Mario Avagliano

Mario Avagliano

“L'Italia tra le grandi potenze” di Elena Aga Rossi

di Mario Avagliano

Ancora oggi molte storie generali e libri di testo per studenti universitari continuano a descrivere l’Italia del dopoguerra come «vassalla» di Washington e totalmente subalterna alla politica americana e sottovalutano l’influenza sovietica sui partiti e sugli intellettuali italiani. Ma il leader democristiano Alcide De Gasperi fu davvero un burattino nelle mani del presidente americano Harry Truman, come lo descrivevano i manifesti di propaganda elettorale del Fronte Popolare alle politiche del 1948? E il segretario comunista Palmiro Togliatti cercò realmente una «via italiana» al socialismo?

A fare chiarezza sulla politica estera italiana è il saggio «L'Italia tra le grandi potenze. Dalla seconda guerra mondiale alla guerra fredda», appena uscito per i tipi del Mulino e opera di Elena Aga Rossi, una delle maggiori studiose della politica e dell'intervento degli Alleati in Europa e dell'influenza dell'Unione Sovietica in Italia nei primi anni della guerra fredda.

Sull'una e l'altra tematica Elena Aga Rossi, lavorando in più archivi, non solo italiani ma anche sovietici, americani e inglesi, ha prodotto alcune ricerche originali che hanno in più casi costituito punti di svolta sulla storia politica del nostro paese e ora trovano qui una sistemazione unitaria, che va dai piani alleati per la divisione dell'Europa, sullo sfondo della Campagna d'Italia, fino al ruolo di De Gasperi nella rottura con le sinistre del maggio 1947 e ai rapporti del Pci e del Psi con l'Unione Sovietica.

In realtà, l’appartenenza dell’Italia alla sfera d’influenza occidentale, data per certa durante la guerra dalle conferenze di Jalta e di Teheran, fu poi messa in discussione alla fine del 1947, non soltanto per l’ipotesi di un possibile colpo di mano comunista, ma soprattutto nel caso di una vittoria elettorale dei partiti di sinistra alle politiche del successivo aprile. La stessa Urss progettava una graduale sovietizzazione d’Europa nell’arco di un paio di generazioni, grazie anche alla prevista crisi del capitalismo.

Elena Aga Rossi con i suoi studi ha contribuito a smontare, sulla base di documenti d’archivio, alcuni miti della storia italiana. La svolta di Salerno di Togliatti, ovvero l’improvvisa apertura di credito del Pci al governo Badoglio, che spiazzò gli altri partiti di sinistra, sarebbe stata un’indicazione di Stalin e non una decisione autonoma del segretario comunista. La presunta autonomia del Pci (e anche del Psi di Pietro Nenni) rispetto all’Urss e la ricerca di una via nazionale sarebbe stata solo di facciata ma non di sostanza, come testimoniano la piena adesione dei comunisti italiani al Cominform e la vicenda di Trieste, sulla quale Togliatti si appiattì sulla linea di Stalin e di Tito. L’apertura degli archivi sovietici, avvenuta solo negli anni Novanta, ha consentito di documentare questi rapporti e di vedere per la prima volta «l’altra faccia della luna».

La longa manus dell’Urss si sarebbe manifestata anche con un condizionamento della politica editoriale di quegli anni in Italia, suggerendo alle principali casi editrici, compreso l’Einaudi e Laterza, la pubblicazione di saggi di chiara impronta filocomunista e antiamericana e di contro ostacolando la diffusione di libri di denuncia dell’oppressione sovietica come «Arcipelago Gulag» di Aleksandr Solzenicyn e «Vita e destino» di Vassilij Grossman.

La stessa decisione di De Gasperi di rompere la coalizione con socialisti e comunisti e di varare un governo moderato, non sarebbe il frutto «avvelenato» del suo viaggio in Usa del gennaio 1947 ma una scelta dello statista democristiano dovuta a fattori interni, quali la sconfitta della Dc ai turni elettorali delle amministrative a Roma e altre città e delle regionali in Sicilia e la scarsa affidabilità dei partiti di sinistra, più di lotta che di governo. Una svolta politica sofferta (sul punto la Dc era divisa) e che è stata vista a lungo come la fine delle speranze di cambiamento generate dalla Resistenza e solo di recente è stata inquadrata come determinante per la ricostruzione del Paese in senso democratico.

Non c’è dubbio, rileva Elena Aga Rossi, che gli Usa (peraltro più teneri e accomodanti verso gli italiani rispetto agli inglesi) esercitarono una pesante influenza, politica ed economica, sull’Italia del dopoguerra, prima con la Commissione alleata di controllo e poi attraverso il Piano Marshall. Ma il nostro Paese era allo stremo delle forze e aveva poche alternative, poiché senza gli aiuti americani non si sarebbe potuta concretizzare la ricostruzione e ogni tentativo di ottenere aiuti da parte dell’Urss non ebbe alcun seguito, anzi i sovietici furono in prima fila nel richiedere all’Italia le riparazioni di guerra. E d’altronde quel piano fu alla base del boom degli anni successivi e consentì all’Italia di entrare nel club delle grandi potenze.

 

(Blog di Mario Avagliano, 2019)

Gli irriducibili al fascismo

di Mario Avagliano

 

Negli anni Venti e Trenta il fascismo conquistò il consenso di centinaia di migliaia di giovani con le sue idee di rivoluzione permanente. Benito Mussolini, come scriverà nel primo dopoguerra Elio Vittorini, ex camicia nera poi diventato intellettuale organico al Pci, incarnò agli occhi dei ragazzi dell’epoca, che studiavano o si affacciavano al mondo del lavoro, le aspettative di rivoluzione sociale, di uguaglianza e di contrasto alla povertà contro le élite conservatrici e reazionarie italiane e mondiali.

Ma fu per tutti così? No, vi furono alcuni giovani, utopisti e coraggiosi, che non si fecero irretire dal duce e manifestarono, sin dal primo momento, un’«irriducibile avversione» per il maestro di Predappio dalla mascella volitiva (come scrisse Enzo Sereni, nato nel 1905 e morto a Dachau nel 1944). La loro storia di opposizione ferma è raccontata, con brillante ritmo narrativo, nel libro «Gli irriducibili. I giovani ribelli che sfidarono Mussolini» di Mirella Serri, appena uscito per i tipi di Longanesi.

Tra speranze, persecuzioni, tradimenti e relazioni sentimentali, la Serri ripercorre il percorso di un manipolo di ragazzi e ragazze che non volle rassegnarsi al fascismo trionfante in Italia e che per questo scontò anni di prigionia, di confino e di esilio in Francia, in Palestina e in Tunisia. Erano studenti, intellettuali, pensatori e filosofi alle prime armi e accomunati da una medesima provenienza sociale e culturale. Appartenenti a famiglie borghesi e colte, una parte di loro aveva aderito al Partito comunista d’Italia, altri militavano in Giustizia e Libertà, altri ancora erano socialisti riformisti o repubblicani. In comune avevano una fondamentale convinzione: la sconfitta dei fascisti e poi dei nazisti poteva venire solo da un ampio fronte unitario.

In questa truppa di «soldati senza uniforme» si ritrovarono personaggi poi passati alla storia e protagonisti dimenticati, come Giorgio Amendola, Enzo ed Emilio Sereni, Xeniuska Silberberg, Loris Gallico, Velio Spano, Ferruccio Bensasson, Maurizio Valenzi (poi sindaco di Napoli) e Litza Cittanova. Molte furono le presenze femminili tra questi oppositori della prima ora. Fra loro Nadia Gallico, moglie di Spano, che agì in Tunisia e divenne poi una delle ventuno elette all’Assemblea Costituente, e Ada Ascarelli, la quale a vent’anni convolò a nozze con Enzo Sereni. Ostile al regime fin dalla marcia su Roma, fu una delle prime italiane emigrate in Palestina per sottrarsi alla nefasta politica di Mussolini.

Oltre che Roma, dove soprattutto nei licei diversi ragazzi provarono ad organizzare un’opposizione alla nascente dittatura fascista, un altro centro dove gli irriducibili trovarono seguito fu Napoli, in quel frangente storico città cosmopolita e universitaria, con una vita culturale vivace, piena di studenti ebrei dell’Est Europa socialisti e comunisti e dove viveva Benedetto Croce, punto di riferimento dell’antifascismo di matrice liberal-democratica.

A Napoli, esattamente al Vomero, in quegli anni, dopo l’assassinio del padre, si era trasferito anche Giorgio Amendola, ospite dello zio Mario Salvatore detto zio Totore, e qui aveva ritrovato i fratelli Enrico ed Emilio Sereni. Giorgione (chiamato così dai più intimi per la notevole corporatura), iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, assieme ad Enrico, leader degli studenti e dei docenti napoletani antifascisti, tentò di ridestare dal torpore i colleghi universitari, organizzando riunioni clandestine e dando vita alla rivista «Antifascismo».

Emilio Sereni, detto Mimmo, iscritto all’università di agraria a Portici, invece passò dall’entusiasmo per il sionismo e dal sogno della Palestina all’adesione clandestina alla federazione del partito comunista napoletano, di cui diventò il leader. Dopo il suo arresto da parte della polizia fascista, verrà sostituito proprio dall’amico Giorgio Amendola.

Negli anni successivi, molti di questi ragazzi e ragazze, dopo esperienze di carcere e di confino, si ritroveranno in esilio all’estero, a Parigi o in Tunisia, dove subiranno nuove persecuzioni. Anche da fuoriusciti, con le loro limitate forze, anni prima dell’inizio della Resistenza, si organizzarono e cercarono di colpire una dittatura apparentemente invincibile. Avviarono sabotaggi, attentati e iniziative di propaganda con l’obiettivo di dare un segnale forte: nonostante il massiccio consenso tributato al duce nella Penisola, vi erano anche italiani che avevano scelto di schierarsi sul fronte dell’antifascismo.

Divennero così il volto internazionale della prima opposizione al fascismo. Ma, come scrive Mirella Serri, quando rientreranno in Italia, il racconto della loro avventurosa vita sarà cancellato e il loro durissimo antifascismo di espatriati sarà omologato a quello dei coetanei fascisti che facevano la fronda.

(Blog Mario Avagliano, 2019)

Filippo Palieri, il commissario nell’inferno di Wietzendorf

di Mario Avagliano

 

Siamo abituati a pensare al campo di Wietzendorf come un Offizierslager per ufficiali. Vero. Vi passarono lunghi mesi di prigionia internati militari graduati del calibro di Giovannino Guareschi, Alessandro Natta e Gianrico Tedeschi, solo per fare qualche nome. Ma in realtà nell’Oflag 83 non vi furono soltanto militari. Vi venne deportato anche il commissario di pubblica sicurezza Filippo Palieri, medaglia d’oro al merito civile nel 2004.

La storia di Palieri è singolare. Pugliese, nato a Cerignola il 22 maggio del 1911, giovane dal bel portamento, un po’ stempiato, occhiali rotondi, fronte alta, di profonda fede religiosa, era alla Questura di Rieti dal 1935. Sposato con Giuliana Annesi, poetessa e letterata, discendente di un’antica famiglia aristocratica, aveva tre figli: Rodolfo, Antonello e Alba Maria. Nominato capo di gabinetto, dopo l’8 settembre 1943 – complice l’assenza per malattia del Questore Solimando – si era trovato di fatto a reggere la Questura e a dover far fronte alle richieste pressanti dei tedeschi, che volevano eseguire rastrellamenti di lavoratori specializzati per inviarli in Germania e chiedevano notizie dei giovani renitenti alla leva.

Filippo, come racconta il libro Oltre il Lager. Filippo Palieri un eroe cristiano nell’inferno di Wietzendorf, pubblicato nel 2005, non collabora con i nazisti, anzi fin dall’inizio dell’occupazione, assieme al capo del servizio politico Salvatore Poti, tenta di sabotare i disegni dei tedeschi, nascondendo gli elenchi di circa 300 artigiani, tecnici, autisti e operai specializzati di Rieti destinati ad essere inviati al lavoro obbligatorio nel Reich al servizio della Wehrmacht e avvertendo i concittadini del pericolo che corrono. Ma il suo doppio gioco viene scoperto e così la mattina del 4 ottobre del 1943, nonostante sia a casa a letto con la febbre, su ordine del comandante delle truppe germaniche, il Feldmaresciallo Mayer, viene arrestato per «mancata collaborazione» insieme a Poti e a sei ufficiali reatini.

Da questo momento in poi Filippo Palieri, nonostante sia un civile e non un ufficiale, non viene destinato a un lager per deportati politici ma segue la stessa sorte degli internati militari, i cosiddetti Imi. La prima tappa è il campo polacco di Luckenwalden, cui seguono Benjaminow, Bremenworde-Sandbostel e infine Wietzendorf. Tappe di un Calvario, come recita il titolo del libro di memorie di don Luigi Pasa, che fu suo compagno di prigionia. Dai lager Filippo scrive varie lettere alle famiglie sui moduli prestampati dei prigionieri, al pari degli internati bluffando sulle sue reali condizioni di salute, sull’alimentazione e sulla temperatura dei luoghi, per non far preoccupare i familiari, tanto che la moglie Giuliana, che qualcosa sospetta, in una delle risposte gli dice: «Filippo, amore mio, se sapessi come apprezzo la generosità che hai dimostrato nel non lagnarti di nulla!».

Anche a lui, benché sia un civile, vengono fatte richieste di adesione. Ma non cede mai, neppure quando la moglie, nella prospettiva di un rimpatrio anticipato, gli scrive: «non si può far niente senza la tua adesione». Lui replica fermo: «il prezzo è troppo alto per me».

A Wietzendorf, Palieri il 3 aprile 1945 nel suo diario, che giungerà in Italia dopo la guerra, portato alla famiglia da un internato, scrive profeticamente: «Ho avuto il sogno più completo della mia prigionia. Mia madre di cui ho toccato la mano con tanta verosimiglianza che quando mi sono destato ho fatto fatica a comprendere che era un sogno. Mio padre, di cui nella camera accanto sentivo il solito canticchiare. Mia moglie. Speriamo che ciò sia presagio della fine imminente come i più recenti avvenimenti danno presumere».

Filippo però è allo stremo delle forze. Con la febbre alta, come lui stesso annota, è stato costretto fra il 31 gennaio e il 1° febbraio a percorrere a piedi dodici chilometri sul ghiaccio, ad una temperatura di diversi gradi sotto lo zero, da Sandbostel all’attuale campo, non ottenendo come richiesto il trasporto su carro. Successivamente, ricoverato in infermeria, è stato dimesso il 2 aprile ancora malato, costretto ai lunghi appelli al freddo e alle docce, con la solita sbobba senza sostanze come unica alimentazione.

E così il 13 aprile, verso le 11 di mattina, il commissario esala l’ultimo respiro, La fame, gli stenti, la crudeltà tedesca e la mancanza di cure lo hanno ucciso. Don Luigi Pasa nel suo libro racconta la scomparsa dell’amico avvenuta proprio alla vigilia della liberazione, ricordando che gli parlava sempre della moglie e dei tre figli, «concludendo invariabilmente: “Non vedrò più la mia famiglia!”».

Appena tre giorni dopo, il 16 aprile, il campo di Wietzendorf, dove sono stati concentrati la gran parte degli ufficiali, viene liberato. Il comandante italiano Pietro Testa alle 17.31 emana un ordine del giorno che molti annotano nei propri diari:

Ufficiali, sottufficiali, soldati del campo 83 di Wietzendorf: Siamo liberi! Le sofferenze di 19 mesi di un internamento peggiore di mille prigioni sono finite. Abbiamo resistito nel nome del Re e della Patria. Siamo degni di ricostruire. Ufficiali, Sottufficiali, soldati italiani! Ricordiamo i morti, morti di stenti ma fieri nelle facce sparute, sotto gli abiti a brandelli, con una fede inchiodata alta come una bandiera. Salutiamo la Patria che risorge, che noi dobbiamo far risorgere. Viva il Re W l’Italia W le Nazioni Alleate.

Purtroppo Filippo Palieri è morto, non può festeggiare assieme ai suoi compagni. Anzi, le fasi concitate della liberazione ritardano anche la sua sepoltura, in programma il 15 ma rimandata al tardo pomeriggio del 16, nel bosco all’interno del campo, proprio mentre arrivano gli inglesi, così che tra «baci, abbracci, strette di mani, sorrisi, auguri formulati con la gioia sulle labbra», come annota quel giorno Giuseppe Lidio Lalli, in «un tripudio generale che è divenuto emozionante al momento dell’alza-bandiera, accompagnato dal Coro del Nabucco: “Oh mia Patria sì bella e perduta”», «nessuno – scrive don Pasa – pensò più al funerale di quel povero Palieri». La funzione religiosa viene celebrata la mattina dopo, alle 9.30, presenti tutti gli ufficiali e soldati del campo oltre a una rappresentanza francese e inglese. Dopo la preghiera e il ricordo di don Pasa, interviene il comandante del campo, il colonnello Pietro Testa, che – ricorda sempre il cappellano - «disse, deponendo la bandiera sulla cassa: “I tedeschi ci avevano negata la bandiera, la nostra bandiera: tu sei il primo che viene avvolto liberamente nel tricolore!»

Solo nel 1970 la famiglia otterrà il trasferimento del feretro al cimitero di Allumiere, in provincia di Roma, dove oggi sorge un monumento funerario alle memoria del coraggioso commissario, deportato per essersi opposto alla barbarie nazifascista e capace di dire «no» fino alla fine, a costo della sua vita.

("Rassegna", ANRP, n. 1-2, gennaio-febbraio 2020)

Fascismo, non è stato un gioco

di Diego Gabutti

Banalizzare (come si dice) il fascismo è stato sempre uno sport molto praticato in Italia. Mussolini «buonuomo», gli antifascisti «in villeggiatura» alle isole, i gerarchi in pantofole, la dittatura mite e generosa, la bonifica delle paludi, la Treccani, giusto un po' d'antisemitismo (ma indulgente, mica come a Berlino). Non si capiva, in fondo, perché gli oppositori del regime andassero esuli all'estero. Potevano restarsene tranquillamente anche qui, pacifici, indisturbati, persino un po' riveriti.

Coccolati da Primato, cari ai frondisti come Leo Longanesi e Indro Montanelli, e in fondo simpatici anche allo stesso Dux, gli antifascisti avrebbero potuto essere l'ala democratica (diciamo così) del regime se soltanto fossero stati meno cocciuti. Un po' come oggi, sotto la stella cometa del governo meloniano, quando il neofascismo («onore al Msi», commemora la seconda carica dello Stato) è stato trasformato dal voto popolare (il 26% del 55% dell'elettorato) nell'ala littoria della democrazia.

Per lo più il fascismo è caramellato e farcito d'uvetta da storici e memorialisti, che ridacchiano, beffeggianti ma ammirati, del Duce a cavallo che brandisce la Spada dell'Islam, del Duce aviatore e sciatore, del Duce che si molleggia con i pugni sui fianchi nella gabbia Non è bello né sano che oggi, dopo ottant'anni di racconto storico assolutorio e banalizzante, ci tocchi anche un governo banalizzatore che con il fascismo storico c'entrerà magari poco, anzi niente, ma che del neofascismo non è solo una parodia ma l'erede diretto, come Articolo 1 e Sinistra italiana del comunismo del leone, del Duce armato di falce e a torso nudo che partecipa alla battaglia del grano, del Duce giocatore di bocce.

Raccontato così, deriso e rimpianto insieme nei memoir dei giornalisti e dei diplomatici più compromessi, filtrato attraverso le mattane dei legionari fiumani, tutto tele futuriste e telefoni bianchi, il fascismo diventa uno scherzo e gli oppositori degli zucconi che non capiscono la barzelletta. Ci sono libri scanzonati sui rapporti al Duce dell'Ovra, la polizia politica. Si possono leggere libri leggeri e goliardici sulle imprese erotiche di Mascellone nella Sala del Mappamondo. Gli si accreditano opinioni antinaziste ((pando c'era tutt'al più dell'invidia per la bella presenza delle SS, alte e marziali, dalla divisa impeccabile, mentre a lui toccavano militi «brevilinei», sgualciti e pelandroni). Passa per libertario, addirittura per «auto-mormoratore», se non per antifascista occulto: l'idea generale è che il fascismo non sia colpa sua ma degl'italiani, «ingovernabili», «indisciplinati», eterni bambini. Straparlano così, da ottant'anni in qua, intere biblioteche.

Rare se non rarissime le eccezioni: tra i titoli recenti Il caso Mussolini (Neri Pozza 2022) di Maurizio Serra, la biografia di Giovanni Gentile (Il filosofo in camicia nera, Mondadori 2021) di Mimmo Franzinelli, il Mussolini capobanda (Mondadori, 2022) di Aldo Cazzullo e questo Il dissenso al fascismo di Mario Avagliano e Marco Palmieri, storici accurati delle zone in ombra dell'Italia nella prima metà del secolo. Mentre non c'è storia del fascismo, dei suoi Guf, delle sue disfatte militari, dei suoi slogan ridicoli, dei suoi ras, del suo Minculpop, delle sue Opere Balilla, dei suoi gerarchi, dei suoi architetti e trasvolatori, delle sue donne fertili, dei suoi squadristi in orbace o in doppiopetto che non abbia al centro qualche grand'uomo a pancia in dentro e petto in fuori, Avagliano e Palmieri in tutti i loro libri si sono invece sempre occupati di cose che contano e di persone vere.

Negli anni, hanno raccontato la storia delle leggi razziali e dell'antisemitismo fascista, dello sbarco alleato, dei soldati al fronte, della resistenza disarmata dei militari italiani internati nei lager tedeschi per non essersi arruolati nei ranghi di Salò, dei primi anni del secondo dopoguerra, della resistenza allo stalinismo nel 1948. Qui, con Il dissenso al fascismo, si occupano dei dissidenti — gli antifascisti che, tra la proclamazione della dittatura nel 1925 e la caduta del fascismo nel 1943, cercarono d'opporsi al regime e ne furono perseguitati. A fermarli non fu il «consenso» di cui godeva il fascismo, come raccontano gli storici compiacenti, ma il terrore scatenato dal regime contro l'opposizione in qualsiasi forma, dal partito liberale a quello socialcomunista, dai Testimoni di Geova ai boy-scout.

Tutt'altro che caramellosa, niente canditi, zero uvetta, la storia della repressione negli anni del fascismo è la storia d'un regime criminale, assassino, feroce. Non è vero che Hitler e Stalin fossero peggio di Mussolini soltanto perché fecero peggio di lui. Mussolini ha fatto quel che ha potuto coni mezzi e il materiale umano che aveva. Se solo ne avesse avuto i mezzi, il vantaggio e l'occasione, non avrebbe certo indietreggiato di fronte al genocidio, come infatti dimostrarono le leggi razziali del 1938 che gettarono in pasto ai cannibali migliaia d'ebrei. Qualunque cosa se ne legga nei libri così spiritosi di Leo Longanesi, nelle Storie d'Italia di Montanelli o nelle biografie di Filippo Tommaso Marinetti, di Giuseppe Bottai e di Berto Ricci, un antisemita rabbioso che Montanelli definiva «un anarchico» e «un idealista», il fascismo non fu affatto uno scherzo né un intermezzo piacevole: eravamo ragazzi, c'era l'avventura dell'impero, giovinezza, giovinezza.

A decine di migliaia d'italiani (molti dei quali lasciarono clandestinamente il paese poiché anche l'espatrio era diventato un reato, com'era reato raccontare barzellette sull'Uomo della Provvidenza o criticare per una qualsiasi ragione il regime) non era sembrato divertente farsi purgare e randellare dalla feccia della società nazionale. Decine di migliaia d'italiani finirono in galera, al confino, in manicomio, stipati nelle isole che la stampa internazionale descriveva realisticamente come «Siberia e Cayenna italiane». Ci furono centinaia di suicidi, la maggioranza dei quali soltanto tra virgolette: malnutriti, torturati con le tecniche più efferate, talvolta persino violentati (come raccontano Avagliano e Palmieri) dalle stesse guardie carcerarie, gl'internati antifascisti morivano come mosche, assassinati senza che i loro aguzzini fossero chiamati a risponderne.

Avagliano e Palmieri scavano in una vasta costellazione di piccole storie che finiscono male, malissimo, bene, mai benissimo. Storie d'avvocati, d'operai, di calzolai, d'ingegneri espulsi dall'ordine, di studenti e insegnanti, di sacerdoti, di donne e uomini che il fascismo ha imprigionato, torturato, oltraggiato, ucciso. «No, non è terrore, è appena rigore», spiegò Mussolini alla Camera il 26 maggio 1927. «Terrorismo? Nemmeno; è igiene sociale, profilassi nazionale, si levano dalla circolazione questi individui come un medico toglie dalla circolazione un infetto» Erano discorsi da teppista, i soli che gli si addicessero. Stalin e Hitler dicevano esattamente le stesse cose.

Come ci ricordano Avagliano e Palmieri, è di questo che si parla quando si parla di fascismo. Sul dissenso e la resistenza al fascismo è stata fondata la repubblica, che per quanto imperfetta è sempre meglio di qualunque regime. Non è bello né sano che oggi, dopo ottant'anni di racconto storico assolutorio e banalizzante, ci tocchi anche un governo banalizzatore che con il fascismo storico c'entrerà magari poco, anzi niente, ma che del neofascismo non è solo una parodia ma l'erede diretto, come Articolo 1 e Sinistra italiana del comunismo. C'era Mario Draghi a Palazzo Chigi e adesso guardateci. 

(Italia Oggi, 31 dicembre 2022)

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