Mario Avagliano

Mario Avagliano

Eroe. Il dodicenne romano che fermò la Wehrmacht.

Eroe. Il dodicenne romano che fermò la Wehrmacht. La storia di Ugo Forno, l’ultimo caduto della capitale, proposto ora per una medaglia

di Mario Avagliano 

Roma, ponte ferroviario sull’Aniene. Sui binari di ferro sfrecciano come fulmini i treni rossi dell’Alta velocità. Una pista ciclabile s’inoltra nel verde, accanto al fiume. Sembra lontano il 5 giugno del 1944, quando sotto il sole cocente della primavera romana il dodicenne Ugo Forno, gracile ma vivacissimo, con i capelli scuri e gli occhi azzurri, morì per difendere il viadotto dagli ordigni germanici, mettendo in fuga assieme ad altri ragazzi e ad alcuni contadini i sabotatori della Wehrmacht.  In  memoria di quel suo coraggioso gesto la Presidenza della Repubblica ha avviato la procedura per l’attribuzione della medaglia d’oro al valor civile.

La breve vita dell’ultimo resistente romano è stata raccontata da Felice Cipriani nel saggio “Il Ragazzo del Ponte. Ugo Forno eroe dodicenne. Roma 5 Giugno 1944” (edizioni Chillemi), che sarà presentato il 29 maggio alla Provincia di Roma e sarà nelle librerie all’inizio del prossimo mese. Cipriani, completando il lavoro di ricerca realizzato da Cesare De Simone in “Roma Città prigioniera”, ha recuperato la documentazione conservata presso l’Archivio centrale di Stato di Roma, intervistando il fratello Francesco Forno, il compagno di banco Antonino Gargiulo e altri testimoni dell’epoca.

 Ughetto, nato il 27 aprile del 1932 a Roma dai siciliani Enea Angelo Forno,  impiegato dell’intendenza di Finanza, e Maria Vittoria, abitava al civico 15 di via Nemorense ed era studente al secondo anno, sezione B,  della scuola media “Luigi Settembrini”, che ha la sede accanto al liceo classico “Giulio Cesare” di Corso Trieste.  Amava i fumetti, divorava gli albi di Flash Gordon e del Vittorioso e, come tutti i ragazzi della sua età,  durante il Ventennio aveva vestito la divisa dei Figli della Lupa e dei Balilla. Ma la sua famiglia era animata da sentimenti antifascisti. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il padre Enea era diventato collaboratore del Fronte militare clandestino diretto da Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, che tesseva le file della resistenza militare e monarchica ai tedeschi nella capitale.

 Quel 5 giugno del 1944, giorno di festeggiamenti a Roma per la liberazione dall’occupazione nazifascista, alle 6,30 del mattino lo studente era già a Piazza Verbano, “Ugo era sereno girava tra le Jeep dei soldati americani, aveva un paio di pantaloncini corti ed una maglietta, con sé non aveva nulla”, ricorda il compagno di banco della scuola elementare. Alle 7,30 Angiolo Bandinelli, che diverrà parlamentare radicale, lo vide  in mezzo a delle persone, tra via Ceresio e via Nemorense, mentre gridava: ”C’è una battaglia, lassù oltre piazza Vescovio! Ci sono i tedeschi, resistono ancora”.

 Ughetto si allontanò verso piazza Vescovio, dirigendosi con altri giovani armati di fucili, tra cui il sottotenente paracadutista Giovanni Allegra,  verso lo strapiombo sull’Aniene. Sotto il ponte gli artificieri della Wehrmacht stavano collocando le cariche esplosive.

Si accese uno scontro a fuoco. Ugo e i suoi amici chiesero aiuto ai contadini della casa colonica e assieme spararono in direzione dei tedeschi. I guastatori della Wehrmacht, sorpresi, furono costretti ad abbandonare l’operazione di sabotaggio.

La loro ritirata fu “coperta” da un mortaio che iniziò a lanciare devastanti colpi verso gli italiani. Il primo colpì Francesco Guidi, figlio del proprietario dei terreni della zona (poi morirà in ospedale).

Ughetto, imbracciando il fucile, alto quasi quanto lui, invitò i compagni a sparare verso il punto da dove si vedeva il fumo provocato dal mortaio. Le schegge ed i spezzoni del secondo colpo ferirono ad una coscia Luciano Curzi e troncarono un braccio a Sandro Fornari, entrambi braccianti. Il terzo colpo fu mortale per il ragazzo, che fu preso alla testa e al petto e stramazzò al suolo morente.

A quel punto i tedeschi bruciarono il deposito di carburanti e fuggirono precipitosamente verso la via Salaria. Proprio mentre arrivavano sul posto due carri armati americani e alcuni gappisti comunisti.

Il sottotenente Allegra si chinò su Ugo e gli chiuse le palpebre sugli occhi sbarrati, avvolgendo il suo corpo esamine in una bandiera tricolore stracciata. Nel taschino gli verrà trovato un santino intriso di sangue.

Il ponte sull’Aniene (che dal 2010 porta il suo nome, su iniziativa meritoria di Ferrovie dello Stato) era salvo, con le micce degli ordigni ancora penzolanti. Ughetto fu l’ultimo caduto della resistenza nella capitale. Viene in mente un parallelo con un altro dodicenne romano, come osserva Paolo Conti nella breve ma incisiva prefazione del volume, “quel Righetto di Trastevere che, nelle ore più tragiche della gloriosa Repubblica Romana del 1849, rimane dilaniato da una bomba francese che lui stesso tenta di disinnescare  come ha già fatto tante altre volte (bastava spegnere la miccia con uno straccio bagnato). Anche Righetto, come Ughetto, lotta contro un invasore”.

Il 27 aprile scorso l’Anpi ha ricordato Ugo Forno al parco Nemorense, in occasione dell’ottantesimo della sua nascita. È sorto anche un sito web (www.ugoforno.it), a cura di Lorenzo Grassi. Ma solo ora, a 68 anni dai fatti, lo Stato si è deciso a riesaminare la domanda di una medaglia di riconoscimento per il piccolo grande eroe, che era stata richiesta nel dopoguerra dal Comitato di Liberazione Nazionale romano. 

La Wehrmacht ordinava: uccidi e stupra

 di Mario Avagliano

«In Italia, in ogni posto dove arrivavamo, il tenente ci diceva sempre: “Per prima cosa facciamone fuori qualcuno!”. Diceva: “Allora, fatene fuori venti, così avremo un po’ di calma, che non si facciano strane idee!”. (Risate.) Tutti sulla piazza del mercato, poi arrivava uno con il mitra, rrr-rum, e tutti a terra. Così iniziava. Poi diceva: “Benissimo! Porci!”. Aveva una tale rabbia nei confronti degli italiani, da non crederci». A parlare è tale Sommer, caporale scelto della Wehrmacht. È una delle migliaia di conversazioni rubate dai servizi inglesi e americani grazie alle cimici nascoste durante la seconda guerra mondiale all’interno dei campi di prigionia alleati, registrate su vinile e trascritte in oltre 150 mila pagine di verbali, conservati ora negli archivi di stato di Londra e Washington.
Un campione di questa eccezionale documentazione è riprodotto nel saggio “Soldaten. Le intercettazioni dei militari tedeschi prigionieri degli Alleati”, in uscita nei prossimi giorni per i tipi della Garzanti (pp. 464, euro 24,50), curato in tandem dallo storico Sönke Neitzel e dallo psicologo Harald Welzer e già pubblicato in Germania. Per la prima volta due studiosi hanno potuto esaminare cosa pensavano realmente i soldati tedeschi della guerra. Un lavoro di ricerca straordinario.
 
Tra il 1939 e il 1945 ben diciotto milioni di tedeschi vengono chiamati alle armi nella Wehrmacht. L’interesse di questo saggio è che si tratta di gente comune, non di nazisti convinti arruolatisi nelle SS. Ma il ritratto che emerge da quelle conversazioni è ugualmente agghiacciante. Testimonia l’adesione spontanea alla guerra totale hitleriana di gran parte del popolo tedesco, che rifiutò fino quasi alla fine di credere a una sconfitta del Reich. E dimostra la fondatezza delle tesi di uno storico come Daniel Goldhagen sui “volenterosi carnefici” dell’esercito germanico, non meno violenti dei poliziotti delle SS. Demolendo definitivamente il mito di una Wehrmacht “pulita” e fatta da uomini d’onore, che non partecipò alle stragi di civili e non sapeva nulla della Shoah.
Leggendo i colloqui degli ufficiali e dei soldati tedeschi, che ignorano di essere ascoltati e quindi parlano senza inibizioni, non si può fare a meno di restare turbati, anche a quasi settant’anni di distanza. La brutalità, le torture, gli omicidi, la violenza, come scrivono i due autori, “sono il pane quotidiano di chi parla e di chi ascolta, non sono nulla di eccezionale. I soldati ne parlano per ore, così come discorrono, per esempio, di arerei, bombe, apparecchiature radar, città, paesaggi o donne”.  Parafrasando Hannah Arendt, si potrebbe dire «la normalità del male».
Nei racconti di guerra (di tutti gli eserciti), le storie di fucilazioni, stupri e saccheggi appartengono alla quotidianità: quando se ne parla, non capita quasi mai che si arrivi a un confronto, che ci siano obiezioni di carattere morale o litigi. Ecco cosa dice Heinrich Skrzipek, timoniere dell’U-187: «Lo storpio va soppresso senza dolore. Così si fa. Loro non lo sanno, e comunque non hanno nulla nella vita. Basta però non essere teneri! Non siamo mica femminucce». Anzi, in molte narrazioni gli interlocutori fanno a gara a vantarsi di quella o quell’altra azione brutale.
La violenza sulle donne, ad esempio, è considerata un fatto normale. Parlando con un maresciallo della Luftwaffe degli aspetti turistici della campagna in Russia, un soldato infila un aneddoto terrificante: «belle da morire quelle ragazze. Ci passavamo accanto, le tiravamo dentro il camion, ce le sbattevamo e poi le buttavamo fuori di nuovo. Dovevi vedere come bestemmiavano!». E tra le risate del commilitone, continua a descrivere altri particolari del viaggio.
Anche lo sterminio degli ebrei non è un affare esclusivo delle SS. Dalle conversazioni emerge che molti soldati sono informati nel dettaglio di questi crimini e diverse unità della Wehrmacht partecipano, come esecutori, spettatori, complici, forse ausiliarie, alle fucilazioni di massa di ebrei nelle zone di occupazione. Peraltro la visione biologistica del mondo tipica del nazismo non è rivolta solo agli ebrei e colpisce sia i nemici («Non riesco a considerare i russi delle persone») che gli alleati giapponesi («Le scimmie gialle non sono essere umani, sono ancora bestie») e italiani («sono una razza stupida»).
A parte rare eccezioni (come avviene per i paracadutisti della Folgore), anche i soldati italiani vengono considerati in maniera assai negativa. «Una tragedia», «quegli italiani di merda (…) non fanno nulla», «non hanno nessuna voglia di guerreggiare», «non hanno alcuna fiducia in sé stessi», «se la fanno addosso». Pollice verso per gli ungheresi, considerati uno «schifo», e per gli americani, «vigliacchi e meschini», «rammolliti».
Certo, anche la Wehrmacht non è un blocco monolitico di opinioni e di pensiero. La maggior parte dei tedeschi si dichiara antisemita, ma c’è chi prova indignazione quando gli ebrei vengono fucilati. Alcuni sono antinazisti convinti, ma appoggiano apertamente la politica antiebraica di Hitler. C’è anche chi critica gli eccessi di violenza della Wehrmacht nei confronti dei civili, come il sergente maggiore Barth: «a Barletta hanno chiamato a raccolta la popolazione, dicendo che avrebbero distribuito i viveri, e invece hanno tirato fuori i mitra e hanno sparato, cose del genere hanno fatto. Poi, per strada, strappavano orologi e anelli, come i banditi». Non mancano prese di distanza radicali. Il sottufficiale Czerwenka arriva a dire: «Spesso mi sono vergognato di portare l’uniforme tedesca». Ma sono comunque eccezioni rispetto alla massa, che segue alla lettera, e non di rado ostentando un sottile piacere, i «protocolli del combattere, dell’uccidere e del morire».
 
(Il Mattino, 4 maggio 2012)

Il duce e le donne storia di un'ossessione

 di Mario Avagliano 

Benito Mussolini non era bello, non era snello e neppure alto. Non aveva un portamento elegante e non presentava una sola di quelle particolari caratteristiche che normalmente affascinano il pubblico. Eppure “una gran massa di italiani visse in una sorta di simbiosi psicologica col suo corpo, desiderandolo nella componente femminile, sognando di essere come lui in quella maschile”.
Il sesso come simbolo del potere politico. Anche così il duce ha incarnato il mito della potenza nell’Italia fascista. È la tesi di fondo del bel saggio Dux. Una biografia sessuale di Mussolini (Rizzoli, pp. 439, euro 21), scritto con competenza storica e sapienza narrativa da Roberto Olla, responsabile di Tg1 Storia, autore della fortunata serie di Combat Film.
In questo libro, fresco di stampa, uscito in Inghilterra prima che in Italia col titolo “Il Duce and his women”, si sostiene che il “mussolinismo” (che è cosa diversa dal fascismo) è stato costruito e si è fondato sul mito del suo corpo da contadino padano, con la mascella quadrata e il petto villoso: dalle schegge conficcate nelle sue carni durante la prima guerra mondiale ai muscoli esibiti col piccone in mano durante le demolizioni per aprire a Roma via della Conciliazione.
Alle radici di questo mito c’è il rapporto di Mussolini con le donne. Quattrocento sarebbero, secondo una stima attendibile, quelle “amate” nel corso della sua vita dal duce, che mise al mondo figli legittimi e illegittimi, intrattenendo molteplici amanti, brune e bionde, magre e procaci, di varie nazionalità: “Sono giovani e belle, le prendo, poi non ricordo più né il loro nome né come sono fatte”.
Il racconto di Olla, tutt’altro che pruriginoso anche se non privo di particolari piccanti e virulenti (“le fonti – si scusa l’autore – non permettono di rispettare questa esigenza di eleganza”), parte dall'apprendistato, invero alquanto rude, del giovane Benito nella Romagna contadina del tardo Novecento, da parte di tale Virginia B., come raccontò lo stesso futuro duce: “la presi lungo le scale, la gettai in un angolo dietro a una porta e la feci mia. Si rialzò piangente e avvilita”.
All’inizio Mussolini scelse donne intelligenti e moderne. Due su tutte: la rivoluzionaria ucraina Angelica Balabanoff, che affinò, politicamente e sessualmente, l’imberbe e rozzo Mussolini, e l’ebrea Margherita Sarfatti, coltissima e abile, che con il suo libro Dux esportò il suo Mito a livello mondiale.
Unitosi in matrimonio religioso con Rachele Guidi nel 1925, il duce continuò imperterrito nella sua collezione di donne, consumando gli amplessi davanti alle carte della sua scrivania a Palazzo Venezia, portandole al mare, in barca e in montagna.
Un “furor eroticus” che non ebbe fine neppure quando Mussolini “ufficializzò” il suo rapporto con Claretta Petacci, la donna che lo seguì fino al tragico epilogo di Piazzale Loreto. Claretta sostenne il suo Ben nella bufera della seconda guerra mondiale e di fronte ai segni del declino fisico, gli procurò il miglior afrodisiaco dell’epoca, l’antesignano del moderno Viagra: l’Hormovin, prodotto in Germania.
La “biografia sessuale di Mussolini” è un ritratto impietoso dal quale emerge un uomo politico ch’era preda, come si direbbe oggi, di una forma compulsiva di dipendenza dal sesso, e che porta alla luce ipocrisie, volgarità, aspetti caratteriali e della personalità del Dux, demolendo, se ce n’era ancora bisogno, anche dal punto di vista morale la vulgata buonista del “brav’uomo”.
 
(Il Messaggero, 27 maggio 2012)
 

Gramsci. Burattini e burattinai di un arresto

di Mario Avagliano

 
La tragica coda della vicenda politica ed esistenziale di Antonio Gramsci costituisce un appassionante enigma storiografico. A distanza di 75 anni dalla morte del fondatore del partito comunista d’Italia, i punti oscuri sono ancora molti. Dopo l’arresto, fu davvero abbandonato al suo destino da Stalin e Togliatti perché ritenuto troppo ingombrante? E la sua impietosa critica al modello sovietico si spinse fino all’abiura del marxismo, in un quaderno dal carcere rimasto segreto?
Alcuni saggi usciti nelle ultime settimane aggiungono qualche importante tassello alla conoscenza dei fatti. Non mancando di suscitare un vivace dibattito, con Massimo D’Alema che punta il dito su lobbies ed élites tecniche: “La polemica sul Togliatti stalinista e sul Gramsci eretico è falsa e strumentale. Vogliono delegittimare le culture politiche del dopoguerra e i partiti che ne sono gli eredi”.
Per dipanare la matassa, il punto da cui partire – suggerisce Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Gramsci e autore di Vita e pensiero di Antonio Gramsci. 1926-1937 (Einaudi, pp. 367, euro 33) - è la critica ai “compagni” russi. “Voi oggi state distruggendo l’opera vostra”, scrive Gramsci il 14 ottobre 1926, su incarico dell’Ufficio politico del Pcd’I, in una vibrante lettera al Comitato centrale del partito comunista sovietico. Vacca  mette in rilievo  che non si tratta di una semplice accusa di metodo riguardo all’espulsione di Trotzki & Co.: Gramsci segna in modo insanabile e definitivo la sua presa di distanza dalla politica messa in atto da Stalin.
Un mese dopo quel messaggio, l’8 novembre 1926, in violazione dell’immunità parlamentare, Gramsci viene tratto in arresto dalla polizia fascista e rinchiuso a Regina Coeli. Inizia la sua odissea giudiziaria e carceraria. Nel febbraio 1928, mentre si trova nel carcere milanese di San Vittore, riceve una lettera di un dirigente del partito, Ruggiero Grieco, partita da Basilea e guarda caso transitata per Mosca, che lo fa “inalberare” perché “compromettente”, in quanto rivela che è il capo del Pcd’I.
Siamo alla vigilia del processo a ventidue imputati comunisti, tra i quali figurano, oltre a Gramsci,  Umberto Terracini e Mauro Scoccimarro, e il regime è all’affannosa ricerca di elementi di accusa nei confronti del pensatore sardo. La missiva potrebbe essere utilizzata contro di lui. E il giudice istruttore Enrico Macis commenta sardonico: “Onorevole Gramsci, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera”. 
A maggio si celebrerà il processo e il pubblico ministero Isgrò concluderà la sua requisitoria con una frase rimasta famosa: «Per vent'anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare». Una richiesta accolta dal Tribunale. Quanto abbia contato la lettera ai fini della condanna, è oggetto di discussione. Gramsci, tuttavia, fino all’ultimo sospetterà che dietro a Grieco si nasconda Togliatti.
Su questa lettera di Grieco, definita di volta in volta da Gramsci “strana”, “famigerata” e addirittura “un atto scellerato”, gli storici si sono esercitati da tempo. Vacca, nel suo saggio, esclude la tesi del complotto interno: Togliatti non aveva bisogno di sabotare i tentativi di scarcerazione di Gramsci in quanto Mussolini odiava di suo il comunista sardo e lo stesso Cremlino non aveva alcun interesse a liberarlo, per le sue posizioni eterodosse.
Ma allora chi fu a manovrare Grieco? Luciano Canfora, in un altro libro uscito nelle ultime settimane, Gramsci in carcere e il fascismo (Salerno editore, pp. 304, euro 12), non esclude che questi abbia scientemente cercato di danneggiare Gramsci (e Terracini e Scoccimarro, destinatari di altrettante missive), su mandato dell’Ovra, la polizia segreta fascista. Una pista che sarebbe avvalorata anche dall’imbarazzante Appello ai fratelli in camicia nera redatto dallo stesso Grieco nell’agosto 1936 sulle colonne del periodico “Lo Stato operaio”, nel quale proponeva di far proprio il programma mussoliniano del 1919.
Le tre missive in cui Gramsci parla di Grieco furono in ogni caso eliminate dalla prima edizione delle Lettere dal carcere del 1947. D’altronde Palmiro Togliatti, appena quindici giorni dopo la morte di Gramsci (27 aprile 1937), aveva inviato una direttiva ai compagni comunisti del Centro estero per esortarli a “non prendere nessuna iniziativa di pubblicazione di lettere e altro materiale inedito (di Gramsci) senza accordo con me”.
L’intento censorio era evidente. E infatti l’intera opera di Gramsci fu sottoposta a pesanti tagli da Felice Platone, con la supervisione dello stesso Togliatti. Furono espunti i riferimenti agli eretici Trotzki e Rosa Luxemburg ma anche molti brani di carattere più umano.
Canfora scrive che l’operazione rappresentò in quel momento storico “la sola via che potesse avvicinare quelle pagine a un pubblico più ampio”. Quale che siano stati i reali intenti di Togliatti (Nunzio Dell’Erba, in polemica con Canfora, ritiene che il Migliore volesse “costruire un piedistallo per se medesimo come erede dell’opera di Gramsci, occultando i motivi delle loro divergenze politiche”), vi sono punti ancora da chiarire.
Lo stesso Canfora si dilunga sul ruolo di informatore dell’Ovra che avrebbe svolto l’anarchico Ezio Taddei, nel dopoguerra approdato a Botteghe Oscure. E Franco Lo Piparo, in un altro volume uscito di recente, I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli, pp. 144, euro 16), avanza l’ipotesi che Togliatti abbia fatto sparire un intero Quaderno, il n. 34, nel quale Gramsci avrebbe preso le distanze dal comunismo tout court. In effetti lo stesso Togliatti fin dall’inizio parlò di 34 quaderni dal carcere, ma ne sono conosciuti (e sono stati pubblicati) solo 33.
Insomma, c’è ancora materia per gli storici. David Bidussa invita ad indagare sulla pista di Cambridge. Dove viveva l’economista Piero Sraffa, che assieme alla cognata Tania Schucht fu la persona più vicina a Gramsci nel periodo della detenzione e dopo la sua scomparsa trasmise a Togliatti le copie delle lettere e dei quaderni. È in Inghilterra la soluzione dell’enigma?
 
(Il Messaggero, 31 luglio 2012)
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