella con i libri sotto a un albero. Qualcuno gliel’aveva rubata e mio nonno, che era severissimo, per punirlo lo aveva ritirato dalla scuola. Mio padre non glielo perdonò mai, ma appena cominciò a lavorare, nel corso degli anni costituì a casa sua una biblioteca fornitissima. I libri li divorava, aveva una curiosità onnivora, un po’ come il personaggio de La Peste di Camus, che leggeva le enciclopedie in ordine alfabetico. 
A parte suo padre, ha avuto qualche maestro?
Io ho frequentato il Liceo Gioberti, dove sono passati personaggi come Piero Gobetti e Piero Sraffa, e che è sempre stato un istituto di “sinistra”. Lì ho avuto due insegnanti che mi sono rimaste nel cuore: Giuliana Tedeschi Fiorentini, reduce dal lager di Auschwitz, e Lidia De Federicis. Sono loro ad avermi fatto amare la letteratura. Poi ho avuto la fortuna di avere come docente di storia e filosofia Alpino Galvano, pittore, filosofo, critico d’arte, un liberale tendenzialmente conservatore, ma di grande fascino intellettuale e signorilità. E’ stato lui, credo, a comunicarmi l’amore per la Storia e la e Filosofia. Infine, come non citare Norberto Bobbio? A differenza di altri, io non ho mai avuto il culto di Bobbio, ma sono stato uno dei suoi allievi, mi sono laureato con lui, l’ho frequentato a lungo, nella vita accademica e nella vita privata, e le sue opere sono state per me una fonte continua di stimolo, anche critico. 
Com’era Bobbio dal punto di vista umano?
Non era granché caloroso, anche se sapeva essere davvero arguto nelle sue conversazioni. Ogni tanto si scioglieva, ad un certo punto mi costrinse a dargli del tu, ma m’incuteva sempre soggezione. E poi era circondato da una coorte di persone in cui si esercitava una piaggeria che non mi piaceva.
Dopo la laurea in filosofia, lei ha cominciato ad occuparsi della storia del pensiero politico, diventando uno dei massimi esperti in questo settore.
Io ho avuto fin da piccolo una particolare attenzione ai temi della politica. Sembrerà assurdo, ma ricordo che a Salerno, ancora bambino ero invitato alle cene dei “grandi” ed ero richiesto del mio parere sui fatti della politica interna ed estera. Ad un certo punto è stato quindi naturale per me ancorare gli studi alla concretezza della vita reale.
Lei ha scritto diversi saggi sul fascismo e si è occupato anche di Resistenza.
Quello del fascismo è un discorso che ancora fa male, perché la generazione cresciuta sotto Mussolini non ha mai fatto una seria autocritica. Non aver fatto i conti con il fascismo, ha come conseguenza che anche la Resistenza è un tema incandescente. Questo deficit di riflessione autocritica, porta a trasmissioni come quella di qualche giorno fa condotta da Bruno Vespa e a interventi come quello di Petacco, che resuscita vecchi stereotipi come il Mussolini buonuomo finché non si alleò con Hitler e fece la guerra, che sono un esempio di come non si fa storia. Se poi questi stereotipi sono ripetuti anche dal Presidente del Consiglio... stiamo messi male. D’altra parte che cosa ci si poteva attendere da un governo dove trovano posto gli eredi del fascimo. Direbbe Eduardo, adda’ passà ‘a nuttata. 
Angelo D’Orsi sarebbe diventato uno storico di fama anche a Salerno?
A volte me lo chiedo. Non so se avrei fatto strada al Sud. Torino è una città difficile, a circoli chiusi, feudale, che è passata dalla Monarchia alla Signoria, e dove contano soprattutto i cognomi e le appartenenze familiari. Una città dove non mi sono mai veramente integrato. Allo stesso tempo Torino è anche un formidabile crocevia di culture, dove sono passati tanti intellettuali, a partire da Antonio Gramsci, ed  è sede di case editrici storiche, di un giornale importante come La Stampa.  
Come le sembra la Salerno di oggi?
Negli ultimi anni l’ho trovata gradevolmente trasformata, più vivibile, più bella. Quando vengo, mi piace passeggiare per il corso o al lungomare. E poi Salerno, e più in generale la Campania, è un vero laboratorio politico del buongoverno del centrosinistra nel Meridione. Un ciclo inaugurato da Bassolino e che dura da anni, e che mi sembra destinato a durare ancora.
Da storico della politica, come se lo spiega?
Un po’ ha giocato l’effetto Bassolino, ma non c’è dubbio che ci sono anche profonde ragioni strutturali. Dopo il terremoto del 1980, si era arrivati a un degrado morale talmente forte che la società civile ha avuto un positivo moto di reazione e di cambiamento. E’ successo un po’ come quando uno si tuffa in mare e tocca il fondo, e dopo ha una spinta verso l’alto. Francamente  avevo perso le speranze sulla possibilità di un nuovo corso in Campania, ma gli esempi di Napoli e di Salerno, dimostrano che il cambiamento c’è stato ed è reale. 
Quali sono i suoi prossimi progetti?
Ho quasi terminato la biografia di Leone Ginzburg, uno straordinario intellettuale che ha testimoniato la verità anche a prezzo della vita. In queste settimane sono impegnato nella scrittura di un romanzo che s’intitola “Fumo e piango”, una storia di eros, di dolore e di morte, una sorta di raccolta di esperienze border-line tra la vita della città e il mondo dei reietti. Inoltre sto dedicando le mie energie più intense ad Antonio Gramsci, una figura che oggi viene riscoperta in tutto il mondo, tranne forse in Italia, dove soffre il fatto di essere considerato, in modo riduttivo, il fondatore del Pci.
Chi è il professor D’Orsi nel privato?
A volte mi sento come un personaggio di Joseph Roth in “Fuga senza fine”: “Superfluo come lui al mondo non c’era nessuno”.    
 
 (La Città di Salerno, 31 ottobre 2004)
 
Scheda biografica
 
Angelo D’Orsi è nato a Pontecagnano (Sa) il 1° gennaio del 1947. Laureato in Lettere e Filosofia all'Università di Torino, con Norberto Bobbio, è professore associato di storia del pensiero politico contemporaneo nella Facoltà di Scienze Politiche dell'ateneo torinese, dove insegna anche storia della storiografia contemporanea, e nella Facoltà di Lettere e Filosofia, dove insegna metodologia della ricerca storica. Dopo aver esordito con studi su militarismo e pacifismo, si è occupato prevalentemente di nazionalismo e di fascismo (I nazionalisti, Feltrinelli, Milano 1981; La rivoluzione antibolscevica, Angeli, Milano 1985; Le dottrine politiche del nazionalfascismo, WR Editoriale, Alessandria 1988). Da tempo, suo terreno privilegiato di lavoro, oltre che la storia delle idee politiche (Alla ricerca della politica, Bollati Boringhieri, Torino 1995), sono le questioni di metodologia della ricerca e la storia della storiografia (Guida alla storia del pensiero politico, Il Segnalibro, Torino 1990; nuova ed. completamente rifatta La Nuova Italia, Firenze 1995; Alla ricerca della storia, Paravia/Scriptorium, Torino 1996; 2a ed. riv. e corr., ivi, 1999).  L'altro suo ambito di studi è rappresentato dalla storia della cultura e degli intellettuali (tra i numerosi contributi, si ricorda il volume L'ideologia politica del futurismo, Il Segnalibro, Torino 1992). Sempre da Einaudi è uscito recentemente La cultura tra le due guerre (2000), un saggio che ha suscitato un vivacissimo dibattito non soltanto storiografico. Di poco precedente è l'edizione del Carteggio tra Gioele Solari e Norberto Bobbio, che reca un ampio saggio introduttivo (La vita degli studi, Angeli, Milano 2000). I suoi ultimi saggi sono Intellettuali nel Novecento italiano (Einaudi 2001); Piccolo manuale di storiografia (Mondadori 2002); Allievi e maestri. L’Università di Torino nell’Otto-Novecento (CELID 2002); (a cura di) Guerre globali. Capire i conflitti del XXI secolo (Carocci 2003). Ha appena curato e introdotto una raccolta di scritti di Gramsci, La nostra città futura (Carocci, 2004). Collabora con il quotidiano “La Stampa”.

 

Intervista a Bruno Brindisi, fumettaro

di Mario Avagliano
 
C’è un solo disegnatore in Italia che ha il privilegio di inventare, con la sua matita f, gli scenari, i volti, i fondali delle indagini da “incubo” di Dylan Dog e dei duelli al tramonto di Tex Willer. A quasi quarant’anni di età, Bruno Brindisi, salernitano di Pastena, è considerato il miglior fumettaro d’Italia. Nell’aprile scorso la giuria del premio nazionale Cartoomics gli ha assegnato il suo prestigioso premio, considerato l’Oscar italiano del Fumetto, con la seguente motivazione: «Ad un giovane caposcuola del fumetto che ha dimostrato qualità tecniche ed artistiche di eccezionale livello. Per la capacità di descrivere ed evocare incubi e sogni, paesaggi reali e fantastici, mettendo il proprio stile a servizio dell’avventura e del divertimento». Brindisi, in questa intervista, parla dei suoi inizii, tra fumetti e musica jazz, di Salerno (“non c’è stata una grande rivoluzione, per ora è cambiata solo nei dettagli”) e rivela: “Sto preparando una nuova serie per la Bonelli Editore”.
 
I suoi genitori sono salernitani?
No, mio padre è nato a Carbone (PZ) e mia madre è napoletana. Ma io sono nato a Salerno e mi sento salernitano.
Quali sono i ricordi della sua infanzia e adolescenza a Salerno? Che scuole ha frequentato e chi erano i suoi amici del cuore?
Ho vissuto trent'anni a Pastena, di fronte al campetto e al cinema parrocchiale Fatima, ho frequentato le elementari alla Vermicone, le medie alla Ricci e il liceo al Severi. Alcuni dei miei migliori amici "me li porto" da  allora. Dell'infanzia ricordo le partite di pallone per strada e le ginocchia massacrate, le sudate, le bronchiti e “tornare a casa presto”, le cozze pescate sulla scogliera del porticciolo di Pastena e la folla di bambini per i film di Bruce Lee e Franco e Ciccio, il pomeriggio di domenica alle tre. Poi i primi gruppi musicali e le prove nei garage puzzolenti di vino e di umido, ma soprattutto molto tempo libero dedicato alla musica e ai fumetti.
Se dovesse descrivere la Salerno di allora in una tavola di fumetti?
Per me era un kilometro quadrato, ma non mi pare tanto cambiata. 
Com'è nata la passione per il disegno e per il fumetto?
Mia madre mi portava il "Giornalino" dalla scuola (è stata insegnante) quando avevo quattro anni e sapevo appena leggere. Mio padre mi faceva disegnare a matita, ripassare a pennino e poi colorare ad acquarello, più o meno alla stessa età. Era un gioco come tanti altri, ma la predisposizione naturale e la fortuna l’hanno trasformato in lavoro. 
E' vero che il suo primo fumetto risale alla terza elementare e la sua maestra rimase impressionata?
Per forza, l'avevo trasformata in zombi.
Quali soggetti o personaggi ha cominciato a disegnare agli inizi?
Mostri e scene truculente fin dalla più tenera età, poi molte parodie con i compagni di classe come protagonisti!
Che fumetti leggeva Bruno Brindisi da ragazzo?
Nell'ordine: Giornalino,Topolino, Corriere dei Ragazzi, Zagor, Totem, Pilot (per citare solo quelli che ho comprato con continuità).
Nel 1983, insieme ad alcuni amici fumettari, fonda la rivista Trumoon. Ci racconta come andò e che conclusione ebbe quella avventura?
Non andò, economicamente parlando. Era un catalogo autopromozionale che ebbe fine quando cominciammo a lavorare sul serio.
In quel periodo, oltre a disegnare, lei partecipa anche alla grande stagione salernitana del jazz, come tastierista. Ce ne parla?
Bah, non mi sento all'altezza, sono sempre stato un musicante, non ho mai studiato. Ho avuto la fortuna di suonare con parecchi talenti da cui ho cercato di carpire qualche segreto. Il gruppo di cui conservo il miglior ricordo si chiamava GAD Bband, con Amedeo Ariano alla batteria, Dario Deidda al basso, Angelo Anastasio alla chitarra e Gerry Popolo al sax. E io alle tastiere, pensa te!
Con i Neri per Caso è rimasto in contatto, visto che ha disegnato anche la copertina di un loro cd...
Si può dire che li ho visti crescere! Ciro e Diego frequentavano il  circolo Arci Mumble Rumble di Pastena che erano poco più che bambini.
Quegli anni sono stati fertili per la cultura e l'arte a Salerno?
Non erano fertili gli anni, eravamo fertili noi. Ma anche oggi la città tracima talenti. Gli entusiasmi e i sogni, poi, dipendono dall'età.
In che momento la carriera di fumettaro è diventata per lei una cosa seria?
Quando mi sono reso conto che ci si poteva campare.
Nel 1989 ha cominciato a collaborare con Sergio Bonelli Editore. Come è entrato in contatto con loro?
Ho seguito la solita trafila, con la cartellina sotto il braccio e l'umiltà di superare i primi rifiuti. Avevo avuto la possibilità di farmi le ossa per un paio d'anni su altre testate e questo mi ha aiutato ad entrare nello staff del personaggio del momento, Dylan Dog, che stava vivendo il suo incredibile boom.
Da allora ha vinto molti premi...
...bontà loro.
Quali sono i personaggi che predilige e che le vengono "meglio"? Tex, Martin Mystère, Nick Raider, Dylan Dog?
Ho sempre detto che il personaggio che "sento" di più è Dylan, con tutti i suoi umanissimi difetti, ma da quando disegno Tex sto scoprendo il fascino del mito e dell'eroe, che da ragazzo un po' snobbavo. Comunque è bello avere la possibilità di cambiare.
C'è un lavoro di cui è più fiero degli altri?
Sono un insoddisfatto cronico.
Qual è l'autore di sceneggiature con cui lavora meglio?
Gli altri non si offenderanno se dico Tiziano Sclavi.
Che tipo è Sclavi?
Pochi possono dire di conoscerlo bene. Io non sono tra questi.
Faccia tre nomi di mostri sacri del fumetto italiano...
Andrea Pazienza, Gianluigi Bonelli, Hugo Pratt.
Qual è la sua tecnica di disegno?
Niente di particolare, matita f su cartoncino semiruvido 30x40, ripasso a pennarello impermeabile.
E il suo metodo di lavoro?
Lettura della sceneggiatura, studio dei personaggi, ricerca della documentazione per ambienti, vestiti, macchine, ecc. Poi faccio il primo abbozzo su un foglio leggero, ricopio sulla tavola e via. E la giornata è andata. Faccio orari regolari.
Si parla di scuola salernitana del jazz. Esiste anche una scuola salernitana dei fumetti? E chi ne sono gli esponenti più interessanti?
Bisognerebbe intendersi sul termine "scuola". Comunque il gruppo annovera una decina di persone tra disegnatori e sceneggiatori, tra i quali Roberto De Angelis, Luigi Siniscalchi, Luigi Coppola, Raffaele Della Monica, Giuliano Piccininno, Antonella Vicari, Giuseppe De Nardo.     
Ci sono nuovi talenti salernitani che si stanno affacciando nel mondo dei fumetti?
Il più recente acquisto alla Bonelli è Luca Raimondo per Jonathan Steel, mentre una giovane disegnatrice a cui tengo molto, Elisabetta Barletta, sta lavorando a John Doe, nuovo promettente personaggio dell'Eura Editoriale (Lanciostort, Skorpio, Dago).
Lei è tanto legato a Salerno che, dopo un periodo passato fuori, ora lavora stabilmente in città. Come mai?
Ci sono nato, non basta? E comunque non mi ci trovo male, se sono di buon umore.
Salerno negli ultimi anni è cambiata molto. Il suo giudizio spassionato?
Non è cambiata affatto. Solo nei dettagli. I grossi progetti e i grossi sviluppi sono solo su carta.
Ha mai disegnato Salerno nelle sue tavole? Ha progetti legati alla città?
Qualcuno avrà visto "Storia di Salerno a fumetti", un mio lavoro del 1986 che ha avuto recentemente una nuova edizione in video. Solo questo.
A Cava e a Salerno si sono tenute per qualche anno interessanti mostre del fumetto. Poi più nulla. Come mai?
Ci sono state due o tre edizioni della mostra, ma problemi a livello organizzativo ed anche economico, che è quello che frega di più, hanno impedito nuove edizioni. Sono iniziative private, ed esaurita la passione, quel che resta è lo stress. 
Che sta facendo adesso Bruno Brindisi. Lavori attuali, progetti, sogni nel cassetto...  
Sono l'unico disegnatore che ha la fortuna di lavorare contemporaneamente alle due serie più importanti d'Italia, Tex e Dylan Dog, e quindi il cassetto dei sogni l'ho aperto da tempo. Sono in uscita a fine mese con Dylan e a fine anno con Tex. E poi, sto per iniziare il numero 1 di una nuova serie per Bonelli di cui non posso ancora rivelare nulla... ci risentiamo più in là. 
 
(La Città di Salerno, 12 ottobre 2003)
 
Scheda biografica
 
Bruno Brindisi nasce il 3 giugno del 1964 a Salerno, dove tuttora vive e svolge la sua attività. Disegna dall’età di 4 anni, ma comincia a farlo in modo un po’ più professionale su Trumoon n° 1 (1983), rivista edita in proprio da un gruppo di amici fumettari che qualcuno in seguito ha voluto etichettare come “scuola salernitana”. Tecnicamente è autodidatta, non avendo seguito nessun corso a indirizzo artistico. Nonostante la passione per il fumetto, gli ci vorranno anni prima di decidersi a sceglierlo come mestiere, rinunciando a una quasi sicura carriera di cameraman alla RAI ed a quella, molto più incerta, di tastierista pop-jazz. Prima pubblicazione “pagata”, due storie brevi per le Edizioni Cioè nel novembre 1986. E’ del 1988 la gavetta sui pocket “hard” della E.P.P., tramite lo studio On Mollo M di Francesco Coniglio, che poi diventerà edizioni ACME dando alla luce una serie di pubblicazioni di non lunga fortuna: Splatter, Mostri, Torpedo. Nel 1989 i primi contatti con Sergio Bonelli Editore, con varie prove per Nick Raider, Nathan Never e Dylan Dog, personaggio con il quale esordirà nel novembre 1990 con la storia “Il male” (n°51). Da allora produce per la Bonelli qualcosa come oltre 2500 tavole (numero provvisorio), quasi tutte per Dylan Dog (ma anche per Nick Raider, Martin Mystère, Tex), riuscendo a realizzare nel frattempo una miniserie in tre episodi per la Comic Art (Bit Degeneration) e i primi episodi della serie “Billiteri” (per la Universo). La miniserie  “Bit Degeneration” esce in America sulle pagine della rivista Heavy Metal (maggio ’95-novembre ’95-maggio ’96). E’ sua la storia “Finché morte non vi separi”, a colori, con cui Dylan Dog festeggia il decennale (settembre 1996). Nel 1997 realizza le sigle dello sceneggiato RAI in sei puntate “Il conto Montecristo” di Ugo Gregoretti. Per conto della DeMas & Partners esegue dei “model sheets” per una serie a cartoni animati (2001). Dello stesso anno è il Tex Gigante “I predatori del deserto”. Nel 2002 disegna la copertina e le illustrazioni interne del disco dei “Neri Per Caso”. Nel novembre dello stesso anno esce negli USA la ristampa di un suo Dylan Dog (Zed) per la Dark Horse. E’ anche autore del numero 200 di Dylan Dog, che fa luce su parte del passato del protagonista (aprile 2003). Ha vinto nel 1993 il Premio Albertarelli (ANAFI), nel 1995 il premio ANAFI come  miglior disegnatore, nel 1997 il premio FUMO DI CHINA come miglior disegnatore realistico e nel 2003 il premio CARTOOMICS-IF come miglior disegnatore. 

 

Intervista a Massimo Venturiello, attore

di Mario Avagliano
 
 
Se c’è un attore in Italia che è capace di spaziare fra tutti i generi teatrali, da quello classico a quello contemporaneo, passando per il cinema, la televisione, l’attività di doppiatore e, più di recente, anche il canto, è il cilentano Massimo Venturiello, 46 anni, originario di Roccadaspide. Alla vigilia del suo debutto in L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht e Kurt Weill, per la regia di Pietro Carriglio e l’allestimento del Teatro Biondo di Palermo, Venturiello ci racconta che la sua carriera è iniziata con un monologo dedicato ai contadini della sua terra, intitolato A’ sguerra. Poi critica duramente il teatro italiano attuale (“spesso è noioso e comunque è troppo legato al melodramma”) e parla dei suoi progetti futuri, che potrebbero incontrarsi con quelli del grande Roberto De Simone.
 
Lei è nato nel profondo Cilento.
Ho un ricordo molto forte degli anni dell’infanzia nel Cilento. Io poi ho avuto la ventura di  nascere in carcere. Mio padre Pasquale era una guardia carceraria ed io ho vissuto i primi sei anni della mia vita nell’istituto carcerario mandamentale di Roccadaspide. Abitavamo nella cosiddetta via Larga, che fluiva accanto a un’altra via che in paese chiamavano Stretta. Certo, era un carcere di provincia, dove erano rinchiusi i ladri di pollo più che i grandi killer… Però ancora oggi, a volte, mi torna in mente l’immagine di mia madre che prepara la pasta e patate ed io che la mangio seduto sulle gambe di un carcerato.
Spero che non trascorresse tutto il tempo… dietro le sbarre!
No, no… Ricordo che con i miei due fratelli andavamo spesso in soffitta, dove c’era la gabbia dei conigli. D’inverno ci affacciavamo alla finestra e raccoglievamo la neve che si era depositata sul davanzale per confezionare gustose granite casalinghe. A Natale aiutavamo mio padre a costruire il presepe, utilizzando le scatole di cartone per fare le case e la farina per simulare la neve. 
Roccadaspide com’era in quegli anni?
Era un paese molto povero, essenzialmente contadino. E Castel S. Lorenzo, il paese originario di mio padre, era ancora più arretrato. L’olio, per esempio, non esisteva. La sugna era il condimento ufficiale di tutti i piatti! Aveva un odore penetrante, e io che ero bambino, non riuscivo a sopportarla, mi nauseava un po’. La realtà sociale aveva tratti di paganesimo. C’era anche una comunità di zingari, integrata nel paese. Io giocavo nell’orto degli ulivi con i zingarelli. A ripensarci, sembrava un’altra epoca, sembrava di vivere ancora nell’Ottocento. 
Quando lei aveva quasi sette anni di età, la sua famiglia si trasferì a Roma. 
Feci in tempo a frequentare la prima elementare a Roccadaspide, poi mio padre fu assunto come ufficiale giudiziario prima a Milano e poi nella zona della Sabina, e così ci trasferimmo a Roma. Per me fu uno shock, avvertii molto il distacco dalla vita del paese. Forse anche per questo, nonostante che ami molto Roma e non la cambierei per nessuna città al mondo, non mi sono mai sentito un romano. Ho sempre avuto il senso delle mie radici cilentane, salernitane, meridionali. 
Come nacque la sua passione per la recitazione, per l’arte?
Un po’ è stata l’influenza familiare, mio fratello Ennio Rega è un cantante, ha vinto un disco d’oro e ha partecipato anche al Premio Tenco, un po’ è stata la casualità della vita. Un giorno andai con gli amici a vedere in un teatro di Roma il Masaniello di Armando Pugliese. Rimasi tanto colpito, che il mattino dopo m’iscrissi all’Accademia d’arte drammatica. Allora, però, non avrei mai immaginato che 23 anni dopo, nel 1997, Armando mi avrebbe chiamato a recitare il ruolo di protagonista nella riedizione di quello spettacolo.
Erano le sue radici campane che tornavano a galla…
Infatti in quell’occasione per me è stato molto utile recuperare il dialetto che avevo imparato nel Cilento e poi anche a Roma, dai miei genitori. E non è tutto, anche i miei inizi e la mia carriera hanno a che fare con le mie origini. Il mio primo vero successo, quello che mi ha fatto conoscere come attore teatrale, è stato un monologo sui contadini del Cilento, che s’intitolava “A’ sguerra”, scritto da Ludovico Parenti. Il giorno dopo la rappresentazione, non esagero affatto, nell’ambiente non si parlava che di me!
Allora il giovane Venturiello era appena uscito dall’Accademia. 
Stiamo parlando più o meno della prima metà degli anni Ottanta. A Roma stava venendo fuori una bella generazione di attori: Fabrizio Bentivoglio, Massimo Ghini, Luca Barbareschi, Paolo Rossi, Sergio Rubini, Claudio Bisio, Elisabetta Pozzi, Benedetta Buccellato. Io alternavo il teatro classico (in particolare Shakespeare) ai contemporanei. Con Sergio Rubini e Barbareschi fummo i primi ad esportare in Italia il teatro parlato americano, con l’uso anche del turpiloquio. Ricordo che una volta, in Sicilia, quando mettemmo in scena American Buffalo di Mamet, molti degli spettatori si infuriarono, inveirono contro di noi ed abbandonarono la sala.
Quali sono gli spettacoli che le sono rimasti di più nel cuore?
E’ difficile rispondere. Andando per esclusione, direi Giacomo il prepotente di Manfridi, in cui recitavo la parte di Antonio Ranieri, e Masaniello di Armando Pugliese. D’altra parte per me Pugliese è il regista teatrale che amo di più in assoluto, è il numero 1. In un panorama come quello attuale che, peraltro, è abbastanza grigio.
Che cosa c’è che non va nel teatro italiano?
Bah, spesso è noioso e troppo legato al melodramma. Forse porta i meriti e i demeriti dell’Italia di oggi, rispecchia semplicemente il Paese, che vive una realtà un po’ bassa, un po’ povera, anche a causa dei politici che lo governano. Il risultato è che nei teatri hanno successo i trionfi di serie B, i remake di cose già fatte. L’epoca di Strehler è finita. Anche se ogni tanto nascono spettacoli interessanti, come il bellissimo Edoardo proposto da Servillo.
Il teatro, comunque, è stato sempre il suo grande amore, più del cinema.
Il mio modo di recitare è legato a una certa fisicità, all’intonazione della voce. Quindi la mia dimensione ideale è il teatro, in particolare il teatro-evento, all’aperto. Penso agli scenari naturali di Paestum e di Siracusa, o anche allo spettacolo che ho fatto l’anno scorso su una nave. Al cinema, invece, la bravura spesso si vede nell’entrare nell’inquadratura. Certo, bisogna essere sciolti, naturali. Però, anche professionalmente, il quotidiano del cinema è noioso. Quando giri un film, passi le giornate in continua attesa. E’ sempre valido quello che diceva Edoardo: “Vuoi fare il cinema? Accattate na’ seggia”. 
Lei ha lavorato con registi cinematografici importanti, dai fratelli Taviani a Gabriele Salvatores, da Lizzani a Bertolucci. L’esperienza più bella?
E’ stata quella di un film che non doveva essere un film, ma un documentario: L’autostop, per la regia di Michalcov, che è un vero artigiano del cinema. Durante le riprese mi è capitato più di una volta di commuovermi. Mi sono trovato molto bene anche con Gabriele Salvatores. Girando Marrakesh Express ci siamo molto divertiti, e con lui è rimasto un rapporto di affetto. Un altro regista che ho incrociato e mi piacerebbe ritrovare è Carlo Lizzani. E’ stato stimolante anche recitare al fianco di Luciana Litizzetto, in Ravanello Pallido. Devo dire che quando lavoro per il cinema, preferisco il genere brillante e i ruoli comici.
Massimo Venturiello in passato è stato anche doppiatore. Ha prestato la voce a Bruce Willis, a Dennis Quaid e anche a qualche personaggio dei cartoni animati.
Ho un po’ abbandonato questa attività, anche se non nego di essermi divertito, soprattutto quando ho doppiato Ade nel film di animazione Hercules o la macchina volante nella serie di cartoons Supercar, soprattutto perché ho potuto giocare con la mia voce.
Di recente lei ha recitato al Teatro Verdi di Salerno, nella messa in scena di Brancaleone. Che impressione le ha fatto?
E’ un teatro bellissimo, è stato restaurato molto bene. E anche il pubblico salernitano mi è piaciuto. Mi è sembrato attento e competente. Ho avuto una sensazione molto calda.
Martedì 9 dicembre Venturiello debutta in un nuovo spettacolo, L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht e Kurt Weill, nell’allestimento del Teatro Biondo Stabile di Palermo per la regia di Pietro Carriglio.
E’ una rappresentazione straordinaria, con 40 attori, che si svolge, come scenario, nei bassifondi di Londra, e che è stata arricchita dalla presenza dell’orchestra dal vivo del Teatro Massimo di Palermo. Tra l’altro, grazie a questo lavoro ho scoperto di avere anche una vena musicale. Avevo paura di dover affrontare la prova del canto, invece pare che me la cavi molto bene. Va a finire che un giorno o l’altro mi ritroverò a Sanremo…
Quale personaggio interpreta?
Io sono Macheath, detto Mackie Messer, il capo di una piccola banda di criminali che finirà per essere condannato all’impiccaggione. E’ un personaggio leggero, elegante. Pensi che, poco prima di essere impiccato, sta lì a ridere.  E’ un po’ il classico antipatico-simpatico. E’ un ruolo davvero affascinante, che fu interpretato in passato da Modugno. Per me non è che sia un termine di paragone facile!
Progetti nel cassetto?
La rappresentazione di Scaramouche, che deve la sua notorietà e il suo nome all'attore che per lungo tempo ne indossò la maschera, il napoletano Tiberio Fiorilli. L’idea è di farne una commedia musicale basata sul mondo napoletano, scritta 2-3 anni fa. Magari, chissà, potrebbe essere l’occasione per lavorare insieme a Roberto de Simone, un artista che stimo totalmente. Prima ero frenato dal timore di dover cantare, ma adesso che ho scoperto che mi piace, tutto è possibile…
Torna mai nella sua terra d’origine?
Ogni tanto, soprattutto d’estate. Roccadaspide si è trasformata, è diventata un centro abbastanza importante del Cilento. Non è più il paesello della mia infanzia. In particolare mi piace assistere alla festa di S. Cosmo e Damiano, che si tiene a fine settembre a Castel S. Lorenzo. Quello spettacolo mi affascina tantissimo, fin da quando ero un bambino cilentano che sognava ad occhi aperti guardando le stelle dalle finestrelle del carcere…
 
 
(La Città di Salerno, 7 dicembre 2003)
 
 
Scheda biografica
 
Massimo Venturiello nasce a Roccadaspide (Salerno) il 4 agosto del 1957. Dal 1979 al 1982 studia all'Accademia d'arte drammatica “S. D'Amico”. Debutta con Gabriele Lavia nel Tito Andronico di Shakespeare. Da allora lavora quasi sempre come protagonista in diversi spettacoli, alternando drammaturgie classiche e contemporanee e impegnandosi anche sul fronte del teatro di ricerca: American Buffalo di D. Mamet; La mandragola di N. Machiavelli, regia M. Scaccia; True West di S. Shepard, regia F. Però; Un saluto, un addio di A. Fugard, regia F. Però. Stringe una proficua collaborazione con il Teatro stabile di Genova: La putta onorata di C. Goldoni, regia M. Sciaccaluga; Jacques e il suo padrone di M. Kundera, regia L. Barbareschi; Giacomo il prepotente di G. Manfridi, regia P. Maccarinelli (1987). Passa poi al Teatro stabile di Torino dove recita nel Timone d'Atene diretto da W. Pagliaro. Cura la regia di Jazz e di La sonata di Kreutzer da L. Tolstoj. Con il regista di G. P. Solari inaugura un nuovo sodalizio che lo porta a interpretare La musica in fondo al mare di M. Confalone, Una notte poco prima della foresta di B. Koltés e Brancaleone (1998). Nel 1996 è la volta di La rosa tatuata di T. Williams, con la regia di G. Vacis, dove è al fianco di V. Moriconi, nella parte che fu di B. Lancaster nella celebre trasposizione cinematografica. Va ricordata anche la sentita partecipazione alla riedizione di Masaniello, con la regia di A. Pugliese (1997). Successivamente ha lavorato in Liliom un amore zingaro (2000), commedia musicale da Ferenc Molnar, per la regia di Maurizio Panici, con musiche del fratello Ennio Rega; e in Aiace (2001), regia di P.Gazzara. Quest’anno è già andato in scena in Navigazioni di T. Conte, con il Teatro della Tosse di Genova, e in Macbeth di Shakespeare, al fianco di Mariangela D’Abbraccio  (2003). Per il cinema e la televisione ha lavorato con diversi registi tra cui: G. Salvatores, N. Michalcov, P. e V. Taviani, E. Scola, M. Ferrero, S. Bolchi, M. Ponzi, C. Vanzina, C. Lizzani, G. Bertolucci. Tra i film da lui interpretati, Good morning Babilonia (1997), I miei primi quarant’anni (1987), Marrakesh Express (1989), Cattiva (1991), Vietato ai minori (1992) e Ravanello pallido (2001).In televisione ha partecipato, tra l’altro, agli sceneggiati Il giovane Casanova (Canale 5, 2002) e Padri (RaiUno, 2002)
 
 
Sottoscrivi questo feed RSS