E l'auto cambiò l'Italia

di Mario Avagliano

Ecco perché in Italia, più che altrove, rubando le parole ad un intellettuale dell’acume di Vittorio Foa, «l’auto, il motore a combustione interna, è un protagonista di questo secolo; nessun mutamento di questo secolo può essere confrontato col motore a scoppio, almeno prima del computer e della sua integrazione col telefono».
Da queste considerazioni è maturata l’idea brillante di Daniele Marchesini di ricostruire questo sogno italiano in un saggio per i tipi del Mulino, intitolato «L’Italia a quattro ruote». Un libro che in qualche modo continua un percorso già avviato dallo stesso Marchesini negli anni precedenti, con le splendide monografie su «L’Italia del Giro d’Italia», «Coppi e Bartali» e «Cuori e motori. Storia della Mille Miglia».
Il primo ad intuire che nell’immaginario collettivo l’automobile non era solo un mero mezzo di trasporto, fu Benito Mussolini. «Chiunque comperi un’automobile, sia pure la più piccola vettura di serie, diventa immediatamente antirivoluzionario. Non vuol più sentir parlare di quel comunismo che gli porterebbe via, forse, la sua vettura», dichiarò il duce a un giornale francese nel 1928. Prevedendo che in America non vi sarebbe mai stato un movimento rivoluzionario «perché ogni operaio pilota la sua Ford».
All’epoca dell’intervista le vetture in Italia erano circa centocinquantamila e Mussolini indicò il miraggio dell’auto popolare: «Un milione d’automobili in circolazione rappresenta una garanzia sociale». Una scommessa che non nasceva dal nulla. Lo stato maggiore della Fiat, costituito da Giovanni Agnelli, da Vittorio Valletta e dall’ingegnere Dante Giacosa, geniale disegnatore di tutti i modelli di quegli anni, puntava sull’utilitaria come mezzo di trasporto di massa e nel 1936 lanciò in pista la 500 Topolino. Ma quel sogno ducesco si scontrò con la dura realtà di un’economia fiacca, che perseguiva una politica di bassi redditi e che poi nel 1940 s’imbarcò nell’avventura disastrosa della guerra.
Fu solo a partire dal 1955, con il varo della mitica Seicento, l’auto regina del miracolo, che il progetto di una motorizzazione di massa si realizzò davvero. Il benessere derivante dal successo della politica di ricostruzione e di industrializzazione del Paese fece aumentare il potere d’acquisto degli italiani e consentì alla classe operaia di andare in Paradiso e ai signori Brambilla e ai signori Rossi di acquistare l’agognata utilitaria. Segnando l’inizio di un’era nuova per il Belpaese, con la costruzione dell’Autostrada del Sole e di una rete autostradale che ci era invidiata in tutto il mondo, la nascita degli Autogrill, le gite della domenica fuori porta e le prime code sulle strade.
Curiosamente proprio nel 1955 per la prima volta la Fiom-Cgil, il sindacato degli operai social comunisti, che aveva il suo zoccolo duro alla Fiat, subì una dura sconfitta alle elezioni per le commissioni interne, venendo superata dalla Cisl. Tanto che l’Europeo titolò beffardamente: «Meglio una 600 oggi che la rivoluzione domani».
La storia del rapporto tra italiani e automobili continuò ad accompagnare le evoluzioni sociali e politiche del Paese. Se la Seicento era la macchina del maschio capofamiglia, la Nuova Cinquecento – più economica (costava 490 mila lire), più manovrabile e più sportiva -, presentata sul mercato nel 1957, diventò anche l’automobile della moglie e della donna evoluta. E poi dei figli, che sui sedili non ribaltabili di quelle magnifiche utilitarie conobbero il rock d’oltre Oceano e sperimentarono la rivoluzione del Sessantotto, le proteste anti-Vietnam, le occupazioni delle scuole e le prime indimenticabili, anche se non comodissime, esperienze sessuali.
E l’auto si trasformò definitivamente in uno status symbol, come testimonia il film «Il medico della mutua» di Luigi Zampa, del 1968, che mise in scena l’ascesa sociale e professionale del dottor Guido Tersilli (Alberto Sordi) in parallelo con i suoi mezzi di trasporto, dalla Lambretta a due ruote alla Seicento comprata a rate fino alla «fuoriserie, rossa, decappottabile, che tutti devono invidiarmi!».

(Il Messaggero, 27 dicembre 2012)

 

Il libro

«L’Italia a quattro ruote. Storia dell’utilitaria» (il Mulino, pp. 265, euro 24) è stato scritto da Daniele Marchesini, già docente di storia contemporanea all’Università di Parma. In nove capitoli, con l’ausilio di un interessante estratto iconografico, l’autore ripercorre l’epopea della conquista degli italiani di un posto in… Autosole. Dalla Balilla nera degli anni Venti alla Cinquecento degli anni Sessanta.

  • Pubblicato in Articoli

Storie – Rita Levi Montalcini e gli italiani “brava gente”

di Mario Avagliano

Rita Levi Montalcini non fu solo una straordinaria scienziata. Lei che aveva conosciuto l’infamia delle leggi razziali e nel 1938, da giovane ricercatrice, era stata costretta dal regime fascista ad emigrare in Belgio, per tutta la vita riservò una parte del suo impegno alla politica e alla riflessione etica. Piero Banucci, su «La Stampa» di ieri, ha proposto un’intervista inedita risalente al 1988. Vale la pena rileggerne alcuni brani.

Scopriremo che Rita Levi Montalcini riteneva attuale “essere antifascisti”: «Significa mantenere vivi quei valori che si stanno perdendo da parte dei revisionisti. Oggi non c’è da opporsi a una persecuzione, a una privazione della libertà come avveniva sotto il fascismo. Antifascisti dovremmo esserlo tutti. Purtroppo non è così. Il fascismo è stato la distruzione di tutti i valori morali. Un revisionista per esempio è lo storico Renzo De Felice. Per lui siamo stati tutti uguali, tutta brava gente, tanto vale passare una spugna su tutto. Un momento: io dico no, ci sono i bravi e i cattivi. Primo Levi è stato formidabile nel denunciare il revisionismo. Le cose vanno ancora peggio in Francia. De Felice afferma che l’Italia è fuori dall’ombra dell’olocausto. Non è affatto vero. Sono amareggiata da queste affermazioni. Oggi, nel 1988, antifascismo è avere dei principi etici».
E sul pericolo di razzismo, così si esprimeva: «Il razzismo è sempre in agguato. In molte parti del mondo si assiste a persecuzioni non diverse da quelle che abbiamo avuto in Europa mezzo secolo fa. Ci sono ritorni di antisemitismo, persino in Italia. Tutto ciò denota un basso livello di valori etici. I razzisti sono persone frustrate, che pensano di rivalersi perseguitando persone che ritengono inferiori. Questi rigurgiti del passato non mi toccano, ma mi addolorano».

(L'Unione Informa, 1° gennaio 2013)

  • Pubblicato in Storie

Taviani & Scalfaro. Il ritorno del Centro nel mirino degli storici

di Mario Avagliano

C’è un ritorno del centro cattolico anche nella storiografia? Il nesso con la “salita” in campo di Mario Monti è casuale, ma in effetti tra gli storici si registra un rinnovato interesse per alcuni personaggi centristi, allievi di quell’Alcide De Gasperi al quale si richiama il professore della Bocconi. Due figure in particolare, che hanno segnato la storia italiana, sono finiti di recente sotto le luci dei riflettori: Paolo Emilio Taviani e Oscar luigi Scalfaro.
Il genovese Taviani, il cui padre Ferdinando militava nella Dc di Romolo Murri e nel Ppi di don Luigi Sturzo, maturò l’opposizione al fascismo all’interno dei giovani universitari cattolici della Fuci, fino all’adesione alla Resistenza. L’incontro con De Gasperi convinse il giovane brillante docente, titolare di ben tre lauree (giurisprudenza, scienze sociali e lettere), a dedicarsi anima e corpo alla missione di unire politicamente i cattolici per renderli protagonisti del futuro del Paese, come si racconta nel libro «Paolo Emilio Taviani nella cultura politica e nella storia d’Italia» (Le Mani, pp. 325, euro 19), a cura di Francesco Malgeri e con contributi di vari studiosi.
Un’interessante mostra al Museo Storico della Liberazione di via Tasso, aperta al pubblico fino al 5 marzo 2013 e intitolata «Il partigiano Pittaluga», nome di battaglia di Taviani, illustra con immagini e documenti anche inediti le varie fasi dell’esistenza del grande politico, che fu membro della Costituente e più volte ministro, soffermandosi in particolare sul periodo della Resistenza. «Taviani guidò l’insurrezione di Genova contro i nazifascisti – spiega il curatore Antonio Parisella – memore dell’avvertimento mazziniano sul pericolo della libertà avuta in dono. Fu lui a scrivere materialmente il proclama per l’insurrezione e a comunicare alla radio la liberazione della città da parte dei partigiani».
Nella vita politica di Taviani, che fu anche presidente del Museo di via Tasso, vi sono alcuni episodi significativi: il suo no al governo Tambroni con i voti del Msi, la sua iniziativa nel 1973 quale ministro dell’Interno di promuovere lo scioglimento d’autorità di Ordine Nuovo, il sostegno a Moro e all’apertura al centrosinistra e la partecipazione il 25 aprile 1994, dopo la vittoria di Berlusconi, quale oratore ufficiale alla grande manifestazione indetta dalle organizzazioni resistenziali.
Un altro allievo di De Gasperi fu il novarese Oscar Luigi Scalfaro, altro membro dell’Assemblea Costituente che partorì la carta costituzionale, primo capo dello Stato della Seconda Repubblica e anche lui non sospettabile di simpatie verso Berlusconi. È uscita in questi giorni in libreria la sua prima biografia: «Scalfaro. L’uomo, il presidente, il cristiano» (Edizioni San Paolo, pp. 268, euro 19). L’autore Giovanni Grasso ha ricostruito mirabilmente la vicenda di questo esponente dc, al quale De Gasperi in una delle sue ultime lettere scrisse: «perché non ci diamo del tu se ci vogliamo tanto bene?».
Scalfaro fu sicuramente un arcicattolico. Fu il suo vescovo ad insistere perché il giovane magistrato si presentasse alle prime elezioni dopo il fascismo. Ma fu anche un politico laico, convinto della netta separazione tra Chiesa e Stato. Un episodio raccontato da Grasso è illuminante a tal proposito. Siamo nel 1987. De Mita fa sapere a Scalfaro, ministro dell’Interno, che il suo passaggio al ministero dell’Istruzione sarebbe stato molto gradito dal Vaticano. La risposta di Scalfaro è: «In Vaticano ci vado solo per la Messa… nutro tutto il rispetto per vescovi e cardinali, ma escludo che debbano essere inseriti in queste faccende».
Per questo motivo Scalfaro negli anni della Seconda Repubblica non ebbe timore a schierarsi contro la linea della Cei, tracciata dal cardinale Camillo Ruini, che, preso atto della fine della Dc, affermava un equilibrio tra i due poli, ma praticava una vicinanza con quello guidato da Silvio Berlusconi. Una posizione di laicità che, afferma nella prefazione il ministro Andrea Riccardi (che, oltre ad essere un apprezzato storico, è uno dei protagonisti del nuovo centro montiano in formazione), lo portò a scontrarsi frontalmente con la Segreteria di Stato della Santa Sede, guidata dal cardinale Angelo Sodano, e non a avere remore, lui che era stato un fiero anticomunista, nel dare per la prima volta nella storia d’Italia ad un ex pci, Massimo D’Alema, l’incarico di formare il governo.

(Il Messaggero, 5 gennaio 2013)

  • Pubblicato in Articoli

Storie – “Parole trasparenti” sull’Italia razzista

di Mario Avagliano

In tema di persecuzione degli ebrei, tra i diversi modi per raccogliere l’invito di David Bidussa a dare più spazio alla storia rispetto alla memoria, c’è il ritorno ai documenti. E quali migliore viatico delle lettere e dei diari? Ne costituisce un mirabile esempio il nuovo libro della collana Storie Italiane del Mulino, Parole Trasparenti. Diari e lettere 1939-1945, che racconta la storia appassionante e a tratti tenera di due sposini ebrei, il triestino Ettore Finzi e la parmigiana Adelina Foà, che decidono, nell’Italia dell’aprile 1939, di imbarcarsi a Genova, con la scusa del viaggio di nozze, e di raggiungere la Palestina per sfuggire alle persecuzioni razziali. L’epistolario è stato curato dal figlio Daniele Finzi e ha vinto, nel 2011, la 27esima edizione del Premio dei Diari di Pieve Santo Stefano.

Le vicende che si susseguono da quell’anno fino al 1945 vengono ricostruite attraverso la corrispondenza fra i due coniugi e i brani dei loro diari. Adelina, avvocato in un prestigioso studio legale di Milano, vivrà per un lungo periodo sola a Tel Aviv con due figli piccolissimi, Anna e Daniele, adattandosi ad impieghi modesti per sopravvivere. Suo marito Ettore, chimico industriale, trova lavoro ad Abadan in Persia, alle dipendenze della Anglo Iranian Oil Company.
Tra loro ci sono migliaia e migliaia di chilometri, ma i due giovani per sentirsi più vicini si scrivono ogni giorno raccontandosi la quotidianità, la disperazione per aver lasciato l’Italia “più per lo schifo che sentivo al calcare quel suolo che per un imminente pericolo”, confidandosi la consapevolezza che la maggior parte dei loro amici non ebrei non aveva compreso “cosa volesse significare per l’eternità, per la storia che l’Italia era diventata un paese razzista” e i timori per i parenti rimasti lì ed esposti ai pericoli della guerra e della deportazione.
Ma non è solo la storia di una nostalgia e di un abbandono, è anche la cronaca dal vivo di un nuovo Stato che tra mille difficoltà sta nascendo, in Palestina, dove “in un terra in sommossa, senza un governo suo, senza un futuro certo e prevedibile, senza un sicuro lavoro e con altre mille incertezze, ci si sente molto, ma molto più liberi che in Italia”.
E scrivendo scrivendo, il 2 novembre 1944 Adelina si rende conto di dell’eccezionalità del momento storico e chiede al marito: “Cosa fai delle mie lettere? Se le tieni come faccio io avremo alla fine un diario abbastanza completo di questo periodo della nostra vita”. Ettore le risponde: “Io conservo la tua ultima (…) come tutte le altre. Tu salva anche le mie e così avremo alla fine il nostro libro”.
Il momento più straziante è quello del 3 agosto 1945, quando dal Consolato italiano arriverà la “desolante notizia” della morte dei genitori di Ettore nell’inferno di Auschwitz.
Al termine della guerra, la famiglia Finzi tornerà in Italia. Le infami leggi razziali sono state abrogate, la persecuzione è finita ma tanti amici e parenti non ci sono più. Restano le lettere e diari di Ettore e Adelina, straordinaria testimonianza che “questo è stato”.

(L'Unione Informa, 12 febbraio 2013)

  • Pubblicato in Storie

Quel Fuhrer con una faccia da spot

di Mario Avagliano

Hitler simil-bambino, dipinto dall’estroso artista padovano Maurizio Cattelan in ginocchio e quasi in lacrime nel Ghetto di Varsavia ed esposto al pubblico col titolo “Him” (Lui) proprio nel quartiere della capitale polacca in cui molti ebrei furono uccisi o deportati nei campi di concentramento. Hitler testimonial di uno shampoo venduto in Turchia con lo slogan “per maschi al 100 per cento”. Hitler a cartoni animati, con un’acconciatura color ciliegia o in costume da panda e bracciale con la svastica, che spopola sulle magliette e sui muri di Bangkok, in Thailandia.
E ancora: Hitler miagolante, riprodotto in uno strano incrocio di gatti dal manto bianco, i Kitler, con macchie nere che rimandano ai baffi ed alla pettinatura del dittatore tedesco. Hitler scrittore best-seller in diversi paesi arabi, in funzione anti-Israele, con il suo manifesto razzista Mein Kampf.
C’era una volta il Male assoluto. Oggi Adolf Hitler non è più un tabù. E la sua immagine, il suo profilo, addirittura i suoi slogan deliranti e i suoi simboli minacciosi vengono utilizzati indifferentemente per motivi di marketing, per pubblicizzare prodotti di largo consumo, per ragioni di politica internazionale oppure col pretesto dell’arte, del cinema e della letteratura.
Insomma, Hitler Er Ist Wieder, vale a dire "È tornato", come titola il provocatorio romanzo dello scrittore esordiente Timur Vermes, pubblicato in Germania lo scorso anno con una copertina tutta bianca, ornata solo dalla celebre frangia nera del Führer. Un libro che in pochi mesi è schizzato a sorpresa in cima alle classifiche tedesche, è in via di pubblicazione in inglese, in francese e altre quindici lingue (in Italia per Bompiani) e presto forse sarà anche oggetto di una versione cinematografica.

Vermes ha immaginato un redivivo Hitler che si sveglia a Berlino, nella Germania di Angela Merkel, nell’estate del 2011, dopo un letargo durato 66 anni. Scambiato per un imitatore di mezza età che fa la caricatura del dittatore, partecipa a uno show televisivo di un turco-tedesco e grazie ai suoi tic, alle sue pose e ai suoi monologhi fuoco-e-fiamme, che scatenano grande ilarità nel pubblico, diventa una star della tv e del web. Su YouTube i post dei suoi video, in cui racconta barzellette politically-incorrect (proprio come faceva in privato, nella realtà storica), vengono cliccati da milioni di persone.
Si ride, ma a denti stretti, in quanto nella finzione del romanzo, dopo il trionfo come comico e show-man, Hitler torna alla politica. E la sua ricetta populista, da “eroe” dell’antipolitica (nel suo programma s’impegna, tra le altre cose, a combattere le cacche di cane e l’eccesso di velocità), fa breccia nel cuore dei tedeschi, tra chi è deluso dai partiti, chi ignora la storia e chi fatica a sopravvivere a causa della crisi economica.
La satira su Hitler non è una novità assoluta. Il primo a mettere alla berlina il Führer fu il grande comico ebreo Charlie Chaplin nell’irriverente film Il grande dittatore, uscito nel 1940. «Ridere fa bene, ridere degli aspetti più sinistri della vita e persino della morte», affermò Chaplin.
Tuttavia allora il mondo non conosceva l’orrore della Shoah e dei campi di sterminio. Ecco perché, nonostante la vena ironica dello script, il record di vendite del romanzo di Vermes, che ha superato in classifica gente del calibro di Ken Follet e Paulo Coelho, ha suscitato un acceso dibattito in Germania.
Operazione nostalgia? Il quarantaseienne Timur Vermes nega decisamente. Il suo intento, ha dichiarato alla stampa tedesca, è al contrario quello di spiegare che anche nel mondo di oggi esiste il pericolo di un novello Adolf Hitler, in versione 2.0, che sfrutti in chiave elettorale un mix esplosivo di comicità, internet e populismo.
Secondo il quotidiano Süddeutsche Zeitung, invece, il successo del romanzo Er Ist Wieder si spiega con la «strana ossessione per Hitler» che si è sviluppata negli ultimi tempi in Germania: «Hitler appare regolarmente sulle copertine delle riviste; invade i canali televisivi con una frequenza che ci impedisce di fare zapping senza vederlo alzare il braccio; e nelle riunioni familiari non manca mai una parodia del “Führrerrr” con due dita sotto il naso, garanzia di ilarità. Questa fissazione per Hitler – sulla figura comica o sull’uomo come incarnazione del male – rischia di far passare in secondo piano i fatti storici». Per dirla in altri termini, è come se, consciamente o inconsciamente, parlando in modo eccessivo di Hitler, si volessero oscurare le responsabilità del popolo tedesco, scaricandole tutte sul dittatore.
E a Berlino già si guarda con preoccupazione all’appuntamento del 2015, anno in cui scadranno i diritti di proprietà sul Mein Kampf del Land della Baviera e l’opera di Hitler (la cui diffusione e vendita è vietata dal dopoguerra in Germania) potrà essere pubblicata liberamente. Per evitare un uso improprio e rigurgiti del nazismo, la Baviera ha già incaricato uno storico affermato, Christian Hartmann, consulente del film La caduta, che raccontava gli ultimi giorni del Führer, di predisporre un'edizione critica commentata, mettendo in rilievo le manipolazioni e le menzogne di quel testo. Sarà sufficiente?

(Il Mattino, 19 febbraio 2013)

  • Pubblicato in Articoli

16-18 marzo 1938: il bombardamento fascista di Barcellona

di Anna Foa

Sono in questi giorni settantacinque anni dal grande bombardamento di Barcellona effettuato dall'aviazione italiana nel corso della guerra civile spagnola: dal 16 al 18 marzo 1938 migliaia di bombe si rovesciarono sulla città, uccidendo un migliaio di persone e scatenando il panico nella popolazione che si diede alla fuga. Lo ricordano in contemporanea il Corriere della Sera di ieri e lo spagnolo La Vanguardia, sottolineando anche come, dopo l'attacco del 1937 su Guernica da parte dell'aviazione nazista, fosse la seconda volta che la guerra contro i civili, tanto tipica del Novecento, si operava dall'alto, attraverso i bombardamenti.

Un tragico preludio a quello che sarebbe successo, prima ad opera dell'aviazione tedesca sull'Inghilterra, poi ad opera dell'aviazione anglo-americana sulle città tedesche, nella successiva guerra mondiale. Tali bombardamenti in effetti non colpivano i civili solo come conseguenza indesiderata ed inevitabile delle operazioni militari, ma li colpivano appositamente per demoralizzare il nemico e spingerlo alla resa. Quanto al bombardamento di Barcellona, fu il primo momento di quell'attiva partecipazione, da parte italiana, allla guerra portata da Hitler all'Europa intera, che avrebbe visto l'Italia di nuovo schierata accanto ai nazisti e che avrebbe visto tanti episodi terribili di guerra contro i civili, dal cielo e dalla terra. I "buoni italiani" però non hanno mai chiesto scusa di quel bombardamento, a differenza della Germania, dove nel 1997 il presidente tedesco si è scusato formalmente per il bombardamento di Guernica. Forse, sarebbe il caso di farlo ora. Meglio tardi che mai.

(L'Unione Informa, 18 marzo 2013)

L'articolo di Dino Messina

Il mito degli Italiani brava gente e il bombardamwento di Barcellona del marzo 1938

Che nei cieli e per le strade di Barcellona tra il 16 e il 18 marzo 1938 fosse avvenuto qualcosa di terribile gli italiani lo appresero subito attraverso le corrispondenze del “Corriere della sera”, il più diffuso giornale italiano, dal 1925 controllato dal regime. Già il 18 marzo il quotidiano milanese titolava: «Il popolo di Barcellona chiede la resa», il 20 avvertiva: «Barcellona abbandonata da centinaia di migliaia di abitanti — scene di terrore e di rivolta». E il 21: «Barcellona stremata». I corrispondenti come lo scrittore Guido Piovene o l’inviato Mario Massai sottolinearono la gravità dell’impatto che i bombardamenti dell’aviazione italiana avevano avuto sul corso della guerra ma si guardarono bene dal denunciare, come fece il Times di Londra, che almeno seicento abitanti in tre giorni avevano perso la vita (in realtà circa il doppio), tantissimi bambini, per lo più residenti nei quartieri popolari. Fu subito chiaro, insomma, che la strage non era stata causale ma voluta, per un preciso ordine arrivato all’improvviso da Benito Mussolini in persona. Tutto scritto, tutto documentato dalle cronache dell’epoca, nelle pagine del diario del ministro degli Esteri italiano e genero del Duce, Galeazzo Ciano, nei libri scritti dagli storici italiani, da Giorgio Rochat (“Le guerre italiane 1935-1943″) a Lucio Ceva, “Spagne 1936-1939″.
Eppure ben poco della verità sull’orrore scatenato dai bombardieri italiani decollati dalle Baleari con l’ordine preciso di colpire e seminare terrore è giunto alla nostra opinione pubblica. Per prendere coscienza delle responsabilità italiane nel primo “civil bombing” di una grande città europea forse occorrerebbe un atto pubblico simile a quello compiuto dal presidente tedesco Roman Herzog che nel 1997, nel sessantesimo anniversario di Guernica (26 aprile 1937), chiese scusa alla gente spagnola. Guernica-Barcellona un paragone azzardato? Nient’affatto. Altri se ne potrebbero fare. Per esempio con Durango, la cittadina della Vizcaya che il 31 marzo 1937 venne attaccata da squadriglie italiane che distrussero case e uccisero 289 persone. Barcellona tuttavia resta una pietra miliare del terrore e forse è venuto il momento, dopo aver analizzato per circa un ventennio gli effetti che la «guerra ai civili» ha avuto sul suolo italiano (dai rastrellamenti nazisti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 ai bombardamenti dell’aviazione Alleata), che gli storici facessero uno sforzo pari in direzione diversa. Raccontarci, cioè, dall’Etiopia ai Balcani, dalla Grecia alla Spagna la guerra vista dalla parte delle vittime, con gli italiani nelle vesti di aggressori. Non che manchino studi di questo tipo, da Angelo del Boca in poi, ma si sente soprattutto in ambito divulgativo, una reticenza lontana. Quella che deriva dall’auto rappresentazione di «italiani brava gente», ma anche da una mancata Norimberga successiva al fascismo e, non ultimo, dal fatto di essere entrati nella Seconda guerra mondiale con una casacca e nell’esserne usciti con un’altra.
Il bombardamento di Barcellona, così come tutti gli altri atti di terrore dall’aria durante l’aggressione alla Repubblica spagnola, è il frutto ideologico, militare e politico di una storia tutta italiana. Il punto di vista militare e ideologico risale a Giulio Dohuet, che ben prima del britannico Hugh Trenchard, cioè negli anni Venti, con un’opera ancora oggi citata in tutti i manuali di strategia militare, “Il dominio dell’aria”, anticipò il concetto del «civil bombing»: «Immaginiamoci una grande città che, in pochi minuti, veda la sua parte centrale, per un raggio di 250 metri all’incirca, colpita da una massa di proiettili dal peso complessivo di una ventina di tonnellate…». Sembra la profezia di quanto sarebbe avvenuto a Barcellona dove i bombardieri Savoia Marchetti 79 in un paio di giorni sganciarono circa 44 tonnellate di esplosivi.
E a un’azione dimostrativa che seminasse terrore, come ha raccontato anche Edoardo Grassia, pensava Mussolini quando pochi minuti prima di pronunciare alla Camera il suo discorso in reazione all’Anschluss dell’Austria da parte delle truppe di Hitler, diede l’ordine al Capo di Stato Maggiore della Regia aeronautica di «iniziare azione violenta su Barcellona con martellamento diluito nel tempo». Nessuna consultazione con altri organismi militari, nemmeno con Franco. Fu una decisione di Mussolini per seminare terrore. E nelle intenzioni anche una cinica operazione mediatica per recuperare terreno rispetto all’iniziativa di Hitler e magari rimediare alla figuraccia ancora non dimenticata della disfatta di Guadalajara. La riprova delle intenzioni di Mussolini si ha nel diario di Galeazzo Ciano, quando annota la reazione del duce alle proteste di parte britannica: «Quando l’ho informato del passo di Perth (ambasciatore inglese a Roma, ndr), non se ne è molto preoccupato, anzi si è dichiarato lieto del fatto che gli italiani riescano a destare orrore per la loro aggressività anziché compiacimento come mandolinisti».
A Mussolini il progetto di trasformazione antropologica del popolo italiano non riuscì ma il fascismo portò «la brava gente» a macchiarsi di crimini di cui dobbiamo chiedere scusa.

(Corriere della Sera, 17 marzo 2013)

  • Pubblicato in News

La Grande Guerra digitale

di Mario Avagliano

Finora la storia della prima guerra mondiale del 1914-1918, che solo sul fronte italiano provocò oltre 700 mila vittime e più di un milione tra mutilati e feriti, era stata raccontata attraverso saggi storici, libri cult come Addio alle armi di Ernest Hemingway, oppure film come Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick o La Grande Guerra di Mario Monicelli. In vista del centenario del 2014, l’Europa ha pensato di raccogliere le storie personali dei reduci, andando a rovistare nei cassetti e nei bauli dei familiari di chi visse quell’esperienza, alla ricerca di lettere, diari, disegni, ritagli di giornali, cimeli risalenti a quel periodo cruciale.

La creazione di un portale internet dedicato da parte di Europeana, il grande archivio digitale europeo, e i collection day, gli appuntamenti di raccolta dei materiali, che hanno toccato, a partire dal 2011, Germania, Belgio, Francia, Gran Bretagna, Slovenia, Danimarca, Lussemburgo, Irlanda, Cipro e, per quanto riguarda l’Italia, Trento (il 16 marzo scorso), hanno consentito di collezionare già 56 mila reperti della Grande Guerra, digitalizzati e pubblicati on line. Lettere d’amore dal fronte, bracciali realizzati in trincea con le pallottole dei nemici, divise di soldati, armi, immagini dei campi di prigionia, consultabili anche su pc, tablet e smartphone.
Ora il progetto Europeana 1914-1918, che in l’Italia vede impegnati l’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, il Museo Centrale del Risorgimento e la Fondazione Museo storico del Trentino, sbarca a Roma. Tutte le persone in possesso di materiali della prima guerra mondiale potranno partecipare il 15 maggio alla giornata di raccolta presso la Biblioteca Nazionale centrale (viale Castro Pretorio, 105), dalle ore 10 alle 18. Un team di esperti sarà a disposizione per la digitalizzazione dei reperti e la registrazione dei racconti. Coloro che non possono prendere parte al collection day, potranno registrarsi sul sito www.europeana1914-1918.eu e caricare direttamente il materiale nell’archivio on line.
“L’Italia - commenta Rossella Caffo, direttore dell'ICCU - attribuisce un’importanza strategica a questo progetto. I materiali raccolti nel nostro Paese saranno pubblicati anche sul sito www.14-18.it, il portale italiano della Grande Guerra”.
La volontà è quella di riunire “virtualmente” su questo portale i documenti e le testimonianze relative all’Italia. E nonostante sia passato un secolo da quegli eventi, la ricerca già comincia a dare sorprendenti frutti, come gli spartiti musicali composti nel Cellelager dai militari italiani catturati dagli austriaci dopo la disfatta di Caporetto, messi a disposizione da Alessandra Ghidoli, nipote del sottotenente e violinista Alceo Rosini; le prime fotografie dei campi di prigionia italiani, ad Avezzano e in Sardegna; e l’immagine straordinaria e inedita della proclamazione della dichiarazione di guerra dell’Italia, il 24 maggio 1915, in una piazza del Quirinale gremita di folla.

(Il Messaggero, 8 maggio 2013)

 

La Grande Guerra. Storie dal cuore d’Italia

di Mario Avagliano

Anche la Grande Guerra ha avuto il suo selfie. Lo scatto è datato 12 luglio del 1916, quando in una Trento ancora austriaca, il boia si fece ritrarre sorridente, circondato da sei o sette militari e civili, mentre esibiva in pubblico il corpo di Cesare Battisti, condannato a morte per “alto tradimento” in un processo farsa, in quanto colpevole di essersi comportato da italiano fra gli austriaci. Otto minuti di agonia, ucciso mediante strangolamento nella Fossa della Cervara, sul retro del Castello del Buonconsiglio, stringendo lentamente la corda attorno al suo collo.
Josef Lang, l’aguzzino coi baffi e il cappello a bombetta venuto apposta da Vienna per la macabra esecuzione, dovette compiere due volte l’atto, perché la prima il cappio si spezzò. Ma il previdente boia aveva portato una seconda corda in valigia. Terminato il suo lavoro, si prestò volentieri ad un autoscatto che avrebbe danneggiato l’immagine dell’Austria agli occhi dell’opinione pubblica mondiale. Annotò, caustico, lo scrittore austriaco Karl Kraus: “Non solo abbiamo impiccato, ma ci siamo messi anche in posa”.
Oggi l’imponente mausoleo dedicato al martirio di Battisti, opera dell’architetto veronese Ettore Fagiuoli, che si ispirò alla tomba parigina di Napoleone a Les Invalides, è semi-abbandonato. Mancano le indicazioni stradali e l’erba attorno al monumento è alta.
È una delle tredici storie raccontate da Federico Guiglia nel libro “Dov’è la vittoria”, una sorta di diario di viaggio nel tempo tra i monumenti della Grande Guerra, che copre tutta l’Italia, da Bolzano a Giardini Naxos, ed esce in occasione del centenario dell’inizio del conflitto per il nostro Paese (24 maggio 1915).
Uno dei monumenti più suggestivi è il Sacrario Militare di Fogliano Redipuglia, in provincia di Gorizia, il memoriale più grande d’Italia e tra i maggiori al mondo, dove riposano le spoglie di centomila giovani vittime della prima guerra mondiale, di cui quarantamila identificati e gli altri ignoti. Una curiosità sul nome: non c’entra né il re né la Puglia, è un termine che deriva dallo sloveno e significa “terra di mezzo”.
“Impossibile restare insensibili nel leggere così tanti nomi in fila uno dopo l’altro, sotto la scritta ‘presente’, grande e ripetuta una, due, decine di volte”, annota Guiglia. Centomila storie di solitudine che toccano nord, centro e sud d’Italia, senza distinzioni.
Visto dall’alto il sacrario, dove è salito anche Papa Francesco rivolgendo il suo appello al “mai più guerra”, evoca la tastiera di un pianoforte. Fu voluto da Benito Mussolini e dal suo regime, progettato dall’architetto Giovanni Greppi e dallo scultore Giannino Castiglioni e inaugurato il 18 settembre 1938.
Tra i tanti soldati sepolti, l’unica donna è una crocerossina, Margherita Kaiser Parodi Orlando, medaglia di bronzo al valor militare. È nella prima fila e ha una croce che ne sovrasta l’identità sulla lapide. Mentre bombardavano, Margherita non abbandonò l’ospedale mobile in cui operava. Fece valere il coraggio della carità. Morì a ventun anni per febbre spagnola nell’immediato dopoguerra.
Qui giace anche la salma di Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, comandante della Terza Armata. “Il duca invitto”, era stato ribattezzato per non aver perso una battaglia. Morì nel 1931 e chiese l’onore d’essere seppellito a Redipuglia tra i soldati noti e ignoti. “Sarò con essi – scrisse nel suo testamento – vigile e sicura scolta alle frontiere d’Italia, al cospetto di quel Carso che vide epiche gesta ed innumeri sacrifici, vicino a quel mare che accolse le salme dei marinai d’Italia”.
Tra i tanti monumenti, non poteva mancare il Vittoriano di Piazza Venezia, conosciuto anche come l’Altare della Patria, una delle più grandi opere dell’Ottocento, progettata dal grande architetto Giuseppe Sacconi e costruita per il primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II. Un cantiere dalla durata lunghissima: la prima pietra fu posta nel 1885, l’ultima cinquant’anni dopo, nel 1935. Nel frattempo, nel 1921, presso il monumento era stata sepolta la salma del Milite ignoto.
Negli anni Settanta l’Altare della Patria fu oggetto di una violenta polemica, di carattere ideologico, e venne appellato in vari modi pur di ridicolizzarlo: “macchina per scrivere”, “torta nuziale”, “panettone”. Disconoscendone il valore architettonico e artistico e considerandolo, a torto, un simbolo del fascismo invece che del Risorgimento.
Fu il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi a riscoprirlo e a far riaprire al pubblico il Vittoriano il 20 settembre 2000, anniversario di Porta PIa. Veniva così riconsegnato ai romani un grande monumento coi suoi 17 mila metri quadrati di superficie e 81 metri d’altezza. Con le sue statue e sculture, le sue decorazioni, i suoi musei. E i valori incisi sul marmo: l’unità della nazione che equivale alla libertà dei cittadini. “Una piccola città di memorie civili – chiosa Guiglia – dentro la grande Città eterna, un perfetto crocevia di Roma, che vuol dire amor all’incontrario”.

(Il Messaggero, 24 maggio 2015)

Scarica la recensione de Il Messaggero        

 

 

  • Pubblicato in Articoli
Sottoscrivi questo feed RSS