Fascismo. La rimozione delle colpe

di Mario Avagliano

Disquisendo della memoria della seconda guerra mondiale, lo storico inglese Tony Judt parla di “eredità maledetta”. Per lo scontro di civiltà che incarnò quel conflitto globale e per le sue truculente appendici (la Shoah, le deportazioni, la bomba atomica). Ma anche per il racconto mitizzato di quelle vicende. Con la (comoda) attribuzione alla Germania nazista di tutte le responsabilità e la presunzione di innocenza degli altri. Compreso chi, come l’Italia, vantava la primogenitura mondiale del fascismo e aveva collaborato strettamente con Hitler e i suoi atroci crimini.

A distanza di settant’anni da quei fatti, il nostro Paese non si è ancora liberato di quell’ “eredità maledetta”. E la visione autoassolutoria, con il corollario dello stereotipo de Il cattivo tedesco e il bravo italiano, come titola il saggio di Filippo Focardi (Editori Laterza, pp. 288, euro 24), resiste nell’immaginario collettivo.Per dirla altrimenti, ampi settori dell’opinione pubblica italiana condividono il giudizio buonista su Benito Mussolini formulato da Silvio Berlusconi il 27 gennaio scorso (salvo rettifiche serali). Bastava ascoltare ieri mattina le telefonate di consenso di molti ascoltatori alle parole dell’ex premier, nel corso della trasmissione condotta da Platinette su Radio Montecarlo.

E infatti “il mito del bravo italiano”, analizzato da David Bidussa già nel 1994, ha viaggiato (e viaggia) di pari passo con l’idea che il fascismo sia stata una dittatura all’acqua di rose, tenera verso gli oppositori e gli ebrei, i cui unici errori furono le leggi razziali e l’ingresso in guerra, e solo per compiacere l’alleato Hitler.
Così, alla figura esecrabile del “cattivo tedesco”, barbaro, imbevuto di ideologia razzista e pronto ad eseguire gli ordini con brutalità, è stata contrapposta quella del “bravo italiano”, pacifista, non antisemita, generoso anche quando veste i panni dell’occupante, prodigandosi nel salvataggio degli ebrei e nel soccorso dei civili. Tacendo, minimizzando o negando il coinvolgimento del popolo italiano nel fascismo e le responsabilità del paese nelle guerre fasciste e nei suoi numerosi crimini.
Quando questa narrazione assurge ad architrave della memoria pubblica nazionale? Focardi ritiene che le sue fondamenta siano state poste già fra l’armistizio del settembre 1943 e il 1947, quale strategia condivisa di un fronte composto dai partiti antifascisti, dal re e dal governo Badoglio, che utilizzarono la differenza tra Italia e Germania (e il contributo della Resistenza alla liberazione) “ai fini di autolegittimazione politica, di mobilitazione bellica e soprattutto di salvaguardia degli interessi nazionali”, per evitare una pace punitiva nei confronti del nostro Paese.
La mancanza di una “Norimberga italiana”, cioè il fallimento della prevista azione penale contro i circa 850 presunti criminali di guerra italiani individuati dalle Nazioni Unite, e l’amnistia per i reati politici (compreso il collaborazionismo con i tedeschi) concessa nel 1946 dal ministro della Giustizia Palmiro Togliatti, segretario del partito comunista, con il conseguente stop al processo di epurazione, completarono l’opera di rimozione.
Questa rappresentazione dei fatti è stata alimentata nei decenni successivi a livello storiografico, attraverso i giudizi autoassolutori di Renzo De Felice (celebre l’intervista del 1987 a Giuliano Ferrara, sul Corriere della Sera, in cui affermava che “il fascismo italiano è fuori dal cono d'ombra dell'Olocausto”) e di altri saggisti di fama, come Indro Montanelli e Arrigo Petacco. Ma ha trovato una sponda – come ci racconta Focardi – anche “sul piano della cultura popolare e di massa legata ai rotocalchi, al cinema, alla televisione e alle canzoni”. Fino al recente film Mediterraneo di Gabriele Salvatores, premio Oscar del 1992.
Intendiamoci, il mito del bravo italiano ha un suo nucleo di verità. Ci sono stati diversi Giusti italiani, che hanno salvato centinaia di ebrei dalle deportazioni, e nelle zone di occupazione spesso (anche se non sempre) le nostre truppe hanno trattato con umanità gli ebrei perseguitati, a volte rifiutandosi di consegnarli ai tedeschi. “Ma il confronto con la malvagità tedesca – spiega Focardi – ha funzionato, volutamente o no, come un perfetto alibi, permettendo di rinviare una riflessione pubblica sulla violenza fascista nel suo complesso: le politiche razziste e antisemite, i progetti espansionistici, le occupazioni militari, le repressioni e i crimini di guerra”. A differenza, ad esempio, di quanto si è fatto in Francia.
Negli ultimi anni la storiografia ha compiuto molti passi avanti nel colmare le lacune di conoscenza sul regime fascista e le sue guerre, alzando il velo su aspetti taciuti e rimossi, dalle responsabilità autonome dell’Italia nelle leggi razziali fino all’uso dei gas chimici in Etiopia e alle violenze dei militari italiani in Russia e nei Balcani. Ma i risultati di queste ricerche hanno prodotto, come rileva Focardi, “solo flebili effetti sull’opinione pubblica, toccata alla superficie”. E gli stessi manuali scolastici di storia ignorano il tema o lo trattano con sufficienza.
Manca ancora una riflessione collettiva nazionale sul fascismo e sulle responsabilità e le colpe italiane. I tedeschi continuano ad essere “una grande risorsa per la tranquillità della nostra coscienza”, come temeva Vittorio Foa. E c’è chi, come il comune di Affile, innalza addirittura mausolei a un criminale di guerra (il maresciallo Rodolfo Graziani). Nell’aprile 2002 l’ex presidente tedesco Joannes Rau si recò assieme al presidente Ciampi alle commemorazioni della strage di Marzabotto. A quando, si chiede Focardi, una visita ufficiale italiana all’isola di Raab in Croazia, sede di un famigerato campo di concentramento italiano per slavi, o a Debrà Libanòs in Etiopia, dove le nostre truppe fucilarono circa 2000 persone?

(Il Messaggero, 29 gennaio 2013)

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Storie – Salvare dal macero “Il nazismo e i lager”

di Mario Avagliano

Salvare dal macero un libro può essere un'operazione intelligente di Memoria. Tanto più se quel volume è "Il nazismo e i Lager" di Vittorio Emanuele Giuntella, l'opera di un grande storico che conobbe l’esperienza concentrazionaria come internato militare (la legge istitutiva del Giorno della Memoria, com’è noto, riguarda non solo la Shoah, ma anche i deportati politici e gli internati militari). Tra le tante iniziative in corso in tutta Italia, voglio quindi segnalare per la sua originalità quella promossa dal Museo Storico della Liberazione di via Tasso e dal suo battagliero presidente Antonio Parisella. Quello stesso Museo sulle cui mura, il 27 gennaio scorso, alcuni neofascisti hanno scritto ignobili frasi negazioniste, del tipo “Shoah, solo falsità e menzogne” e “Israele boia” (detto per inciso, al solito, nessuna traccia è stata finora trovata dei responsabili).

L’obiettivo è quello di salvare le ultime 1000 copie del libro di Giuntella, "condannate" alla distruzione dal distributore. Un saggio che, secondo Parisella, “costituisce uno dei classici della letteratura concentrazionaria, come ‘I sommersi e i salvati’ di Primo Levi. La prima e fondamentale messa a fuoco di tutte le implicazioni politiche e sociali - dentro e fuori i Lager - dell'organizzazione della persecuzione e dello sterminio. Come per Primo Levi, il Lager emerge pienamente come il luogo dove - con maggiore efferatezza e concentrazione di violenza - il nazismo realizzava il suo modello di organizzazione sociale che intendeva costruire fuori dei Lager ovunque in Europa”.
Quest'anno ricorre il centenario della nascita di Vittorio Emanuele Giuntella e il Museo, non essendo abilitato ad operazioni commerciali, grazie al contributo di alcuni amici ha deciso di fare omaggio di copie del volume a coloro che faranno - nella sede di via Tasso - una sottoscrizione minima di 15 € (prezzo di copertina 24 €).
L’iniziativa ha avuto un grande successo e il 26 e il 27 gennaio le copie a disposizione del Museo sono andate esaurite. Presto ne arriveranno altre. Intanto Parisella rivolge “un appello a biblioteche, istituti, musei, scuole, associazioni perché - nei prossimi mesi - promuovano analoghe iniziative per far conoscere il libro e diffonderlo”.

(L'Unione Informa, 30 gennaio 2013)

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Paronetto, l'uomo chiave della costituzione economica dell'Italia libera

di Mario Avagliano

Consigliere ascoltato e amico di Alcide De Gasperi e di Giovanni Battista Montini (futuro papa Paolo VI); ghost-writer di Pio XII in materia economica e sociale; allievo prediletto di Donato Menichella; amico inseparabile di Ezio Vanoni e di Pasquale Saraceno; riferimento del giovane Guido Carli all’IRI e dopo; consulente economico di Giovanni Gronchi ministro dell’industria; ispiratore di numerosi futuri componenti dell’assemblea costituente, a cominciare da Giorgio La Pira; collaboratore della Resistenza e del Fronte militare clandestino di Montezemolo. Questo e altro è stato Sergio Paronetto (1911-1945), economista e manager IRI, morto a soli 34 anni, tra il 1940 e il 1945 uno dei protagonisti nell’opera di prefigurazione dell’Italia della Repubblica, esercitando una determinante influenza sui cinque grandi “ricostruttori” del Paese: Alcide De Gasperi, Giovanni Battista Montini, Ezio Vanoni, Donato Menichella, Luigi Einaudi. Alla sua figura, ancora poco conosciuta, è dedicato il libro Sergio Paronetto e il formarsi della costituzione economica italiana (Rubbettino, 2012, pp. 550), a cura di Stefano Baietti e Giovanni Farese, che ha il grande merito di sottrarlo al "cono d'ombra" storiografico nel quale finora era stato oscurato.

Il contributo di Paronetto è riconoscibile nel processo di modernizzazione nella continuità che getta un ponte tra la ricostruzione industriale degli anni Trenta e la ricostruzione del Paese negli anni Quaranta. Da lui originano i suggerimenti più penetranti per l’interpretazione della libertà economica e della democrazia economica come essenziali per la libertà e per la democrazia e per misure quali il mantenimento della legge bancaria del 1936; la conservazione dell’IRI e del sistema dell’azionariato di Stato, che avrebbe trovato pochi anni dopo l’auspicata espansione con l’ENI di Vanoni e Boldrini (e Mattei); la programmazione economica, che ha il suo punto più alto nello Schema Vanoni; la genesi del Piano per il Mezzogiorno (con la legge del 1950 scritta da Menichella e Vanoni); la concezione redistributiva del sistema tributario, condivisa con Ezio Vanoni e oggetto della legge del 1951; il sistema di welfare totale; la definizione di un ruolo per i corpi sociali intermedi, in particolare i sindacati, condivisa con l’amico Giulio Pastore; la messa in valore nel dopoguerra dei tanti piani giacenti nei cassetti degli enti fondati o governati da Alberto Beneduce (tra cui il piano Inacasa, il piano autostradale); la costituzione economica italiana attraverso la partecipazione attiva ai documenti che a essa sono propedeutici, quali le Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi e il Codice di Camaldoli.
Nel libro, mettendo al centro i fatti, le teorie, le istituzioni e gli uomini che gravitano attorno alla figura di Paronetto (Alberto Asquini, Enrico Cuccia, Alfredo De Gregorio, Francesco Giordani, Guido Gonella, Giovanni Gronchi, Raffaele Mattioli, oltre a quelli già citati), il fascio di luce sulla “stagione della politica economica” in cui prende forma la via italiana allo sviluppo e la più grande esperienza occidentale di partecipazione dello Stato al capitale delle imprese, assume una nuova riconoscibilità nel cui ambito la componente “cromatica” dell’apporto paronettiano è dominante almeno fino alla seconda metà degli anni Cinquanta.
Abbeveratosi negli anni Trenta a due fonti primarie – nella FUCI con Giovanni Battista Montini e nell’IRI con Donato Menichella –, Sergio Paronetto, è l’anima della rivista “Studium”, cui conferisce valenza e importanza enciclopedica, e dell’omonima casa editrice, e tra il 1940 e il 1945, anno della morte, dà un contributo fondamentale all’elaborazione di una forma per l’economia italiana del dopoguerra, esercitando una forte influenza, fin qui misconosciuta e dimenticata, su Alcide De Gasperi e su molti costituenti. Ben noto a Meuccio Ruini e al suo giovane capo della segreteria tecnica Federico Caffè, e da loro apprezzatissimo, Paronetto difende la necessità del piano quale strumento nel quale si indirizzano sapientemente e proficuamente le scelte di politica economica: responsabilità dello Stato, tuttavia, non passibile di essere un prodotto della burocrazia. La sua eredità in merito verrà proseguita dai fraterni amici e sodali Pasquale Saraceno ed Ezio Vanoni.
Non c’è solo il pensiero, ma anche l’azione (Ascetica dell’uomo d’azione è il titolo delle sue brevi memorie postume, con prefazione di Giovanni Battista Montini). Dopo l’8 settembre 1943, nominato vice direttore generale dell’IRI, collabora con il Fronte militare clandestino di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo e si spende contribuendo a salvare una parte rilevante del patrimonio industriale del Paese secondo le linee del Piano Menichella-Malvezzi, di cui è il garante presso l’Ufficio di Roma dell’IRI, la cui sede è stata trasferita al Nord, e fornendo ai partigiani basi logistiche nei compendi dell’IRI. Contemporaneamente, offre rifugio in casa sua a quanti lottano contro l’occupazione tedesca, correndo gravi rischi.
Al cuore del pensiero e dell’azione di Paronetto sta l’idea che non c’è libertà senza giustizia sociale (dove c’è povertà, non c’è giustizia, non c’è libertà), e che non c’è spazio possibile per la giustizia sociale senza sapiente gestione, sotto il profilo morale e il profilo tecnico, dell’economia, anzitutto dell’economia pubblica. In ciò, pur rispettando l’autonomia di ciascuna disciplina, rompe gli argini disciplinari: economia e società; economia e diritto; economia e statistica; economia e storia.
In quel periodo il giovane economista rompe anche gli argini che separano le tante cerchie chiuse del Paese: cattolici democratici (per Paronetto passa la strada che va da De Gasperi ai Laureati Cattolici e da Montini a Vanoni), comunisti (per Paronetto passa la strada che va da Rodano a Togliatti), liberali (per Paronetto passa la strada che va da Carli a Einaudi; nonché le strade incrociate: da Mattioli a Togliatti, da De Gasperi a Menichella, da De Gasperi a Mattioli).
Si trova durante la guerra, senza averne coltivato l’ambizione, al centro della raggiera che collega la linea dei cinque grandi “ricostruttori” (De Gasperi, Einaudi, Menichella, Montini, Vanoni) e la schiera di valorosi tecnici e politici chiamati, in Italia e all’estero, come ministri e non, a dare pratico corso alla ricostruzione (Andreotti, Boldrini, Campilli, Carli, Cuccia, Fanfani, Ferrari Aggradi, Giordani, Gonella, Gronchi, La Pira, Malagodi, Mattioli, Moro, Pastore, Saraceno, Taviani, Vito).
Paronetto vivo, riceve il pressante invito di De Gasperi a non fargli mancare mai il contributo della “sua coscienza illuminata della realtà” (Andreotti testimonia come Paronetto sia stato il consigliere economico in assoluto più stimato e ascoltato da De Gasperi); Paronetto morto, riceve il tributo di Vanoni, che ne scrive chiamandolo suo “maestro”, e di Menichella, che lo definisce “il più intelligente, preparato e amato tra i miei collaboratori”.

ARGOMENTO DEL LIBRO
Il volume ospita le riflessioni di ben sette ex ministri - Piero Barucci, Sabino Cassese, Francesco Forte, Giorgio La Malfa, Adriano Ossicini, Paolo Savona, Vincenzo Scotti -, di un governatore emerito della Banca d'Italia, Antonio Fazio, di un ex Presidente del CNEL, Giuseppe De Rita, di un ex direttore generale dell'Enciclopedia Treccani, Vincenzo Cappelletti, di un ex capoazienda nel Gruppo IRI ed ex direttore del dipartimento di Diritto privato e comunitario dell’Università di Roma Sapienza, Felice Santonastaso. Completano la squadra studiosi di storia economica, anche delle nuove leve (S. Baietti, S. Bocchetta, L. D’Antone, N. De Ianni, G. Di Taranto, G. Farese, F. Felice, M. Serio, T. Torresi). Pregnante è la testimonianza di Maria Luisa Valier Paronetto, la moglie di Sergio Paronetto, autrice della unica biografia sinora pubblicata (per i tipi di Studium) sulla figura dell’economista valtellinese. La materia generale è la storia economica italiana, in specie quella bancaria, finanziaria e industriale, con saggi riguardanti i fatti, le teorie, gli istituti e gli uomini intrinseci al mondo economico del periodo compreso tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, quali Alberto Asquini, Alberto Beneduce, Guido Carli, Enrico Cuccia, Alfredo De Gregorio, Francesco Giordani, Raffaele Mattioli, Donato Menichella, Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni.
Tutto è letto attraverso la vicenda del protagonista cui è dedicata l'attenzione degli autori: Sergio Paronetto (1911-1945), economista di impresa e giovane vicedirettore generale dell'IRI, morto a soli 34 anni, uno degli estensori della legge bancaria del 1936 con Alberto Beneduce e Donato Menichella, incaricato da Giovanni Battista Montini, e anche da Alcide De Gasperi, che aveva già utilizzato l’amico valtellinese per Le Idee Ricostruttive, di pensare quello che diverrà nel 1943 il Codice di Camaldoli (riprodotto in Appendice al volume), destinato a essere la base dalla quale i costituenti trarranno in gran parte i lineamenti della costituzione economica.
Nella sua riflessione sull’economia e lo Stato non si ha traccia di una ideologia di partito o di integralismo religioso, anche se egli è stato, oltre che economista d’impresa e manager industriale, animatore della Fuci e del Movimento Laureati Cattolici, stretto amico e sodale di Giovanni Battista Montini, poi papa Paolo VI, e di Igino Righetti e con questi co-fondatore dello stesso Movimento Laureati. Editore della rivista “Studium”, gran parte dei suoi scritti sono concentrati nelle pagine di questa testata, su “Azione fucina” e nelle relazioni ufficiali dell'IRI, di cui Sergio Paronetto era sistematicamente il primo estensore.

I CURATORI

STEFANO BAIETTI, dirigente dell'Anas, dopo esserlo stato nel Gruppo IRI e in una controllata delle Ferrovie dello Stato, ha approfondito la storia della spesa pubblica nei sistemi infrastrutturali e la storia degli enti in cui ha prestato la sua opera. Con Giovanni Farese è autore di Sergio Paronetto and the Italian Economy between the Industrial Reconstruction of the Thirties and the Reconstruction of the Country in the Forties (in "The Journal of European Economic History", 2010) e della voce biografica Sergio Paronetto (1911-1945), economista e manager industriale (in “Enciclopedia della Banca, della Borsa, della Finanza”, 2011). È promotore della giornata di studi Sergio Paronetto.

GIOVANNI FARESE insegna Storia e teoria dello sviluppo economico nella LUISS "Guido Carli". Ricercatore nell'Università Europea di Roma, è Managing Editor di "The Journal of European Economic History", rivista distribuita in circa 90 Paesi. È autore del volume L'Imi di Azzolini e il governo dell'economia negli anni Trenta (Napoli, 2009) e ha curato, per Rubbettino, la pubblicazione del diario inedito di Giovanni Malagodi, Aprire l'Italia all'aria d'Europa. Il diario europeo, 1950-1951 (2011). È Aspen Junior Fellow dell'Aspen Institute Italia, socio della Società Italiana degli Storici Economici e della Società Italiana degli Economisti. È promotore della giornata di studi Sergio Paronetto.

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Storie - Il cattivo tedesco e il bravo italiano

di Mario Avagliano

Il nostro Paese fatica a liberarsi dal mito del fascismo buono e del “bravo italiano”. Al di là delle esternazioni dell’ex premier Silvio Berlusconi (convinto peraltro di interpretare il pensiero della maggioranza), quel macigno del passato, che fu analizzato da David Bidussa già nel 1994, continua ad essere il punto di vista di milioni di italiani, dando linfa vitale tra l’altro ai movimenti che si richiamano a quei valori.
L’idea che il fascismo sia stata una dittatura da “operetta”, i cui unici errori furono le leggi razziali e la partecipazione alla guerra, commessi peraltro solo per compiacere l’alleato Hitler, è molto più diffusa di quanto si pensi.
Lo ha ribadito lo storico Fililppo Focardi in un saggio uscito lo scorso mese e intitolato “Il cattivo tedesco e il bravo italiano” (Editori Laterza).

La narrazione nazionale della memoria, osserva Focardi, contrappone il “cattivo tedesco”, violento, antisemita, brutale, al “bravo italiano”, generoso, pronto a prodigarsi nel salvataggio degli ebrei e nel soccorso dei civili. Tacendo, minimizzando o negando il coinvolgimento del popolo italiano nel fascismo e nella persecuzione razziale e le responsabilità del paese nelle guerre fasciste e nei suoi numerosi crimini.
Negli ultimi anni la storiografia ha alzato il velo su diversi aspetti taciuti e rimossi, dalle responsabilità autonome dell’Italia nelle leggi razziali fino all’uso dei gas chimici in Etiopia e alle violenze dei militari italiani in Russia e nei Balcani. Ma i risultati di queste ricerche hanno prodotto, come rileva Focardi, “solo flebili effetti sull’opinione pubblica, toccata alla superficie”. E gli stessi manuali scolastici di storia ignorano il tema o lo trattano con sufficienza.
Manca ancora una riflessione collettiva nazionale sul fascismo e sulle responsabilità e le colpe italiane. Il 17 novembre di quest’anno ricorre il 75° anniversario delle leggi razziali. Può essere l’occasione giusta?

(L'Unione Informa, 5 febbraio 2013)

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Storie – “Parole trasparenti” sull’Italia razzista

di Mario Avagliano

In tema di persecuzione degli ebrei, tra i diversi modi per raccogliere l’invito di David Bidussa a dare più spazio alla storia rispetto alla memoria, c’è il ritorno ai documenti. E quali migliore viatico delle lettere e dei diari? Ne costituisce un mirabile esempio il nuovo libro della collana Storie Italiane del Mulino, Parole Trasparenti. Diari e lettere 1939-1945, che racconta la storia appassionante e a tratti tenera di due sposini ebrei, il triestino Ettore Finzi e la parmigiana Adelina Foà, che decidono, nell’Italia dell’aprile 1939, di imbarcarsi a Genova, con la scusa del viaggio di nozze, e di raggiungere la Palestina per sfuggire alle persecuzioni razziali. L’epistolario è stato curato dal figlio Daniele Finzi e ha vinto, nel 2011, la 27esima edizione del Premio dei Diari di Pieve Santo Stefano.

Le vicende che si susseguono da quell’anno fino al 1945 vengono ricostruite attraverso la corrispondenza fra i due coniugi e i brani dei loro diari. Adelina, avvocato in un prestigioso studio legale di Milano, vivrà per un lungo periodo sola a Tel Aviv con due figli piccolissimi, Anna e Daniele, adattandosi ad impieghi modesti per sopravvivere. Suo marito Ettore, chimico industriale, trova lavoro ad Abadan in Persia, alle dipendenze della Anglo Iranian Oil Company.
Tra loro ci sono migliaia e migliaia di chilometri, ma i due giovani per sentirsi più vicini si scrivono ogni giorno raccontandosi la quotidianità, la disperazione per aver lasciato l’Italia “più per lo schifo che sentivo al calcare quel suolo che per un imminente pericolo”, confidandosi la consapevolezza che la maggior parte dei loro amici non ebrei non aveva compreso “cosa volesse significare per l’eternità, per la storia che l’Italia era diventata un paese razzista” e i timori per i parenti rimasti lì ed esposti ai pericoli della guerra e della deportazione.
Ma non è solo la storia di una nostalgia e di un abbandono, è anche la cronaca dal vivo di un nuovo Stato che tra mille difficoltà sta nascendo, in Palestina, dove “in un terra in sommossa, senza un governo suo, senza un futuro certo e prevedibile, senza un sicuro lavoro e con altre mille incertezze, ci si sente molto, ma molto più liberi che in Italia”.
E scrivendo scrivendo, il 2 novembre 1944 Adelina si rende conto di dell’eccezionalità del momento storico e chiede al marito: “Cosa fai delle mie lettere? Se le tieni come faccio io avremo alla fine un diario abbastanza completo di questo periodo della nostra vita”. Ettore le risponde: “Io conservo la tua ultima (…) come tutte le altre. Tu salva anche le mie e così avremo alla fine il nostro libro”.
Il momento più straziante è quello del 3 agosto 1945, quando dal Consolato italiano arriverà la “desolante notizia” della morte dei genitori di Ettore nell’inferno di Auschwitz.
Al termine della guerra, la famiglia Finzi tornerà in Italia. Le infami leggi razziali sono state abrogate, la persecuzione è finita ma tanti amici e parenti non ci sono più. Restano le lettere e diari di Ettore e Adelina, straordinaria testimonianza che “questo è stato”.

(L'Unione Informa, 12 febbraio 2013)

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Storie – Artisti, dissidenti ed ebrei in fuga dai nazisti in Francia

di Mario Avagliano

«Nell’agosto del 1940 lasciai New York per una missione segreta in Francia, una missione che molti dei miei amici consideravano pericolosa. Partii con le tasche piene di elenchi di uomini e donne che dovevo soccorrere e con la testa piena di suggerimenti su come farlo».

Quell’estate gli Usa non erano ancora entrati in guerra ma «un gruppo di cittadini americani, convinti che i democratici dovessero aiutare i democratici, senza badare alla nazionalità, creò subito l’Emergency Rescue Committee», con l’obiettivo di far espatriare il maggior numero di esuli europei - artisti, intellettuali, antifascisti, antinazisti, ebrei - che avevano trovato rifugio in Francia e che erano ricercati dalle polizie segrete italiane, tedesche e spagnole (Gestapo, Ovra e Seguridad) e dalla stessa Francia filonazista di Vichy, che una volta arrestati, spesso li consegnava direttamente alla Germania.
L’agente al quale viene affidata questa gigantesca operazione di salvataggio è un giovane giornalista liberal, Varian Fry, che viene mandato a Marsiglia, in Costa Azzurra. L’elegante e ostinato Fry, in appena tredici mesi, mette in piedi una rete clandestina, coinvolgendo una pattuglia di volontari, tra cui la bella ereditiera americana Mary Jayne Gold, e tenendo riunioni nei posti più impensati (dalle toilettes ai postriboli) per sfuggire alle intercettazioni.
Nonostante la ritrosia dei funzionari del consolato statunitense a Marsiglia a rilasciare i visti, Fry riesce, con mezzi legali e illegali, ad ottenere i permessi e ad organizzare la fuga in Usa di centinaia di persone (ne sono stati calcolate più di 1.500), tra cui grandi nomi dell'arte, della scienza e della cultura, quali Marcel Duchamp, André Breton, Marc Chagall, Max Ernst, Arthur Koestler, Hannah Arendt.
La sua azione febbrile in favore dei rifugiati non passa inosservata. A settembre 1941 Fry è costretto a lasciare l’Europa: la polizia di Vichy lo ha espulso dalla Francia e il consolato americano non gli ha rinnovato il passaporto. Tornato in Usa, scrive di getto il racconto delle sua esperienza e, non senza difficoltà, lo pubblica, poiché contiene aspre critiche all’atteggiamento degli Stati Uniti verso gli esuli.
Ora le sue memorie escono per la prima volta in Italia, per i tipi della Sellerio (Varian Fry, «Consegna su richiesta. Marsiglia 1940-1941. Artisti, dissidenti ed ebrei in fuga dai nazisti»).
Solo trent’anni dopo la sua morte, Varian Fry è stato riconosciuto come uno dei Giusti tra le nazioni, primo cittadino americano a comparire nella lista, e nel 1998 ha ricevuto la cittadinanza onoraria dello Stato di Israele. Dalla vicenda narrata nel suo libro è stato tratto il film Varian’s War, con William Hurt e Julia Ormond.

(L'Unione Informa, 19 febbraio 2013)

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Quel Fuhrer con una faccia da spot

di Mario Avagliano

Hitler simil-bambino, dipinto dall’estroso artista padovano Maurizio Cattelan in ginocchio e quasi in lacrime nel Ghetto di Varsavia ed esposto al pubblico col titolo “Him” (Lui) proprio nel quartiere della capitale polacca in cui molti ebrei furono uccisi o deportati nei campi di concentramento. Hitler testimonial di uno shampoo venduto in Turchia con lo slogan “per maschi al 100 per cento”. Hitler a cartoni animati, con un’acconciatura color ciliegia o in costume da panda e bracciale con la svastica, che spopola sulle magliette e sui muri di Bangkok, in Thailandia.
E ancora: Hitler miagolante, riprodotto in uno strano incrocio di gatti dal manto bianco, i Kitler, con macchie nere che rimandano ai baffi ed alla pettinatura del dittatore tedesco. Hitler scrittore best-seller in diversi paesi arabi, in funzione anti-Israele, con il suo manifesto razzista Mein Kampf.
C’era una volta il Male assoluto. Oggi Adolf Hitler non è più un tabù. E la sua immagine, il suo profilo, addirittura i suoi slogan deliranti e i suoi simboli minacciosi vengono utilizzati indifferentemente per motivi di marketing, per pubblicizzare prodotti di largo consumo, per ragioni di politica internazionale oppure col pretesto dell’arte, del cinema e della letteratura.
Insomma, Hitler Er Ist Wieder, vale a dire "È tornato", come titola il provocatorio romanzo dello scrittore esordiente Timur Vermes, pubblicato in Germania lo scorso anno con una copertina tutta bianca, ornata solo dalla celebre frangia nera del Führer. Un libro che in pochi mesi è schizzato a sorpresa in cima alle classifiche tedesche, è in via di pubblicazione in inglese, in francese e altre quindici lingue (in Italia per Bompiani) e presto forse sarà anche oggetto di una versione cinematografica.

Vermes ha immaginato un redivivo Hitler che si sveglia a Berlino, nella Germania di Angela Merkel, nell’estate del 2011, dopo un letargo durato 66 anni. Scambiato per un imitatore di mezza età che fa la caricatura del dittatore, partecipa a uno show televisivo di un turco-tedesco e grazie ai suoi tic, alle sue pose e ai suoi monologhi fuoco-e-fiamme, che scatenano grande ilarità nel pubblico, diventa una star della tv e del web. Su YouTube i post dei suoi video, in cui racconta barzellette politically-incorrect (proprio come faceva in privato, nella realtà storica), vengono cliccati da milioni di persone.
Si ride, ma a denti stretti, in quanto nella finzione del romanzo, dopo il trionfo come comico e show-man, Hitler torna alla politica. E la sua ricetta populista, da “eroe” dell’antipolitica (nel suo programma s’impegna, tra le altre cose, a combattere le cacche di cane e l’eccesso di velocità), fa breccia nel cuore dei tedeschi, tra chi è deluso dai partiti, chi ignora la storia e chi fatica a sopravvivere a causa della crisi economica.
La satira su Hitler non è una novità assoluta. Il primo a mettere alla berlina il Führer fu il grande comico ebreo Charlie Chaplin nell’irriverente film Il grande dittatore, uscito nel 1940. «Ridere fa bene, ridere degli aspetti più sinistri della vita e persino della morte», affermò Chaplin.
Tuttavia allora il mondo non conosceva l’orrore della Shoah e dei campi di sterminio. Ecco perché, nonostante la vena ironica dello script, il record di vendite del romanzo di Vermes, che ha superato in classifica gente del calibro di Ken Follet e Paulo Coelho, ha suscitato un acceso dibattito in Germania.
Operazione nostalgia? Il quarantaseienne Timur Vermes nega decisamente. Il suo intento, ha dichiarato alla stampa tedesca, è al contrario quello di spiegare che anche nel mondo di oggi esiste il pericolo di un novello Adolf Hitler, in versione 2.0, che sfrutti in chiave elettorale un mix esplosivo di comicità, internet e populismo.
Secondo il quotidiano Süddeutsche Zeitung, invece, il successo del romanzo Er Ist Wieder si spiega con la «strana ossessione per Hitler» che si è sviluppata negli ultimi tempi in Germania: «Hitler appare regolarmente sulle copertine delle riviste; invade i canali televisivi con una frequenza che ci impedisce di fare zapping senza vederlo alzare il braccio; e nelle riunioni familiari non manca mai una parodia del “Führrerrr” con due dita sotto il naso, garanzia di ilarità. Questa fissazione per Hitler – sulla figura comica o sull’uomo come incarnazione del male – rischia di far passare in secondo piano i fatti storici». Per dirla in altri termini, è come se, consciamente o inconsciamente, parlando in modo eccessivo di Hitler, si volessero oscurare le responsabilità del popolo tedesco, scaricandole tutte sul dittatore.
E a Berlino già si guarda con preoccupazione all’appuntamento del 2015, anno in cui scadranno i diritti di proprietà sul Mein Kampf del Land della Baviera e l’opera di Hitler (la cui diffusione e vendita è vietata dal dopoguerra in Germania) potrà essere pubblicata liberamente. Per evitare un uso improprio e rigurgiti del nazismo, la Baviera ha già incaricato uno storico affermato, Christian Hartmann, consulente del film La caduta, che raccontava gli ultimi giorni del Führer, di predisporre un'edizione critica commentata, mettendo in rilievo le manipolazioni e le menzogne di quel testo. Sarà sufficiente?

(Il Mattino, 19 febbraio 2013)

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Fosse Ardeatine. Vite perdute e ritrovate

di Mario Avagliano

Roma 24 marzo 1944, quarto giorno di primavera. In una cava di pozzolana sulla via Ardeatina, i tedeschi uccidono 335 uomini con un colpo di pistola alla nuca. Sono prigionieri politici e partigiani di tutte le forze antifasciste, ebrei, detenuti comuni e ignari cittadini estranei alla Resistenza, sacrificati in proporzione di dieci a uno (ma nella fretta e nella confusione ne vengono uccisi cinque in più), in rappresaglia per l’attacco partigiano del giorno prima in via Rasella, costato la vita a 33 militari della compagnia dell’SS Polizei Regiment Bozen. È il più grande massacro compiuto dai nazisti in un’area metropolitana d’Europa e segnerà profondamente la storia e la memoria italiana del dopoguerra.

Nella ricorrenza del 50° anniversario della scomparsa di Attilio Ascarelli, il medico legale ebreo che dall’estate all’autunno del 1944 diresse le attività di esumazione e di identificazione delle salme della strage delle Fosse Ardeatine, esce un libro intitolato I Martiri Ardeatini. Carte inedite 1944-1945 (AM&D Edizioni, pp. 331, euro 30). Il volume, curato da Martino Contu, Mariano Cingolani e Cecilia Tasca, propone per la prima volta le schede biografiche delle vittime che furono redatte all’epoca dalla commissione, accompagnate da un interessante saggio sui più recenti sviluppi storiografici relativi all’eccidio, una preziosa bibliografia sull’argomento, un profilo del professor Ascarelli, e l’inventario del Fondo a lui intestato e conservato presso l’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Macerata.
In qualità di direttore della commissione medico-legale, Ascarelli raccolse la documentazione prodotta in quei mesi (comprensiva di fotografie delle operazioni di recupero delle salme, dei cadaveri e delle lettere ritrovate sui corpi delle vittime), più altri documenti che via via aggiunse negli anni successivi.
In uno di questi corposi fascicoli, sono contenute 291 schede di martiri (su un totale di 335), alcune più ampie, alcune telegrafiche, che vengono pubblicate in questo volume e ci rivelano particolari inediti di alcuni di loro.
Nulla si sapeva, ad esempio, del commerciante Secondo Bernardini, democristiano, che fu arrestato dalle SS a Pisoniano assieme alle moglie e, dopo la devastazione della casa, venne tradotto nel carcere di via Tasso, dove entrambi «subirono immane torture tra le quali hanno avuto asportazioni delle unghie e fustigazioni sotto le piante dei piedi». Il sottotenente Marcello Bucchi, invece, rinchiuso a Regina Coeli assieme a don Giuseppe Morosini, quando ebbe un colloquio con la madre e questa gli chiese cosa avesse fatto, rispose: “Mamma, la Patria è un ideale tanto grande”.
Le schede rappresentano, come scrive Claudio Procaccia nella prefazione, “un punto di partenza per la creazione di un dizionario biografico delle persone assassinate il 24 marzo 1944”. Se infatti il susseguirsi degli eventi tra il 23 e il 24 marzo è stato ampiamente ricostruito dalla storiografia, così come si è indagato a fondo sull’impronta che l’eccidio ha lasciato nella memoria del dopoguerra (vedi il libro di Alessandro Portelli “L’ordine è già stato eseguito”), poco invece si conosce, ad eccezione di alcuni personaggi più noti, delle vicende individuali delle vittime, di cui oggi resta traccia – e non per tutti – solo in alcune pubblicazioni locali o a carattere familiare, nelle cerimonie e nelle lapidi presenti a Roma e nelle città di origine.
La ricostruzione delle biografie civili e politiche dei martiri – alcuni dei quali ancora non sono stati identificati – sarebbe invece un’operazione di grande interesse storico, anche perché da essa emergerebbe un microcosmo altamente rappresentativo dell'intera storia italiana di quel tempo, in uno dei suoi snodi più drammatici e cruciali, tra fascismo, occupazione nazista, Resistenza e liberazione.
Alle Fosse Ardeatine furono uccisi italiani originari di ogni parte della penisola, dalla Lombardia alla Sicilia (più alcuni stranieri: un belga, un francese, un libico, un turco, un ungherese, tre ucraini e tre tedeschi). Le vittime erano militari e civili e appartenevano a tutti i ceti sociali, dagli aristocratici ai poveracci venuti in città per sbarcare il lunario e sopravvivere alla miseria.
Erano impiegati, commessi, commercianti, avvocati, professori, studenti, militari, venditori ambulanti, artigiani, contadini, pastori, operai. Di ogni fascia d’età, dagli anziani ai giovanissimi. Di ogni livello d’istruzione, dagli analfabeti ai grandi intellettuali, compresi alcuni colpevoli di reati comuni, che stavano scontando la loro pena in carcere. Quanto al credo religioso, vi era un sacerdote, don Pietro Pappagallo, e anche 75 ebrei (per la maggior parte di essi, i documenti pubblicati in questo volume sono le uniche testimonianze biografiche sino ad ora note). Tra i politici, infine, c’erano esponenti di tutte le forze antifasciste, compresi alcuni degli esponenti più autorevoli del Fronte militare clandestino di Roma, a partire dal loro capo, il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo.
Il libro I Martiri Ardeatini, che sarà seguito a breve nel piano editoriale da altri due volumi tratti dal Fondo (uno sui verbali di esumazione della commissione medico-legale e un altro sulla figura del generale Simone Simoni, una delle vittime dell’eccidio), offre quindi la chiave e gli strumenti per riportare alla luce quelle vicende, “perché – come scrisse nel 1945 Ascarelli – si diffonda ovunque l’eco di tanta infamia e perché resti documentata una delle innumerevoli atrocità naziste che commosse la pubblica opinione del mondo civile!”.

(Il Messaggero, 23 marzo 2013)

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