Mario Avagliano

Mario Avagliano

Eleonora Pimentel Fonseca: luci, ombre e particolari inediti

di Mario Avagliano

Se l’infinita distanza tra verità e storia non può essere colmata, compito dello storico è quello di abbreviarla. E' quanto ha provato a fare Antonella Orefice nel suo nuovo lavoro Eleonora Pimentel Fonseca. Eroina della Repubblica Napoletana del 1799, Salerno Editrice, Roma 2019, pp.318.

Prima donna in Europa incaricata di dirigere l’organo di stampa ufficiale del Governo Provvisorio, con il suo “Monitore Napoletano”, la marchesa rivoluzionaria segnò l’inizio della stampa politica femminile. Donna di cultura in stretta relazione e collaborazione con gli uomini del suo tempo, Eleonora riuscì a sublimare l’infelicità della vita coniugale in forza edificatrice, abbracciando gli ideali rivoluzionari di fine Settecento.

Nelle sue vicissitudini personali la Pimentel ha rappresentato un prototipo di donna più vicina al presente attuale piuttosto che al suo tempo e questa sua atipica modernità ha aperto la strada alle più disparate valutazioni. Colpita dalla vendetta borbonica anche dopo la morte con la damnatio memoriae, «il rarefarsi delle fonti documentarie – scrive l’autrice - ha causato una serie di ricostruzioni biografiche pregne di congetture, alterazioni, luoghi comuni, giudizi approssimativi, tutti elementi per lo più inverificabili che hanno prodotto lavori molto discutibili e controversi, tanto da rendere la ‘marchesa giacobina’ nei suoi  multiformi aspetti un personaggio di fantasiosa fattura hitchcockiana, a tratti indecifrabile, una donna, insomma, che ha vissuto non due, ma svariate volte con personalità diverse,  a seconda della chiave interpretativa. Da qui le tante ‘Eleonore’ dai variegati volti: la borbonica, la poetessa, la traditrice, la femminista, la rivoluzionaria, l’esaltata, l’infanticida, la sublime e finanche l’ermafrodita, tutte definizioni arbitrarie, forzate e spesso offensive, ma purtroppo avallate dalle incolmabili lacune documentarie.»

Dopo un percorso di ricerca ventennale, la storica Antonella Orefice ha raccolto per archivi e biblioteche una serie di frammenti inediti relativi al percorso esistenziale di questa eroina di fine dì Settecento, elementi preziosi che hanno sfatato molti luoghi comuni e chiarito tanti dubbi: dalla storia delle mutande negate sul patibolo alla sua ultima dimora, dal suo vero volto al mistero della tomba scomparsa.

Con un linguaggio semplice e lineare agli occhi del lettore si apre un ampio squarcio sulla Napoli di fine Settecento vissuta attraverso il destino di una donna che pagò con la vita il suo amore per la libertà. La storia, quella vera, viene narrata con la leggerezza di un romanzo dai colori vividi, i contorni quasi palpabili che trasudano emozioni. L’intima essenza della Pimentel viene trasmessa come eredità spirituale, nel valore del suo esempio, nella lezione morale, nel tragico intreccio di destino e carattere che segna la sua esistenza, nella miracolosa incarnazione della forza e della fragilità delle idee che in lei trova espressione, nella conversione del dolore in passione civile, tutti elementi di una personalità complessa che la Orefice ha cercato di raccontare attraverso lo specchio di quel tempo, nella speranza di restituire al lettore una Eleonora meno distorta e molto vicina al vero.

I militari italiani nei lager nazisti. Una Resistenza senz'armi 1943-1945

La vicenda dei circa 650.000 militari che dopo l’armistizio dell’8 settembre rifiutarono di continuare la guerra al fianco dei nazisti e di aderire alla neonata Repubblica Sociale Italiana è ancora largamente sconosciuta agli italiani.

Il valore di questo rifiuto in massa come autentico atto della Resistenza, italiana ed europea, emerge con forza dal nuovo saggio di Mario Avagliano e Marco Palmieri, intitolato I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi (1943-1945), edito da Il Mulino.

In linea con i precedenti lavori di Avagliano e Palmieri (sui deportati politici, la persecuzione degli ebrei, gli italiani al fronte e la Repubblica di Salò), questo libro ha la caratteristica di raccontare la storia della resistenza senz’armi degli internati non tanto e non solo sulla base dei documenti burocratici già noti alle ricerche esistenti, ma dal basso, cioè attraverso fonti dirette e coeve rintracciate in numerosi archivi pubblici e privati, nazionali e locali, e collezioni private e di famiglia.

“Avagliano e Palmieri – come ha scritto Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera -, con il consueto rigore storico che li contraddistingue e un sapiente uso della diaristica e della corrispondenza coeva, per lo più inedita o scarsamente conosciuta, ci conducono per mano in un appassionante viaggio nel mondo degli Imi, che ci fa scoprire aspetti nuovi o poco noti, dal loro bagaglio di umanità alla capacità e al coraggio di resistere a tutte le avversità, raccontando attraverso le storie individuali la storia collettiva dei 650mila internati militari italiani”.

Un percorso che si snoda in quindici tappe, quanti sono i capitoli, accompagnate dalle parole vive dei protagonisti dell’epoca (non solo gli internati ma anche i loro familiari e i loro oppressori), dalla tragedia dell’8 settembre alla scelta se aderire o meno, dalla prigionia nei lager al lavoro coatto, fino al ritorno in Italia e al lungo silenzio dei reduci, approfondendo anche le motivazioni degli optanti che, come rilevano giustamente i due autori, costituirono una minoranza «non trascurabile». E soprattutto sviscerando e riempiendo di senso il sacrificio di quei militari italiani, e furono la grande maggioranza, che invece fino alla fine decisero di dire «no», come Giovannino Guareschi indica nella dedica di questo volume: «Ingannato, Malmenato, Impacchettato / Internato, Malnutrito, Infamato / Invano Mi Incantarono / Inutilmente Mussolini Insistette».

Le fonti dirette e coeve consentono di ripercorrere giorno per giorno, passo dopo passo, questo lungo viaggio attraverso il fascismo morente di Salò. “Finalmente l’Italia ha un libro completo su tutta la storia degli Imi”, ha commentato la storica Elena Aga Rossi”.

I prigionieri che dissero no a Salò. «Inutilmente Mussolini insistette»

di Aldo Cazzullo

«Noi non vogliamo restare qui, come qualcuno insinua, per vigliaccheria, quasi imboscati. Siamo tutti ex combattenti, molti decorati, molti volontari. Noi non siamo degli attendisti, come qualcuno ci chiama. Non è per calcolo né per capriccio né per puntiglio, ma solo per coerenza, per un principio di dignità, di onore, di giustizia. Noi siamo uomini, vogliamo essere uomini».

È il 5 aprile del 1944. Sono trascorsi sette mesi dalla sera di settembre in cui la radio ha annunciato l’armistizio e l’esercito italiano si è sfaldato. Per centinaia di migliaia di militari italiani catturati e deportati in Germania è stato un inverno durissimo, di prigionia e lavoro coatto, poiché hanno scelto di non continuare a combattere al fianco degli ex alleati e di non aderire alla Rsi. Uno di loro è il capitano Giuseppe De Toni, nato a Modena, classe 1907, comandante italiano del campo di Hammerstein, che scrive clandestinamente questa lunga e appassionata lettera al fratello Nando, che lo aveva invitato ad optare per uscire dal lager.

  La copertina de «I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi 1943-1945» (il Mulino, pp. 457, euro 26)

 

La storia degli oltre seicentomila internati militari deportati nei lager nazisti, gli Imi, che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 rifiutarono di continuare a combattere con la Germania nazista e di aderire alla Repubblica sociale, è una pagina assai rilevante della partecipazione italiana alla Seconda guerra mondiale e della Resistenza, ma è stata a lungo trascurata. Nel 2009 ad aprire la pista a questo percorso fu l’antologia delle lettere e dei diari degli Imi curata da Mario Avagliano e Marco Palmieri. A undici anni di distanza arriva in libreria il nuovo saggio dei due giornalisti e studiosi, I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi 1943-1945 (il Mulino).

In questo libro Avagliano e Palmieri, con il rigore storico che li contraddistingue e un sapiente uso della diaristica e della corrispondenza coeva, per lo più inedita o scarsamente conosciuta, e di altri documenti come i rapporti della censura, le relazioni delle autorità italiane e tedesche, i volantini e i manifesti di propaganda tedesca o della Rsi, conducono il lettore in un appassionante viaggio nel mondo degli Imi, che ci fa scoprire aspetti nuovi o poco noti, dal loro bagaglio di umanità alla capacità e al coraggio di resistere a tutte le avversità, raccontando attraverso le storie individuali la storia collettiva degli internati militari italiani.

I nazisti vietarono severamente agli Imi di tenere diari. «Premetto — avverte infatti un tenente, Giorgio Marras, alla data del 22 gennaio 1944 — che se mi trovano questo diario mi fucilano». Ma nonostante il pericolo la pratica dei diari è abbastanza diffusa, perché «raccontare — come annota Lino Monchieri il 3 ottobre 1943, subito dopo la cattura — è mio dovere. Qualcuno dovrà pure sapere cosa succedeva qui…», anche se «queste disordinate note — è la consapevolezza del capitano Guido Baglioni, il 12 luglio 1944 — non potranno mai rendere i giorni di disperato tormento, di sconforto, di fame e abbrutimento superati più per miracolo che per forza di volontà».

Il viaggio nella memoria si snoda in quindici tappe, quanti sono i capitoli, accompagnate dalle parole vive dei protagonisti dell’epoca (non solo gli internati ma anche i loro familiari e i loro oppressori). La vicenda degli Imi è analizzata nel suo complesso, dalla reazione all’annuncio dell’armistizio alla cattura da parte dei tedeschi, dal viaggio in tradotta verso i lager alle sofferenze patite nei campi e al lavoro coatto, fino alla liberazione e al ritorno in patria. Un’attenzione particolare è stata rivolta alle motivazioni della scelta di fronte alle offerte di adesione alle SS da parte dei tedeschi e a quelle rivolte ai militari italiani dagli emissari della Rsi dopo il ritorno di Mussolini.

Il libro scandaglia tutti gli aspetti della vita quotidiana degli Imi, caratterizzata dall’ossessione della fame, ma anche dagli sforzi compiuti per difendere la loro dignità di soldati e di uomini nell’inferno dei campi, come la fede religiosa, le iniziative culturali, gli espedienti per ricevere e diffondere informazioni (i giornali parlati e le radio clandestine), il rapporto con la popolazione civile, i contatti con i prigionieri e i deportati di altre nazioni, le storie d’amore e di sesso, che in alcuni casi dopo la liberazione si tradussero in matrimoni e in figli (qualcuno tornò a casa con la moglie o la fidanzata tedesca o polacca).

Vengono approfonditi anche profili nuovi o poco conosciuti, come i campi di punizione, le violenze dei carcerieri, le fughe, la collaborazione con la resistenza locale, i casi di resistenza armata, la deportazione dei carabinieri, la seconda prigionia subita dagli Imi liberati da parte dei russi di Stalin o degli jugoslavi di Tito. Gli ultimi due capitoli riguardano la liberazione, il rientro in patria e la difficile reintegrazione degli ex internati.

La vicenda degli Imi, del resto, è stata per decenni pressoché dimenticata, per diversi motivi: il desiderio del Paese di voltare pagina e non sentir più parlare della guerra e delle responsabilità del fascismo; la loro resistenza in nome di un re e di una dinastia andati via dall’Italia; la scelta del silenzio da parte degli stessi reduci, delusi dal mancato riconoscimento della propria esperienza come contributo alla Resistenza; il fardello di aver combattuto la guerra voluta dal fascismo e la memoria della rovinosa dissoluzione dell’esercito all’indomani dell’armistizio, in un clima di tutti a casa. Basti dire che nel 1950, e fino al 1977, agli Imi venne negata la concessione della qualifica di Volontario della libertà perché «questo ministero (della Difesa) è del parere che sia doveroso mantenere una differenziazione fra i civili che volontariamente presero parte all’attività partigiana (...) e i militari che negando la propria collaborazione ai nazifascisti e subendo l’internamento si attennero semplicemente ai doveri derivanti dal proprio stato», senza il «presupposto della volontaria partecipazione alle ostilità contro i nazifascisti».

Eppure nell’esercito degli Imi si ritrovano numerosi personaggi che raggiungeranno posizioni di spicco nella cultura, nell’economia, nello spettacolo e nella politica del dopoguerra, come Alessandro Natta, Vittorio Emanuele Giuntella, Giovanni Ansaldo, Oreste Del Buono, Mario Rigoni Stern, Tonino Guerra, Luciano Salce e Giovannino Guareschi, la cui foto con la matricola di Imi campeggia nella copertina del libro e che, come raccontano Avagliano e Palmieri, con la sua straordinaria verve fu uno dei protagonisti del «no» alla Rsi e della vita culturale e artistica nei lager. Altri internati saranno genitori di personaggi famosi, come l’ufficiale Ferruccio Guccini, catturato in Grecia, padre del cantautore Francesco; Carmelo Carrisi, padre del cantante Al Bano; Giuseppe Di Pietro, padre del magistrato ed ex ministro Antonio; Giovanni Carlo Rossi, padre di Vasco.

Quello che ora è stato tardivamente riconosciuto, e che dagli scritti coevi degli Imi emerge nitidamente, è che ai militari italiani disarmati e internati si deve il primo rifiuto in massa della guerra e del fascismo, con una «specie di plebiscito — come lo ha definito Vittorio Emanuele Giuntella — da parte di una generazione che non aveva mai partecipato a consultazioni elettorali», ferma restando un’aliquota non trascurabile di aderenti di cui pure bisogna tenere conto. In entrambi i casi la scelta non è necessariamente dettata da motivazioni di natura politico-ideologica, ma nel caso dei non optanti risponde in particolare a sentimenti confusi di stanchezza della guerra, sfiducia verso il regime, fedeltà alla divisa e al giuramento prestato al re, smobilitazione interiore, attendismo o mera imitazione dei compagni e dei superiori. Una scelta che gli internati pagano ad un prezzo altissimo, visto che il censimento in corso da parte dell’Anrp (Albo degli Imi caduti nei Lager nazisti 1943-1945) ha accertato al momento 50.834 caduti. Con questo libro Avagliano e Palmieri sviscerano e riempiono di senso il sacrificio di quei militari italiani, e furono la grande maggioranza, che fino alla fine decisero di dire «no», come Giovannino Guareschi indica nella dedica del volume: «Ingannato, Malmenato, Impacchettato / Internato, Malnutrito, Infamato / Invano Mi Incantarono / Inutilmente Mussolini Insistette».

Mio padre prigioniero in un lager

Era uno dei 650 mila soldati che dissero no alla Repubblica di Salò. Ora un saggio ricostruisce la storia degli internati militari in Germania
 
di Luca Bottura
 
Tra il sangue dei vinti e quello dei vincitori, che da qualche anno in Italia pare impopolare, fastidioso, quasi dovessimo vergognarci di aver mondato con l'eroismo di pochi la codardia dei molti che sostennero prima il fascismo e poi, addirittura, il nazismo, sta il sangue dei dimenticati. Appartiene agli italiani che resistettero senza armi, che scelsero la prigionia anziché fare i reggicoda alle Ss, che — nonostante fossero nati e cresciuti nel brodo di coltura della cartapesta autoritaria — non ebbero dubbi. E optarono, tra Salò e la deportazione, per l'opzione meno gravida di variabili.
Lo Stato fantoccio, la fedeltà al Reich, la cosiddetta Repubblica sociale, la parte sbagliata che per molti "italiani brava gente" è ancora quella giusta, onorevole, lasciavano più margini. C'era comunque l'occasione di menar le mani. Di mettere in pratica la ribalderia prepotente che il buffone di Predappio aveva instillato in un paio di generazioni almeno. C'era, anche, la possibilità di prendere la rincorsa per meglio nascondersi in un anfratto della Storia. Per uscirne immemori. Imboscati, millantando lealtà a un'idea. Di morte.
Alcune centinaia di migliaia di italiani, militari, soldati, decisero che fosse preferibile un viaggio verso nessun posto. Uno Stalag sparso nelle campagne della Prussia orientale. Un contesto che differiva dai lager della Shoah per un unico e decisivo particolare: l'assenza di camere a gas. Tecnicamente, Internati Militari Italiani: Imi. Nella realtà, ostaggi senza diritti. Partigiani spuri. Cancellati a lungo dalla storiografia perché non collocabili, nel mondo diviso in due dell'immediato dopoguerra. Costretti a proclamarsi anticomunisti al ritorno in patria, dopo essere stati liberati dall'Armata Rossa, pena un'ulteriore discriminazione. Sospinti in un angolo del ricordo perché poco afferibili a un lato o all'altro della Guerra Fredda. Ammutoliti.
Nel saggio di Mario Avagliano e Marco Palmieri, I militari italiani nei lager nazisti, non c'è mio padre, che era uno di loro. Stalag IIl C, Kostrzyn, all'odierno confine tra Polonia e Germania, ottanta chilometri in linea d'aria da Berlino. Ma c'è molto di lui. C'è molto di una banalità del bene, di una "cosa giusta", come dicono nella cultura di oltreoceano, fatta in modo quasi incidentale. Eppure consapevole. Ci sono le lettere, le paure, le passioni, la quotidianità dei prigionieri. C'è un coraggio anti-manzoniano, quello che in certi anfratti dell'esistenza ci si dà eccome, anche se non lo si avrebbe. Ci sono gli errori grammaticali, c'è il racconto casuale di chi si ritrova la caserma accerchiata dai tedeschi e scrive alla fidanzata che andrà tutto bene, che comunque con l'altra era solo amicizia, che pub spiegare, e poi chiude come in un bollettino della vittoria: "Viva il Re, viva Badoglio, abbasso i fascisti".
Ci siamo noi e c'è la nostra storia piccola, ci sono gli occhi di un Paese intero che per vent'anni li aveva girati dall'altra parte. Esistenze che si somigliano e differiscono, ognuna con un rimbalzo di afflizione o speranza. L'ordine del giorno Grandi, le caserme senza ordine alcuno, le squadracce che si riformano e cercano di armarsi assediando soldati senza più un referente, I'S settembre del 1943, colonnelli che vendono i loro uomini ai tedeschi per qualche stella in più da far brillare nel cielo di Salò, l'offerta primigenia aggregarsi direttamente all'esercito di Hitler — e l'altra, quella repubblichina. Il vagone piombato. Il lavoro coatto. La mancia come mercede della schiavitù. Le lettere bugiarde verso casa ("Sto bene") e l'orrore di tutti i giorni. I canali pieni di cadaveri. E, anche, altro incredibile cimelio che possiedo personalmente, le cartoline illustrate l'esterno del campo, un tizio in divisa davanti alla guardiola, la bandiera con la croce uncinata. Saluti dal baratro.
Di molti saggi, per nobilitarli, si dice che sembrano romanzi. Non è quasi mai vero. Questo è uno dei rari casi. Nell'alternarsi dei racconti II libro I militari italiani nei lager nazisti di Mario Avagliano e Marco Palmieri edito da il Mulino (pagg.456, euro 26) mancano i contorni stentorei e, a loro modo, bellissimi, che si ritrovano nelle lettere dei resistenti condannati a morte, o sui muri della prigione di via Tasso, a Roma, scolpiti sul muro con le unghie della disperazione. Non c'è il Disegno percepito che comincia con Hannah Arendt e arriva a Primo Levi. Manca l'Orrore. Ma anche senza le maiuscole, anche soltanto unendo i puntini di ogni singola vita a rischio, si riscrive un percorso di dignità, parente minore ma virtuoso dei racconti che meglio conosciamo. Se il diario di Anne Frank è diventato patrimonio di tanti, è anche perla normalità cogente di un'adolescente che scopriva l'amore. Ed è questo antidoto, il trasporto, il sentimento, il capitolo che meglio racconta la sopravvivenza, quella che Andrea Aloi definì Resistenza Umana, un motore inestinguibile che ci spinge avanti barcollanti. Dentro o fuori da una tragedia.
È un libro bellissimo, necessario. Non tanto e non solo per quel lampo di lucore che irradia sulle vite di chi — con la rotonda eccezione di Giovannino Guareschi e del suo Diario Clandestino e di pochi altri — ha in massima parte lasciato questo mondo in punta di piedi. Fin troppo a lungo misconosciuto, disconosciuto. Degnarlo di uno sguardo postumo, anche a spizzichi e bocconi, apparenta a una parcellare fiducia persino in questo presente piuttosto derelitto. Ché in quei giorni di tarda estate, incredibilmente, l'individualismo nobile fece di noi un popolo.
Troppa gente ogni giorno violenta la parola Patria. Se davvero dovessi intestarmene una — Patria, non Nazione: di quella francamente nulla mi cale — vorrei che fosse la stessa di quei giovani sperduti e spaventati. Anche di quelli che morirono di malattie e stenti. Versando, per noi, il sangue dei miti.
 
(la Repubblica, 10 febbraio 2020)
 
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