I combattenti della parte sbagliata

di Raffaele Liucci

Arduo scrivere una storia condivisa della Repubblica Sociale Italiana (1943-45). Eppure Mario Avagliano e Marco Palmieri in L'Italia di Salò (Il Mulino) ci sono forse riusciti, indagando un passato segnato dal «disconoscimento totale e reciproco dell’umanità dell’avversario», come ha osservato Luigi Ganapini, autore nel 1999 di uno dei primi studi scientifici d’insieme sulla Repubblica delle camicie nere. Rispetto alle precedenti, questa nuova sintesi privilegia una ricostruzione dal basso, dando spazio ai diari e alle lettere coeve degli uomini comuni. Una fonte non priva di trabocchetti (i testimoni diretti non sono quasi mai i migliori giudici di se stessi), ma utilissima per aprire uno squarcio su una realtà magmatica, non del tutto riconducile all’ideologia dei capi. Altra peculiarità di questo tomo è lo sguardo esteso anche alle propaggini estere della Rsi, dai «non cooperatori» nei campi di prigionia alleati sino al «fascismo clandestino» operante al Sud, nell’Italia liberata.

Sia chiaro: questi documenti confermano molti tratti distintivi dei combattenti «dalla parte sbagliata». Lo choc del 25 luglio e la vergogna provata per il «tradimento» dell’8 settembre. La volontà di riscatto, anche solo per «perdere una guerra a modo mio». La propensione a considerare il duce vittima di «falsi fascisti» e la rinnovata fiducia nelle sue doti quasi sovrannaturali. L’odio per «la zona grigia degli indifferenti e dei rassegnati». L’ansia di vendetta e il desiderio di combattere non solo al fronte, ma anche contro i «ribelli» (smentendo così la tesi di una certa refrattarietà dei militi di Salò a scontrarsi con altri italiani). Le invettive contro i «negri» e i «porci angloamericani». Una concezione del mondo complottistica e manichea, con «massoni» ed «ebrei» gran burattinai. Del resto, come stupirsene? La Rsi dichiarò di «nazionalità nemica» tutti gli israeliti italiani e collaborò alacremente al genocidio ebraico.

D’altra parte, questa ricognizione svela un quadro assai più variegato dei «gregari di Salò». Non soltanto coscritti entusiasti, ma anche «tiepidi, recalcitranti, renitenti, disertori». Molti di loro, trasferiti in Germania per un periodo di addestramento, scrivono alle famiglie messaggi densi di angoscia per la fame, il freddo, la fatica e la sensazione «di essere agnelli ai comandi di alcuni ufficiali tedeschizzati». C’è poi chi si rifiuta, in Italia, di partecipare a esecuzioni sommarie di partigiani e civili. Per non parlare di quanti passeranno al fronte avverso, come il futuro storico del colonialismo Angelo Del Boca, qui citatissimo. Degne di riflessione anche alcune missive di «repubblichini» in attesa di essere giustiziati, intrise di dignitosa compostezza, tanto che potrebbero essere quasi scambiate per lettere di condannati a morte della Resistenza: «Muoio con l’animo tranquillo perché ho la coscienza di aver fatto tutto con slancio e devozione a quella Patria che ho amato più di me stesso, più della famiglia, forse più di Dio».

Gli autori non trascurano la persecuzione degli ebrei, la «guerra ai civili» e le torture anti-partigiane. Utile corollario a queste pagine è un recente libro di Alberto Mandreoli (Il fascismo della repubblica sociale a processo. Sentenze e amnistia, Il Pozzo di Giacobbe), che ricostruisce in modo capillare i processi celebrati a Bologna nell’immediato dopoguerra contro i fascisti responsabili di stragi e violenze varie, con sentenze di condanna annacquate dall’amnistia di Togliatti (giugno ’46). È il tema della mancata Norimberga italiana.

Ma Avagliano e Palmieri non dimenticano neppure la resa dei conti scattata dopo il 25 aprile ’45: l’ultimo capitolo del libro è infatti riservato alle vendette partigiane e al «sangue dei vinti». Un esito ahimè prevedibile, giacché una guerra civile non può cessare per decreto da un giorno all’altro, e quella italiana era iniziata con il primo squadrismo. Ma è anche vero che la Resistenza permise a molti antifascisti dell’ultima ora di rifarsi una verginità, facendo dei «repubblichini» (spesso giovanissimi) i capri espiatori di una lunga stagione avviatasi nel ’22, non dopo l’8 settembre ’43. Come se il Tribunale Speciale, il patto con Hitler, le leggi razziali e la pugnalata alla schiena della Francia non fossero episodi altrettanto gravi del revival crepuscolare di Mussolini, dall’autunno ’43 a piazzale Loreto.

(Il Sole 24 Ore, Domenicale, 23 aprile 2017)

I giovani e la Repubblica di Salò. «Una rivincita generazionale»

di Pietro De Leo

«L’Italia di Salò. 1943-1945»è il titolo di un saggio, edito da Il Mulino, di Mario Avagliano e Marco Palmieri, entrambi giornalisti e storici. Ma, soprattutto, è un tentativo riuscito di rileggere con oggettività quei due anni che vanno dall’8 settembre del ’43,data dell’armistizio con le forze alleate, all’aprile del ’45, quando il 28 del mese Benito Mussolini venne fucilato. Era l’Italia, appunto, della Repubblica Sociale Italiana, un Paese disegnato dai tratti della presenza dell’esercito tedesco, nel Centro-Nord, alleato, a Sud (risalendo lungo lo Stivale) e della guerra civile. "Repubblichini" contro partigiani. Ma è l’Italia in cui circa mezzo milione di giovani fecero la scelta di difendere, fino all’ultimo, quell’ideale di Patria che il fascismo aveva forgiato. È dunque in questo solco che si snoda il lavoro di Avagliano- Palmieri, uscito nelle librerie da qualche settimana e ieri presentato a Roma, presso la Biblioteca di Storia Moderna e contemporanea. A coordinare i lavori il giornalista di Radio Rai Ruggero Po.

Avagliano va subito al punto, spiegando la differenza con molte precedenti rese storiografiche del periodo di Salò: «Molti libri sull'argomento sono stati scritti da ex partigiani o da reduci. Perciò le visioni erano quelle di uno Stato fantoccio o di una Repubblica necessaria ». Questo lavoro, invece, va oltre, proprio perché fa parlare le fonti: lettere, resoconti di polizia, diari, dispacci di regime. Da cui si ricostruisce come quella dell’adesione fu una scelta dettata da un forte influsso generazionale: si aderiva, spiegano gli autori, per una sorta di rivincita contro la categoria del tradimento, incarnata dall’armistizio dell’8 settembre. Si aderiva, chiaramente, anche per ideologia, per conseguenza pratica dell’indottrinamento.

E sul punto insiste Mauro Canali, docente di storia contemporanea all’Università di Camerino, che sottolinea come scorrendo le lettere alle famiglie di molti ragazzi di Salò si notano dei ricorrenti topoi linguistici tipici della propaganda di regime, come fossero stati inculcati nel linguaggio. «Ci sono dei riferimenti che ricorrono continuamente », spiega Canali, «e anche questo testimonia la forza del mito mussoliniano e del mito fascista». E ancora, sottolinea Canali, la peculiarità di questo libro è che «la sostanza viene data dai cittadini comuni», in pratica, «è un libro sui giovani». L’ossatura generazionale della RSI si ritrova anche nei profili di quei nomi che hanno fatto, in vari campi, la storia del nostro Paese e che poi presero strade diverse: da Giorgio Albertazzi a Dario Fo, da Raimondo Vianello a Giorgio Bocca.

Quella di Salò fu anche una storia di donne, repubblichine e partigiane. A metterlo in evidenza è Michela Ponzani, storica, conduttrice del programma «il tempo e la storia» su Rai Storia. Nell’esperienza di Salò, «lo stupro era un’arma di repressione politica», spiega Ponzani, riportando delle testimonianza di un giovane aderente alla RSI che raccontava le angherie contro una donna partigiana trattenuta in arresto in una caserma. Tuttavia, accanto a questo c’era anche la partecipazione di tante donne al progetto di Salò, e venivano variamente impiegate, o come segretarie, traduttrici e i lavori «di retrovia», oppure in prima linea o nell’articolata e capillare attività di delazione, che segnò nel profondo l’esperienza repubblichina. Altro aspetto rilevante del volume, l’analisi delle varie esperienze regionali che sorsero qui e là per l’Italia a sostegno dell’esperienza di Salò. Dalla Sicilia alla Sardegna, dalla Calabria a la Campania, questo a smentire la vulgata che vuole la fase repubblichina come espressamente circoscritta al territorio sul Garda.

Sulla complessità del lavoro storiografico pone l’accento proprio Marco Palmieri: «Dopo l’8 settembre la confusione in Italia era enorme», evidenzia mettendo in luce come la mancanza di ordini precisi avesse fatto piombare l’esercito nel disordine più totale. E non è un mistero, dunque, come tra le motivazioni che spinsero molti giovani ad abbracciare la Repubblica Sociale vi fosse anche una profonda insoddisfazione verso i vertici militari dell’epoca. Tutto questo lo si ravvisa attraverso la ricostruzione puntuale delle fonti che hanno messo in atto i due autori. «Il nostro - spiega- Palmieri, non è un libro né di destra né di sinistra. E forse per questo ha ottenuto delle recensioni positive dalla stampa di qualsiasi orientamento politico-culturale. Una lettura senz’altro utile in vista del 25 aprile, quando come al solito sulla conquista della memoria condivisa prevarrà l’infuriare di una guerra ideologica dove il vincitore di oggi coincide, immancabilmente, con quello di allora.

(Il Tempo, 19 aprile 2017)

  • Pubblicato in News

Nel cuore della «zona grigia». Fascisti o partigiani per caso

di Renato Besana

«Noi fascisti repubblicani siamo in pochi, italiani, ma siamo gente di fede, decisa a tutto osare, poiché probabilmente più nulla avremo da perdere, tutto da riconquistare, nessun diritto allora, solo dedizione e doveri»: così si legge in un volantino anonimo, rinvenuto nel bagno dell’allora Teatro Nuovo, a Roma, nell’ottobre 1944, quattro mesi dopo l’ingresso delle forze alleate in città. È, questa, una delle testimonianze raccolte da Mario Avagliano e Marco Palmieri ne L’Italia di Salò (il Mulino, pp. 490, euro 28), volume che sarà presentato oggi a Roma alle 17.30, presso la Biblioteca di storia moderna e contemporanea (via M. Caetani 32), da Mauro Canali e Michela Ponzani.

Ciascuno dei due autori si era già occupato, in libri precedenti, delle tragiche vicende che si dipanarono dal ’43 al ’45; in questo, hanno inteso indagare la realtà umana di coloro che aderirono alla Rsi. «Non c’è dubbio che nella ricostruzione storica del periodo», scrivono nella nota introduttiva, «abbia pesato anche un problema politico-culturale relativo al corretto recupero della sua memoria, basato sull’analisi ampia e approfondita delle fonti, fuori dagli schemi rigidi e dalle letture ideologiche che hanno caratterizzato il lungo dopoguerra».

Intendiamoci: Avagliano e Palmieri non mostrano simpatia alcuna per chi militò dalla «parte sbagliata», ma cercano d’indagarne le ragioni, attingendo di volta in volta anche a lettere, memoriali, rapporti di polizia. Ne esce un quadro di straordinaria vivezza, soprattutto perché affidato alle parole dei protagonisti, a volte sconosciuti, a volte approdati alla notorietà a guerra finita, da Fo ad Albertazzi, da Livio Zanetti a Enrico Maria Salerno, da Giuseppe Berto a Enrico Ameri, da Pio Filippani Ronconi ad Alberto Burri, e l’elenco potrebbe continuare. Al ritorno di Mussolini, nell’autunno ’43, i fascisti convinti si contrappongono agli antifascisti di vecchia data che si mobilitano per organizzare la Resistenza. Tra le due minoranze, sia pur cospicue, «c’è un’ampia zona grigia, caratterizzata da una magmatica incertezza che porta a fare l’una o l’altra scelta, o prima l’una per poi passare all’altra, sulla base di fattori e circostanze contingenti».

Fascisti e partigiani per caso: il testo ne dà ampio conto, citando vicende personali, spesso minute, che restituiscono la somma confusione di quegli anni. Una scelta drammatica tocca ai militari italiani internati dai tedeschi dopo l’armistizio o già prigionieri degli Alleati. Ai primi, soprattutto agli ufficiali, fu proposto di costituire i quadri del nuovo esercito repubblicano. Alcuni accettarono convintamente, altri soltanto dopo il primo, durissimo inverno di detenzione; la maggioranza rifiutò. I Pow, i Prisoners of war rinchiusi in campi sparsi per il mondo - i peggiori furono quelli dei francesi - ricevettero la richiesta di cooperare come manodopera a favore degli Alleati. In molti decidono per il no, sopportandone le conseguenze. Anche qui, la rievocazione si avvale di lettere e testimonianze rese da chi visse quelle vicende.

Avagliano e Palmieri dedicano poi un capitolo a un fenomeno poco indagato: la resistenza nera nelle regioni occupate dagli anglo-americani. Si tratta per lo più di gruppi, come quello di «Onore», attivo a Roma, che nella clandestinità continuano a dirsi fascisti, svolgendo attività di propaganda. Lungo il filo delle pagine si dipana il racconto degli avvenimenti che precipitano verso la resa. L’Enr, l’Esercito nazionale repubblicano del maresciallo Graziani, è male equipaggiato e malvisto dai tedeschi, che preferirebbero impiegare gli italiani nel lavoro coatto. Nell’estate ’44, Pavolini istituisce le Brigate nere; come lui stesso annota, sono organizzate sul modello delle formazioni partigiane, allo scopo di combatterle: alla guerra contro gli Alleati si aggiunge la terribile guerra civile.

La linea del fronte sale, le diserzioni nelle file della Rsi aumentano, ma fino agli ultimi giorni non mancano i giovanissimi che si arruolano. Che aria tiri lo spiega bene una lettera spedita da Belluno a un soldato fascista: «Quando finirà la guerra sarà bene che non torni subito a casa, non per gli inglesi né per gli americani, ma per gli italiani stessi, specie per quelli del tuo paese, che ti faranno la pelle». Avagliano e Palmieri chiudono il libro con gli avvenimenti che seguono il 25 aprile. Ecco l’ultima resistenza degli irriducibili, ecco i rinchiusi nel campo di Coltano, dove confluiranno i militi repubblicani caduti in mano alleata, ecco le lettere dei fascisti condannati a morte. Dove finisce L’Italia di Salò, comincia Il sangue dei vinti di Gianpaolo Pansa.

(Libero, 18 aprile 2017, pag. 25)

L'Italia di Salò, l'intervista della Città di Salerno ad Avagliano

"Anche i frustrati finivano a Salò"

di Davide Speranza

Solitamente si è propensi a credere – da fonti storiche ufficiali – che esistesse un Nord occupato dai tedeschi ed un Sud liberato e completamente depurato dal nazifascismo. Adesso un libro, “L’Italia di Salò”, permette di guardare la faccenda anche da un altro punto di vista: in Campania, la Repubblica di Salò di Mussolini aveva i suoi seguaci. Il volume (Il Mulino, pp. 490), è pubblicato da Mario Avagliano e Marco Palmieri, che – attraverso le lettere, i diari, i documenti del tempo – raccontano i motivi dell’adesione di tanti italiani alla Repubblica sociale e la loro partecipazione diretta ai crimini e agli eccidi degli occupanti tedeschi.

Il libro verrà presentato stamattina da Mario Avagliano, cavese di origine, alle 9.45, al Comune di Cava de’ Tirreni, con la collaborazione dell’associazione Giornalisti Cava-Costa d’Amalfi “Lucio Barone”, il sostegno del Rotary Club e delle associazioni “Amici della Terza Età - Antico Borgo” e “Sei di Cava se”. Oggi pomeriggio, alle 18.30, sarà presentato invece a Nocera Superiore, con l’organizzazione dell’associazione Polis Sa e dell’Istituto Galante Oliva all’interno della rassegna “Libri corsari”.

Mario Avagliano, come si presenta l’Italia all’indomani dell’Armistizio?

Era un’Italia divisa in due, e non soltanto geograficamente, con la Repubblica di Salò istituita dopo la liberazione di Mussolini e dopo l’occupazione tedesca del Centro Nord, da una parte, e il Regno del Sud, dall’altra. Ma i seguaci di Mussolini erano presenti anche tra i meridionali. Tra questi, esisteva una terminologia che potrebbe indicare una forma di resistenza contro gli alleati. Parlavano di Italia occupata. Ma noi sappiamo che per i partigiani il paese occupato era quello del Centro Nord e l’Italia liberata era il Sud, mentre per i fascisti l’Italia da liberare era proprio il Mezzogiorno occupato dalle forze alleate. Insomma, un mondo rovesciato.

Chi aderisce al fascismo clandestino?

Soprattutto due categorie, i giovanissimi e gli anziani. La generazione di mezzo, 30enni e 40enni, sono più critici nei confronti del fascismo, avendone conosciuto il vero volto e avendo partecipato alle battaglie in Grecia, nei Balcani, in Africa, Russia; o avendo disapprovato la partecipazione del fascismo agli atti di violenza perpetrati dai tedeschi.

Con questo libro cosa indagate?

Le motivazioni che spingono oltre mezzo milione di italiani ad aderire alla Repubblica sociale di Salò. La risposta non è univoca. Una quota di adesioni arriva a causa dei bombardamenti alleati, i quali colpiscono le città italiane, provocando morti e distruzioni che non sono viste di buon occhio dalla popolazione. I gerarchi rimasti nel mito di Mussolini, ne fecero fino all’ultimo un vero e proprio idolo. Poi c’erano le adesioni che avvenivano per carrierismo, opportunismo, necessità di sfamare la propria famiglia. Ci sono persone costrette ad aderire perché si prevedono rappresaglie e pene di morte. L’amore di patria è una delle categorie, ma anche lo spirito di avventura o la voglia di dare sfogo alle proprie frustrazioni e allo spirito violento.

In Campania, quali furono i centri nevralgici dei nuclei fascisti?

A Napoli c’era una organizzazione che faceva capo al principe Valerio Pignatelli. La repubblica sociale inviò spie paracadutate a Castellammare di Stabia. Si misero in contatto col principe stesso. Tra le operazioni progettate, c’era il rapimento di Benedetto Croce a Sorrento. A Salerno le forze dell’ordine segnalarono un nucleo fascista, come a Sala Consilina.

Come si muovevano questi ragazzi?

Erano autori di scritte sui muri. Facevano volantinaggio clandestino, producevano giornali inneggianti al fascismo, furono protagonisti dei primi attentati terroristici che avrebbero poi caratterizzato la storia della Repubblica con l’eversione di destra. Il mito della resistenza nera era alimentato dall’invenzione del giovane ufficiale “Scugnizzo”, protagonista di fantomatiche imprese contro gli anglo-americani. I fascisti, poi, cercarono di manipolare le proteste in tutto il Mezzogiorno, quando il governo legittimo chiamò alla leva i meridionali per partecipare alla liberazione. Gli italiani non avevano più voglia di guerra e i fascisti non persero tempo a strumentalizzare la cosa.

  • Pubblicato in News

Libri. ‘L’Italia di Salò 1943 -1945′. Le voci ritrovate della galassia della Rsi

di Renato de Robertis

Idealisti, camice nere ‘22, gentiliani, funzionari di Stato, militari che avevano compreso tutto o capito poco, gente comune, aristocratici anti-americani, giovanotti con il gusto dannunziano dell’azione, uomini e donne che non si riconoscevano in quel sovrano che aveva abbandonato la capitale, uomini realisti alla ricerca di uno stipendio, ausiliare che aiutavano i propri uomini; italiani insomma; solo italiani sicuri o smarriti, perché per loro “si apre un periodo difficile e complesso poiché il governo e la monarchia non hanno fatto granché per preparare concretamente lo sganciamento dall’alleato tedesco.” Poi, venti anni di Stato fascista, bello o brutto, non potevano mica sparire in una lunga sera di luglio. Le scelte da farsi erano tante: da una parte un Badoglio pasticcione, dall’altra un Mussolini stanco. Ma, prima di tutto, gli uomini non riuscivano a bruciare la divisa, non sapevano dimenticare il sangue versato nel deserto o nella steppa ghiacciata.

I ragazzi italiani non accettavano il Si salvi chi può! Come Raimondo Vianello. Il suo colonnello gli disse di scappare in quel 9 settembre del 1943. Nella vita si perde in un attimo; si sta pure dalla parte sbagliata; ma il ragazzo Raimondo non potevano abbandonare la battaglia, “Morti ce ne sono stati da tutte e due le parti, ma chi è andato su, sapeva di finire male. Non va abiurato.” Sono molte le testimonianze storiche ritrovate da “L’Italia di Salò” di Mario Avagliano e Marco Palmieri. Questa ricerca storiografica ha il merito di scavare tra i diari e gli epistolari, tra le relazioni ufficiali dei ministri e le informative delle polizie, tra la corrispondenza censurata e i notiziari della Repubblica sociale. Colpisce il ricorso alle lettere dei soldati: il ricorso alla storia minore che aiuta a comprendere la grande storia. Ed ecco i militari che si arruolarono, come Emanuele Frezza di Barletta che non concepiva il combattere con altri eserciti dopo aver avuto accanto i tedeschi per tre anni. I partigiani comunque capivano la “buffonata di un Re  e d’un Badoglio che, fuggendo, ordinano la resistenza a un popolo che ha in odio le armi. E l’errore madornale dei partiti. Scambiano gli uomini fuggiti per i monti con soldati pronti alla resistenza” lo scriveva il partigiano Claudio Sartori, sul foglio “Il ribelle”.

Il lavoro storiografico di Avagliano e Palmieri sollecita domande: dopo pochi giorni, successivi alla dichiarazione dell’armistizio, perché 94.000 militari italiani rientrano nell’esercito alleato italo-tedesco? Lo storico ha l’occasione per decifrare la complessità nazionale del ’43; la quale realizzava, nel giro di pochi mesi,  un esercito di quasi mezzo milioni di repubblichini. Un esercito che però non era solo un fatto politico, ma rappresentava un evento spontaneo, “Prima dell’8 settembre non mi sono sentito né fascista né antifascista, ho sempre cercato di fare il mio dovere  nel migliore dei modi. Però quel giorno sono cambiato, ti dirò che oltre a sentire il mio amore per la patria tradita mi sono sentito fascista…” lo scriveva un sergente di Lucca alla mamma, alla sua coscienza di italiano.

“L’Italia di Salò” è una raccolta di dati preziosi e di voci perdute. Lo Stato sorto sul lago, dichiarato fantoccio, era però composto di funzionari che, solo pochi mesi prima, avevano lavorato per l’apparato statale monarchico; funzionari meridionali, che, con la guerra tedesca, non avevano nulla in comune, volevano lavorare e poi si ritrovarono a pagare di persona.  In generale, questa ricostruzione  dice che “L’Italia di Salò” è una realtà da decifrare maggiormente, non solamente una realtà riferita da una storiografia politica, la quale non volle approfondire l’analisi sul consenso a quella repubblica nata lungo sponde nebbiose.

Dal 1943 1945, fiducia e sfiducia facevano egualmente male. Soldati sbandavano. I bandi di reclutamento spaventavano, “Sulla carta la chiamata riguarda circa 186.000 uomini… ma se ne presentano 87.000”, perché gli americani avanzavano, la guerra stava finendo, la gestione del reclutamento era difficile per le quattro divisioni repubblichine organizzate in pochi mesi. Allora, il capitano degli alpini Eugenio Bonardi testimoniava alla famiglia, “Non pensavamo più che avremmo vinto la guerra, ma consideravamo doveroso di vender cara la pelle e di ridare il senso dell’onore all’esercito italiano così duramente vilipeso.”

Gli italiani di quel triennio parlano in questa ricerca storiografica fatta bene. E ci sono le voci guascone dei veterani di Spagna. Le parole dei funzionari imborghesiti del Ministero dell’Interno. Con le reclute che bussavano alle caserme, però “né alloggi, né coperte” erano stati approntati e “il vitto sarebbe stato completamente insufficiente.” Vicende all’ italiana. Naturalmente. Caserme in cui si scopriva la passione dei diciottenni che si arruolavano per una rivolta generazionale contro la monarchia. (Chi fu che scrisse che i ragazzi di Salò anticipavano di tanto il 1968?) Quando scorgevano i giovani della X Mas o della Gnr, gli anziani comunque scrivevano, “I nostri soldati si vedono di nuovo circolare ovunque rispettati e quelli che danno l’esempio sono i giovanissimi  delle ultime classi, di 15 16 17 anni. Ciò vuol dire che il nostro tempo non è andato completamente perduto…” come si legge in una lettera genovese.

Avagliano e Palmieri scrutano nella galassia repubblichina. Guardano pure nell’ anomalia guerriera che fu la Decima Mas, un esercito nell’esercito, una concezione spartana: tutti insieme al rancio, promozioni solo conquistate sul campo, tante polemiche contro il vecchio Graziani. Marò del sud o del nord. Universitari romani che chiedevano di esser chiamati al fronte, pur avendo l’esenzione universitaria; volontari che aderivano, nel 1945, giorni prima della sconfitta; fascisti clandestini in Sicilia, in nome della Rsi, ossia nove studenti guidati da Cataldo Grammatico, detto Dino, tutti personaggi da romanzo alla Buttafuoco. Anime battute, anime bruciate. Esistenzialismo nero, “O si vince o si muore!” scritto da un volontario della Gnr.

Con Mussolini ammazzato, la nostalgia parlava ad una patria morta nel settembre ’43 – come insegnò Renzo de Felice -; ma i giovani repubblichini non volevano mica smettere di parlare; ecco, allora, la voce finale di Giorgio Pisanò, “E avevamo vent’anni. Con la vita davanti per dimostrare a noi stessi e agli altri di che pasta fossimo fatti”, giacché non era più questione di sistemi ideologici ma di pasta, di pelle, di sangue.

Mario Avagliano Marco Palmieri, ‘L’Italia di Salò 1943-1945’, Il Mulino, pagg. 473, euro 28.00

(@barbadilloit, 22 marzo 2017)

Il fascismo e i ragazzi della bella morte

di Generoso Picone

«L'Italia di Salò» è il titolo del libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri (Il Mulino, pagg. 489, euro28) che venerdì alle 18 sarà presentato presso il Circolo della Stampa di Avellino. Con Avagliano interverranno Federica Caprio, Berardino Zoina, Luigi Anzalone e Generoso Picone.

«Noi eravamo quelli là ragazzi alla deriva, le ultime scorie di una mareggiata, delusi, incattiviti, avevamo commesso violenze e soperchierie, posseduti da quella rabbia, quella volontà cattiva di trovare un responsabile su cui sfogare tutte le delusioni, la miseria in cui era precipitata la vita». Nelle parole Carlo Mazzantini, all'ultima pagine del suo romanzo «A cercar la bella morte», c'è il senso profondo, tragico e disperato, della scelta compiuta dalla cosiddetta generazione dei ragazzi di Salò. Lui era uno di questi, diciottenne nel momento dell'armistizio dell'8 settembre 1943 si unì a un battaglione di camicie nere e andò a combattere in Valsesia per essere il 25 aprile 1985 a Milano testimone delle ultime ore della Repubblica sociale italiana catturato, rischiò la fucilazione per poi essere liberato. Nel 1986 pubblicò il racconto della sua esperienza, una autobiografia dai toni dostoevskijani, dove si recupera quello che Italo Calvino nel 1947 aveva fatto dire al suo Kim de «I sentieri dei nidi di ragno»: «Basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell'anima, e ci si trova dall'altra parte». Mazzantini non avrebbe mai ammesso di aver compiuto un passo falso, come il Marco Laudato del «Tiro al piccione» di Giose Rimanelli - altro romanzo del 1945 apprezzato da Calvino, forse una delle prime testimonianze letterarie su quei giorni, al suo autore si deve la dizione «la parte sbagliata» utilizzata nel presentare il testo a Cesare Pavese - si ritrovò consapevole in quella che Giorgio Bocca avrebbe definito «la pentecoste dei diversi», una stagione unica anche se dannata, il girone dantesco con il quale Pier Paolo Pasolini inaugurò nel 1975 la trilogia della morte, «Salò o le 120 giornate di Sodoma» che sarebbe rimasto il suo ultimo film.

Ragazzi alla deriva sono loro i protagonisti de «L'Italia di Salò» di Mario Avagliano e Marco Palmieri, un ulteriore importante tassello nel percorso di ricerca e divulgazione sugli anni del fascismo, delle persecuzioni razziali, della lotta partigiana e della Seconda guerra mondiale. Se ne narra la vicenda collocandoli nella fase cruciale che dall'8 settembre 1943 va fino all'amnistia Azara del 1953, proponendosi di dare voce ai diari e agli epistolari, alle corrispondenze e alle relazioni informative per un' indagine «dal basso» che pur considerando il denso filone storiografico sull'argomento punta a cogliere il merito sostanziale di un'esperienza tanto intensa Chi scelse Salò lo fece non per Benito Mussolini, o almeno non esclusivamente per lui. C'è un'espressione di Mario Gandini, altro reduce della Rsi, sufficientemente eloquente: «Non ci aspettavamo niente, niente proprio, e anche al posto di Mussolini ci fosse stata Greta Garbo sarebbe statolo stesso, voglio dire saremo stati ugualmente in quei campi a sparare».

Ma perché, giusto quando quel mondo stava crollando? Con quale obiettivo giovani e giovanissimi come Dario Fo, Raimondo Vianello, Benito Loreni, Giulio Bedeschi, Ugo Tognazzi, Dante Troisi Giuseppe Berto, Gaetano Tumiati, Mario Sironi, Ardengo Soffici e tanti altri, e solo per rimanere in un ambito di società civile, andarono a cercare la bella morte? La risposta di Avagliano e Palmieri: « La cesura del 25 luglio e quella dell'8settembre 1943 per molti italiani non rappresentarono un taglio netto con il precedente ventennio, bensì una svolta in continuità i cui seguito e la cui naturale conseguenza furono l'adesione e la partecipazione all'esperienza della Rsi, che a sua volta non fu un evento senza propagazioni e conseguenze sulla storia e politica e sociale del dopoguerra». Perché recuperando lo slancio vitalistico del primo fascismo si pensò di mettere da parte il periodo del regime in doppiopetto e così, in una simbolica uccisione dei padri, si immaginò disfidare il destino scommettendo su un futuro prevedibilmente drammatico che però avrebbe lasciato in eredità all'Italia democratica il polo degli esclusi: una sorta di magazzino di segue simulacri del fascismo della celtica assai prossimo al nazismo che avrebbe contribuito a fondare l'Msi come il partito degli esuli in patria, così detto da Marco Tarchi. Esuli al cui vittimismo corrisponderà l'assenza di pietas da parte dei vincitori, con la malcelata ipocrisia di utilizzarli nell'occasione opportuna. Rimarrà il sentimento di una giovinezza bruciata in tragedia, con conseguenze anche buie nella storia nazionale, e soprattutto la sensazione che Avagliano e Palmieri consegnano con grande cura di non aver sciolto ancora del tutto i nodi del sistema democratico italiano.

Editoria, da Avagliano e Palmieri "L'Italia di Salò", la recensione di Askanews

di Simonetta Ramogida

L’Italia teatro di una sanguinosa guerra civile all’indomani dell’annuncio dell’armistizio: nei venti mesi che vanno dall’8 settembre 1943 all’uccisione di Mussolini e alla fine della guerra nell’aprile del 1945, il nostro paese non solo continuò ad essere un campo di battaglia tra eserciti stranieri – gli Alleati che avanzavano da sud e i tedeschi che occupavano il centro-nord – ma diventò anche teatro di una sanguinosa “guerra civile” e “contro i civili”, che vide coinvolti su fronti opposti coloro diedero vita alla Resistenza e coloro che rimasero fedeli al fascismo, aderendo alla Repubblica di Salò.

Restava ancora da scandagliare in profondità lo spettro delle motivazioni che indussero oltre mezzo milione di italiani – uomini e donne, spesso giovanissimi – ad aderire e combattere, in molti casi volontariamente, per la Rsi.

Mario Avagliano e Marco Palmieri, con l’ultimo saggio storico “L’Italia di Salò”. 1943-1945, edito da il Mulino, ripercorrono quella pagina di storia dai risvolti a volta inconfessabili per i tanti italiani che in molte occasioni scelsero di stare dalla parte sbagliata. Mentre, “per una generazione di italiani cresciuta fin dalle aule scolastiche nel mito del duce e forgiata da slogan fideisti, come il famigerato Credere obbedire combattere, l’adesione alla Rsi e l’impegno nella guerra civile in molti casi, fu una conseguenza naturale e ovvia di quel percorso formativo”.

Nel dopoguerra, però, il punto di vista resistenziale è stato oggetto di innumerevoli studi e ricerche e ha rappresentato una narrativa dominante. Al contrario – secondo Avagliano e Palmieri – la vicenda dei tanti italiani che scelsero di combattere dalla parte sbagliata è rimasta a lungo marginale, finendo per rappresentare un vuoto, un autentico tassello mancante nel panorama storiografico e della memoria di quel complesso periodo, che segnò lo spartiacque tra la dittatura fascista e la democrazia.

L’originalità dell’ultimo lavoro dei due autori, che nutrono la passione per la storia e per la ricerca storiografica, è che affronta questa pagina di storia, sulla base delle fonti disponibili, lettere, diari, testamenti ideologici, posta censurata, relazioni sul morale delle truppe e sullo spirito pubblico, notiziari della Gnr, note fiduciarie, carte di polizia e dei servizi segreti, e della memorialistica postuma, scevra dai condizionamenti politici che l’hanno caratterizzata e dalla pregiudiziale politico-ideologico-culturale che ha portato molti testimoni a tenere a lungo nascoste le tracce di un passato inconfessabile.

 

Roma, 31 marzo 2017 (askanews)

I repubblichini del Meridione escono dall'oblio della storia

di Antonella Freno

La Calabria è   al centro della storia della Repubblica sociale italiana, quella meno nota della Repubblica di Salò, che affonda le sue radici anche al di fuori dei suoi incerti confini geografici difesi militarmente dai tedeschi, nell’Italia centro-settentrionale.

E’ una storia avvincente, fatta di sacche di consenso residuo per Mussolini, di operazioni sotto copertura, di agenti segreti inviati dai nazisti e dai fascisti e di organizzazioni clandestine dedite ad attentati e opera di propaganda che vede la  nostra terra uno dei centri di questa guerriglia e di questa sorta di “resistenza nera”.

A raccontare la storia della Repubblica Sociale Italiana, creata da Mussolini dopo essere stato liberato dai tedeschi dalla prigione sul Gran Sasso dove era stato rinchiuso all’indomani della destituzione il 25 luglio 1943, ampliando l’analisi per la prima volta a tutte le sue innumerevole sfaccettature, compreso la poco nota e spesso dimenticata vicenda del fascismo clandestino al sud già liberato dagli Alleati, è l’ultimo documentatissimo libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri, “L’Italia di Salò” edito da Il Mulino,  in distribuzione da pochi giorni.  Già nel passato lo storico Avagliano, membro dell’Irsifar, Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla resistenza si era occupato della storia del Novecento, con particolare riferimento al fascismo, alla RSI, alla persecuzione razziale degli ebrei, dirigendo, con Marco Palmieri, la collana storica Il Filo Spinato.

Attraverso le lettere, i diari, i documenti del tempo, la ricerca racconta i motivi dell’adesione di tanti italiani, oltre mezzo milione solo i militarizzati, più altrettanti iscritti al partito, alla Rsi e la loro partecipazione diretta ai crimini e agli eccidi degli occupanti tedeschi.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre, aderirono alla Rsi diversi calabresi, sotto le armi in altre zone d’Italia e all’estero, prigionieri degli Alleati che rifiutarono di cooperare e internati dei tedeschi che accettarono di arruolarsi, mentre molti altri diedero vita ad organizzazioni clandestine neofasciste dietro le linee Alleate.

Lo fecero per vari motivi: per fedeltà al duce e al fascismo, per amor di patria, per vendicare il presunto tradimento del regime fascista e degli alleati tedeschi, ma anche per opportunismo, carrierismo, imitazione dei compagni o timore di essere fucilati.

Le prime forme di organizzazione del fascismo clandestino in Calabria – come scrivono Avagliano e Palmieri nel capitolo del libro dedicato alla storia poco nota e spesso trascurata del fascismo clandestino al sud – sono legate alla figura del prìncipe Valerio Pignatelli.

 Il volume racconta come ,nel luglio del ‘43 ,Pignatelli viene incaricato dal sottosegretario di Salò Barracu di organizzare un corpo di volontari chiamato Guardie ai Labari, incaricato di azioni di guerriglia e sabotaggio nei territori occupati dagli Alleati, di «raccogliere – come lui stesso ha riferito in seguito – elementi fascisti e, in caso di sbarco Alleati, svolgere con essi azioni da franco tiratori, fiancheggiando le truppe regolari, specie alle spalle e sulle linee di comunicazione del nemico.

Preparare perciò le basi in Aspromonte, nelle Serre e, in ultimo, in Sila». Tale progetto subisce uno stop per via della caduta del regime, ma a metà settembre, dopo la liberazione di Mussolini, Pignatelli si reca in Calabria per organizzare la struttura clandestina. Lo accompagna la moglie Maria De Seta, figlia dell’ammiraglio Francesco Elia e sua attiva collaboratrice.

Pigna, come lo chiamano i suoi uomini, stabilisce la base a Cosenza e trova subito l’appoggio di diversi notabili e possidenti locali e dei loro giovani rampolli. Vi rimane fino a metà dicembre quando si trasferisce a Napoli. La sua organizzazione, inoltre, è collegata con gli altri gruppi clandestini fascisti in Calabria, impegnati in azioni di sabotaggio e di preparazione della guerriglia sulle montagne della Sila, raccogliendo armi e vettovaglie. Uno dei loro leader è l’avvocato Luigi Filosa, futuro parlamentare del Msi, ex federale di Cosenza, attorno al quale gravitano molti giovani, ma anche personaggi del passato regime, ex squadristi e dirigenti delle province di Catanzaro e Cosenza.

I fascisti calabresi organizzano ben 18 tra attentati dinamitardi, lanci di bombe a mano e altre azioni di carattere intimidatorio.

Un rapporto del Sim datato 21 ottobre 1944, indirizzato al procuratore del tribunale di Napoli, fa riferimento a ben 215 persone denunciate, riconducibili a un gruppo avente come scopo quello di «ricostituire il Partito fascista, a sfondo anticomunista, procurarsi armi, munizioni e fondi per lo sviluppo dell’organizzazione».

Particolarmente bellicosa è l’azione del gruppo di Nicastro, composto da alcuni studenti delle scuole superiori.

Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre 1943, in occasione dell’anniversario della marcia su Roma, nel paese vengono lanciate bombe a mano e fatti esplodere tubi di gelatina, oltre alla diffusione di volantini.

Un mese più tardi vengono fatti esplodere due ordigni alle porte delle tipografie che stampano i giornali antifascisti Era Nuova e Nuova Calabria. All’inizio di dicembre sono colpite l’abitazione dell’antifascista Marcello Nicotera e la caserma dei carabinieri.

Nel crotonese, invece, viene segnalato un trasporto clandestino di bombe a mano che porta al rinvenimento di un deposito di armi da guerra in un casolare di proprietà del marchese Gaetano Morelli, maggiore in congedo.

Quest’ultimo, arrestato con altri membri dell’organizzazione, confessa di far parte di un movimento fascista da lui stesso finanziato, guidato dall’avvocato ed ex federale di Cosenza Luigi Filosa, intento a ritardare l’avanzata delle truppe alleate e stabilire contatti con la Rsi.

Successivamente altri elementi dell’organizzazione, interrogati nel processo, ammettono «di essersi riuniti per raccogliere fondi, procurarsi armi e munizioni in tutte le maniere, aiutare i tedeschi e gli italiani nell’Italia repubblicana e favorire il loro arrivo nelle province occupate dagli inglesi e collaborare con loro per scacciare definitivamente le truppe anglo-americane dal suolo d’Italia».

Filosa invece fugge a Bari, dove progetta di passare nel territorio della Rsi, ma viene arrestato il 16 maggio 1944.

Il processo presso il Tribunale militare territoriale di Catanzaro vede alla sbarra 88 imputati e si conclude con sentenze di condanne tra i 2 e i 10 anni di reclusione. Subito dopo la chiusura del cosiddetto processo degli ottantotto, anche il principe Pignatelli viene condannato a 12 anni di reclusione da scontare nel penitenziario dell’isola di Procida, ma anche la sua, come gran parte delle condanne, finirà cancellata dalle amnistie del dopoguerra. I movimenti del fascismo clandestino, inoltre, si saldano anche con l’ondata di protesta popolare contro i richiami alla leva del Regno del Sud, che divampano in tutto il sud.

Ne emerge un saggio che narra pagine di storia italiana e calabrese davvero misconosciute e che per la prima volta getta uno sguardo “allargato” alla vicenda della Repubblica di Salò che non si limita solo alle regioni militarmente occupate ma che – come dice il titolo – guarda in modo ampio ed esaustivo all’Italia di Salò in tutte le sue componenti.

(versione leggermente più sintetica pubblicata sulla Gazzetta del Sud del 30 marzo 2017)

 

Sottoscrivi questo feed RSS