Intervista a Rosario Pellegrino

di Mario Avagliano
 
 
La Salerno imprenditoriale ha poca fiducia nella classe politica locale e potrebbe scappare dalla città. “E’ più di un allarme. Noi stiamo già programmando il trasferimento di alcune delle nostre attività fuori Salerno”, avverte Rosario Pellegrino, 38 anni, capo di una holding nazionale presente a Salerno, Gubbio e Padova, che occupa 250 persone nel settore dei materiali edili, della plastica, del turismo e dell’abbigliamento, ed ha fatto registrare nel 2005 un fatturato complessivo di circa 10 milioni di euro. Il manager salernitano è anche presidente della Handball Pecoplast Salerno (squadra di pallamano femminile che milita in serie A) e proprio venerdì scorso ha acquistato un pacchetto azionario del 3% del Padova calcio. Nell’intervista a la Città Pellegrino sollecita i colleghi imprenditori a scendere in campo alle prossime elezioni amministrative, imponendo alle due coalizioni “strategie di sviluppo vero della città e la scelta di assessori tecnici e competenti in alcuni settori chiave dell’amministrazione: il bilancio, i lavori pubblici e lo sport”.
 
Se si guarda indietro e pensa al passato, che cosa le viene in mente?
Ricordo in particolare gli anni al liceo scientifico “Severi”, che sono stati per me importanti e formativi. Essendo nato nel ’68, nella seconda metà degli anni Ottanta ho vissuto dal di dentro il movimento studentesco e le occupazioni, ma anche le prime cotte, le amicizie, lo sport…
E’ stato anche arbitro di calcio.
Sì, ho iniziato a 16 anni e quando non ero ancora maggiorenne ho girato i campi di calcio di tutt’Italia, arbitrando sino alla serie C. Un hobby che ho coltivato fino al 2001.
Suo padre Egidio Pellegrino è stato un imprenditore importante a Salerno. Che rapporto ha avuto con lui?
Con mio padre ho avuto un rapporto meraviglioso. Era una personalità molto forte e la nostra è stata una famiglia patriarcale. Lui mi ha impartito un’educazione rigida, selettiva, ma allo stesso tempo - in maniera anche contraddittoria - è stato il mio miglior amico e mi ha dato affetto e confidenza massima. Ricordo per esempio con emozione quando da bambino mi portava con lui allo stadio a seguire la Salernitana. 
Quanto ha contato l’esempio di suo padre nella sua vita e nella sua carriera professionale?
Tantissimo. Mio padre ha fondato l’azienda di materiali edili nel 1965. E’ stato lui ad insegnarmi tutto. Una cosa in particolare gli devo: l’avermi trasmesso la passione per il lavoro senza impormi mai nulla e senza violentare la mia personalità. 
Lei ha cominciato a lavorare molto presto.
Credo di essere nato imprenditore, ho sempre immaginato di fare questo lavoro. Da quando avevo 15 anni ho passato le mie estati in azienda, svegliandomi alle sei di mattina e passando le mie giornate nello stabilimento, mentre i miei amici andavano al mare. Ho voluto imparare il mestiere partendo dalla produzione. Sono convinto che se non conosci a fondo una cosa, non la puoi trasmettere ai tuoi collaboratori. 
Studiava e lavorava…
Pensi che ho preso il diploma di maturità proprio mentre lanciavo sul mercato la mia prima creatura imprenditoriale, la Pelplast srl, che è nata nel 1985, affiancando all’attività di produzione di materiali edili, due nuove linee di produzione per gli shoppers, le buste di plastica per la spesa. A 18 anni d’età, ero già capo del ramo di azienda della plastica, mentre mio padre continuava a dirigere il ramo di azienda dei materiali edili. Mi sono laureato in Giurisprudenza studiando in ufficio, nelle ore serali. Non ricordo di aver mai portato un libro universitario a casa…
Nel 1995 lei e suo padre avete fondato la Pecoplast, che attualmente è l’azienda più importante del gruppo Pellegrino.  
La Pecoplast è nata da una join venture tra la famiglia Pellegrino e la famiglia Cornaglia di Torino, proprietaria di un grosso gruppo fornitore di primo livello della Fiat. In seguito all’apertura dello stabilimento di Melfi, la Fiat cercava un produttore di componenti di termoplastica a metà strada tra Melfi e Cassino, dove ha un altro importante stabilimento. Ha scelto noi in un ventaglio di 25 aziende tra basso Lazio e Campania.
La fiducia della Fiat è stata meritata?
La risposta è nei fatti. Nel 2001 abbiamo aperto un nuovo opificio a Salerno di 5 mila mq, nella nuova zona industriale. Attualmente Pecoplast fattura circa 6 milioni di euro all’anno, occupando circa 90 dipendenti articolati su tre turni.
Nel  2003 è morto suo padre. Come ha affrontato questo difficile momento personale e anche aziendale?
Dopo la morte di mio padre, mi sono trovato di fronte a due strade: o mi tuffavo ulteriormente nel lavoro oppure cedevo le attività e campavo di rendita. Gli avvoltoi erano già in agguato, pensavano che con la scomparsa della persona di riferimento, crollasse tutto…
E invece?
Invece il gruppo Pellegrino è cresciuto ancora di più. Oggi sono alla guida di una holding che occupa 250 dipendenti, che con la nascita della Tadi srl ora è impegnata anche nei settori del turismo e dell’abbigliamento, e che è presente con le proprie aziende a Salerno, a Gubbio e a Padova.
Parliamo dell’attività nel settore del turismo. 
Ho acquistato un castello medioevale a Gubbio, costruito da Federico Barbarossa nel 1063, di 2000 mq, e  l’ho trasformato in un suggestivo albergo aperto 365 giorni all’anno. Vengono da noi per i matrimoni, per trascorrere un piacevole week end  in Umbria, per organizzare convegni o seminari. E’ un’attività in cui credo molto, tanto è vero che sto trattando anche l’acquisto del Castello di Legri, a Calenzano, in provincia di Firenze.
Dalla plastica al turismo d’élite, il passo è lungo…
Io credo che nei prossimi anni il destino dell’Italia si giochi in due settori strategici, sui quali la Cina non può competere: l’artigianato sofisticato (cioè il made in Italy) e il turismo. 
Per questo sta investendo anche nell’abbigliamento?
Proprio così. La Tadi srl, che altro non è che l’anagramma di una frase per me importante, “ti amo da impazzire”, ha sede a Padova ed è pronta a lanciare sul mercato due nuove linee di abbigliamento. Il marchio Platina, che ho realizzato in collaborazione con alcuni amici padovani e svedesi, riguarda l’abbigliamento femminile, è rivolto ad un target alto e proporrà a la prima collezione per l’autunno-inverno 2006-2007. Il marchio R68 (la mia iniziale e il mio anno di nascita) è invece una linea di abbigliamento maschile, sport casual. I negozi Platina saranno presenti a Padova, Milano e Roma e poi, in un secondo momento, anche a Capri e a Londra. 
Perché la sede è a Padova e non a Salerno?
Il centro dell’Europa è il Nord-Est d’Italia. A Salerno non abbiamo la mentalità della globalizzazione né tanto meno una solida cultura del lavoro. Lo dice uno come me che è orgoglioso di essere meridionale e salernitano.
Sta dicendo che è più difficile fare impresa nel Mezzogiorno?
Senza dubbio. Le faccio un solo esempio: a Padova gli stabilimenti non hanno recinzioni, qui invece bisogna costruire muri in cemento armato alto tre metri per difenderci dai vandali.
E’ solo un problema di criminalità?
No, vi è anche una totale mancanza associativa ed aggregativa tra noi imprenditori, insomma l’incapacità di fare sistema. Ecco perché ho un po’ abbandonato l’Unione degli Industriali. Non m’interessa far parte di una lobby di cene e di cenette, ma di una lobby del mercato, che si batta per lo sviluppo del territorio e dell’economia locale, soprattutto industriale e non prevalentemente di terziario.
E’ un’accusa pesante.
E’ un’accusa motivata. Qui la maggior parte degli imprenditori si preoccupa solo delle sovvenzioni pubbliche, e non investe in ricerca, in sviluppo, in formazione.
Ci saranno delle eccezioni.
Certo, stimo molto Gerardo Soglia, Nino Paravia, Antonio Ferraioli. Non a caso tutti imprenditori  che si sono defilati dall’Unione degli Industriali.
Come vede il futuro di Salerno?
La Salerno di oggi come città è ancora una perla nel caos del Meridione, ma siamo sulla soglia del marasma. Sotto il punto di vista economico, la stiamo distruggendo.
A che cosa si riferisce?
Beh, il Comune, la Provincia e la Regione hanno lasciato gli imprenditori abbandonati a se stessi. Quando per avere una concessione edilizia occorrono 2-3 anni, significa negare le possibilità di sviluppo. E poi il mercato non è per niente incentivato e negli ultimi 5-6 mesi la microdelinquenza a Salerno ha raggiunto limiti di insopportabilità. Se continua così, saremo costretti a fuggire. Anzi, stiamo già fuggendo.
E’ una richiesta di archiviare l’era De Luca?
Non vedo in De Luca il responsabile di niente. A lui dobbiamo tantissimo. Tuttavia la figura del sindaco non basta a qualificare un’amministrazione. Non faccio differenze tra sinistra e destra, è un discorso che vale per tutti. E’ ora che noi imprenditori abbiamo un ruolo attivo per lo sviluppo di Salerno, a partire dalle prossime elezioni amministrative. Abbiamo il dovere di votare bene, per tentare di dare una scossa a questa città e per battere certe lobby oscure che bloccano lo sviluppo. E’ giusto che la res publica sia governata dai politici, ma in alcuni ruoli chiave della giunta occorrono tecnici dotati di adeguata professionalità e competenza.
Cioè?
Penso a tre settori fondamentali: il bilancio, i lavori pubblici e lo sport. Bisogna razionalizzare la spesa e gli investimenti, aiutare lo sviluppo del territorio e costruire le strutture sportive di cui la città ha veramente bisogno.
Lei ha polemizzato duramente contro la decisione di costruire il Palasalerno.
Sì, ritengo sia assurdo realizzare una struttura di 7 mila posti, del valore di 13 milioni di euro, con un costo annuo di gestione di 3 milioni e mezzo, completamente inutile, che non servirà a nessuno, né a organizzare eventi sportivi né ad ospitare concerti. 
Perché?
E’ una struttura troppo grande per gli incontri di pallacanestro, pallavolo o pallamano, e troppo piccola per i concerti musicali. Prevedo che una volta costruita, nel giro di pochi anni diventerà il regno di topi e lucertole… Con quei soldi si poteva riammodernare lo Stadio Vestuti, attrezzandolo per l’atletica, valorizzare strutture come la Palestra Palumbo e la Palestra Senatore, e realizzare almeno tre Palasport, come il PalaBarbuti che ospita le partite della Carpisa Napoli di basket, costruito nel rione Ponticelli in soli 90 giorni, rispetto ai 4 anni previsti per il PalaSalerno, e con una spesa di appena 1,2 milioni di euro e un costo di gestione di 200 mila euro. Non a caso alla presentazione del progetto volutamente solo io, come presidente  di una società sportiva, non sono stato invitato.
Già, perché lei è anche presidente della Pelplast Handball Salerno, che gioca in serie A.
E anche lì ho portato sistemi manageriali di gestione. Siamo l’unica società di pallamano in Italia ad essere società di capitali. Mi sembra che i risultati siano eloquenti. Nel 2004 abbiamo vinto scudetto, coppa Italia e supercoppa; nel 2005 siamo stati vicecampioni d’Italia e ora siamo al secondo posto in classifica e faremo i play off.
Torniamo a Salerno e all’economia salernitana. Che cosa farebbe lei per rilanciarla?
Punterei su una vera politica del turismo, imperniata sullo sfruttamento logistico della città. Salerno si trova in mezzo a due delle coste più belle del mondo, la costiera amalfitana e la costiera cilentana, e ad appena trenta km da Pompei ed Ercolano. Ebbene, quando si arriva alla Stazione di Salerno, il taxi più nuovo è del 1903… Non mi sembra un bel biglietto da visita. Il problema è che a Salerno abbiamo il sole, il mare, una posizione strategica, ma non abbiamo la competenza e la professionalità necessarie per attrarre le masse dei turisti. Per fare come Siviglia e Barcellona, bisognerebbe affidarsi a società leader nel turismo a livello nazionale, come per esempio la Valtur, e proporre loro di investire a Salerno in join venture con imprenditori locali.  
Lei sarebbe disponibile a questo progetto?
Certamente. 
Parliamo di Rosario Pellegrino nel privato. Che tipo è?
Sono una “croce e delizia”, come il mio libro preferito. Sono un tipo simpatico ed estroverso, ma allo stesso tempo sono un perfezionista nelle cose che faccio. Pretendo il meglio da me stesso e dai miei collaboratori. Devo dire che ho la fortuna di avere collaboratori eccellenti, tutti giovani under trenta.  
Qualche anno fa lei è stato protagonista anche di un episodio di cronaca che a Salerno ricordano ancora…
E’ vero, l’11 dicembre 2003, data per me indimenticabile, sono stato costretto da un guasto al motore ad un atterraggio di emergenza sul lungomare di Salerno con il mio aereo privato, mentre rientravo dall’aeroporto di Roma Urbe. E’ stata un’esperienza infernale, i sette minuti più terribili della mia vita. Ho conosciuto la morte da vicino. E’ davvero una brutta signora, il contrario di quelle che piacciono a me…
Allora è proprio vera la sua fama di dongiovanni?
Adoro le donne, sono state il mio “vizio capitale”… Ora credo di aver trovato quella giusta.
 
(La Città di Salerno, 2 aprile 2006)
 
Carta d’identità
 
Rosario Pellegrino è nato a Salerno il 12 maggio 1968.
Separato, ha una figlia di 4 anni, Alessia J.
Titolo di studio: laurea in Giurisprudenza
Hobby: lo sport (tennis, jogging, calcio, pallamano) e le donne (“le adoro, erano il mio vizio capitale”)
Film preferito: “Ricomincio da tre” di e con Massimo Troisi
Libro del cuore: “Croce e delizia” di Luciano De Crescenzo

Intervista a Ruggero Cappuccio, autore e regista teatrale

di Mario Avagliano
 
 
“Salerno ha bisogno di una forte identità culturale. Deve scegliere se vuole essere una città della movida o una città con la C maiuscola”. A parlare è Ruggero Cappuccio, uno degli autori e registi teatrali più glamour a livello europeo, napoletano di nascita, ma cresciuto e formatosi a Salerno, allievo di Leo De Berardinis e di Giuseppe Patroni Griffi, vincitore del premio dell'Istituto del Dramma Italiano, già direttore artistico del Festival teatrale “Città Spettacolo” di Benevento, uno dei due drammaturghi italiani viventi a scrivere nella collana del classici dell’Einaudi, assieme a Roberto De Simone. “Ho grande fiducia nel sindaco De Luca. Ho un dialogo aperto con lui e spero possa fare bene”, dice Cappuccio intervistato da la Città. E si dichiara disponibile a collaborare, ma a condizione che si tratti di un progetto di alta qualità: “Mettiamola così: tutte le cene possono essere belle, basta sapere chi sono i convitati”.
 
Quando nasce il suo rapporto con Salerno?
Praticamente da sempre. Le famiglie dei miei genitori sono originarie di antiche casate del Cilento: di Ferramezzana per parte di padre e di San Mango per parte di madre. Passavo tutte le estati in quei posti magnifici e ovviamente, viaggiando, transitavo sempre per Salerno. Poi, ad otto anni di età, Salerno divenne anche la città dove vivevo, perché ci trasferimmo lì, al seguito di mio padre, che era agente generale di assicurazioni. Il caso volle che prendessimo casa nella zona del Teatro Verdi. Quando si dice il destino… Ed è proprio a Salerno che ho avuto il mio primo contatto con la magia del teatro.
Come?
Ho ancora vivo il ricordo un po’ naif delle rappresentazioni del Teatro dei Burattini dei fratelli Ferraioli, al lungomare di Salerno. Quel mondo è stato di grande provocazione per me. Da bambino non mi perdevo un solo spettacolo e tutte le mie sostanze erano spese nel collezionare burattini. Una passione che dura ancora oggi.  
A Salerno si è anche laureato.
Sì, in Lettere. Sono stato uno degli ultimi studenti a completare il corso di studi nella struttura di via Vernieri, senza passare per le forche caudine di Fisciano. Ho avuto la fortuna di avere professori davvero eccellenti, come Augusto Placanica, Gioacchino Paparelli, Riccardo Avallone e soprattutto Achille Mango, grande critico teatrale. Sono stati anni bellissimi, vissuti intensamente dentro la città. Io non credo che la delocalizzazione dell’università fuori Salerno sia stata una buona idea.
A proposito di Achille Mango, che ricordo ha di lui?
Achille era un uomo di qualità, dotato del dono dell’ironia e della leggerezza. Il modo in cui conduceva le sue lezioni era quasi luciferino, perché riusciva a “comprare” la nostra anima, facendoci innamorare del teatro. Era capace di evocare grandi mondi, permettendoci però di incontrare i protagonisti di questi mondi. Ricordo ancora le lezioni straordinarie di Giorgio Strehler, del regista polacco Kantor, di Agostino Lombardo, il più importante traduttore di Shakespeare in Italia. Mango era anche un uomo di azione. Assieme a Franco Coda, era l’animatore delle stagioni del Teatro “A” di Mercato San Severino, che in quegli anni ospitava il meglio dello sperimentalismo italiano ed europeo. La tournée di Kantor, ad esempio, in Italia fece tappa soltanto a Firenze e a Mercato San Severino… 
Lei come drammaturgo ha bruciato le tappe. Nel 1993, a ventinove anni d’età, aveva già vinto il Premio dell’Istituto del Dramma Italiano.
Vinsi con un’opera teatrale che si intitola “Delirio marginale”, scritta in napoletano e in veneziano, e che è in versi e prosa. Essere insignito dello stesso premio che era stato assegnato a Bacchelli, a Brancati, a Eduardo e a Patroni Griffi, da un lato m’inorgoglì dall’altro mi responsabilizzò molto.
Beh, anche dirigere come regista ad appena trentacinque anni d’età, nel 1999, la prima opera lirica con Riccardo Muti alla Scala, “Nina pazza per amore” di Giovanni Paisiello, deve essere stata una bella soddisfazione...
Devo dire di sì, anche se fu un’occasione capitata a causa della morte di Strehler. Con Muti, però, è nato subito un rapporto bellissimo. Nel 2001 mi ha voluto come regista di “Falstaff” di Giuseppe Verdi, sempre alla Scala di Milano. E l’anno prossimo, assieme a lui, metteremo in scena un’opera di Cimarosa, al Festival di Salisburgo.
 
(La Città di Salerno, 2 luglio 2006)
 
 
Carta d’identità
 
Ruggero Cappuccio è nato a Torre del Greco il 19 gennaio 1964. E’ cresciuto tra Salerno, il Cilento e Napoli. Vive a Roma.
Titolo di studio: Laurea in lettere conseguita presso l’Università di Salerno, con tesi di laurea su Edmund Kean.
Hobby: gioca a calcio come “mediano di spinta”; ama anche l’equitazione e il tennis.
Film del cuore: “Otto e mezzo” di Federico Fellini e “Il Gattopardo” di Luchino Visconti
Ultimo libro letto: “L’amorosa inchiesta” di Raffaele La Capria.

 

Intervista a Vito Cinque

di Mario Avagliano
 
“Se non si regolamentano gli accessi dei turisti in Costiera Amalfitana, perderemo quote crescenti di mercato”. A lanciare l’allarme è Vito Cinque, manager dell’Hotel San Pietro di Positano, l’albergo di charme più bello della nostra costa, con una clientela internazionale e un fatturato annuo di 9 milioni di euro, 115 dipendenti e un indotto di 400-450 addetti. Vito Cinque, assieme al fratello Carlo, è l’erede dei mitici Carlo e Salvatore Cinque, pionieri del turismo della costiera negli anni del dopoguerra. Intervistato da la Città, il manager positanese lamenta l’assenza di servizi e di strutture per il turismo, critica duramente la gestione degli ingressi in costiera, che porta caos e turba il delicato ecosistema del territorio, ed invita i colleghi albergatori a fare sistema per migliorare le cose ed innalzare gli standard dell’offerta turistica.
 
Come ricorda la Positano della sua infanzia?
Allora Positano per me era un enorme parco giochi. Non voglio fare il romantico, ma ho ricordi bellissimi di quel periodo. Passavamo tutto il giorno a giocare a nascondino per le scale e nei vicoli di Positano, avendo come ultimo confine Praiano. Oppure a sfidarci in interminabili partite di calcio sulla spiaggia o al “Giro d’Italia”, con i tappi di sughero, disegnando fantastiche piste sulla sabbia… Oggi invece i bambini vivono davanti al computer!
Lei è cresciuto nel mito di suo zio Carlo Cinque, fondatore prima dell’Hotel Miramare e poi dell’Hotel San Pietro…
E’ vero. Zio Carlino aveva girato il mondo, conosceva quattro lingue, aveva la dote innata del buon gusto ed era una persona dal fascino e carisma eccezionali. Sicuramente ha avuto una grande influenza su di me e su mio fratello Carlo. Ricordo ancora una sera del 1980. Avevo appena dodici anni e zio Carlino venne a prendermi in stanza. Nonostante fossi in pigiama, mi portò sulla terrazza del San Pietro e mi presentò agli ospiti dicendo: “Un giorno saranno lui e il fratello a dirigere questo albergo”.
E così è andata.
Già, fu proprio quella sera che decisi che avrei fatto l’albergatore. E così all’età di quattordici anni mi iscrissi alla scuola di management alberghiero a Ginevra, anche se prima dovevo conseguire il diploma di maturità e lavorare per un anno in un grande albergo. Insomma, il mio percorso era tracciato. Nel 1986 mi sono diplomato al liceo classico di Sorrento, subito dopo ho lavorato per un anno all’Hotel de Crillon di Parigi e infine ho studiato e mi sono specializzato in Svizzera.
Lei ha anche avuto l’esempio di sua madre.
Sì, mia madre Virginia Attanasio ha sempre fatto questo lavoro, fin da quando aveva dodici anni d’età, al fianco di zio Carlino e di suo fratello Salvatore. Mio padre Giuseppe, invece, era un cardiochirurgo, era primario del Reparto di Chirurgia d’urgenza all’Ospedale San Leonardo di Salerno.
Come e quando è nata l’epopea della famiglia Cinque?
La storia della nostra famiglia è una storia di zii e di nipoti. Fu mio zio Carlino ad iniziare l’attività di albergatore, non appena tornò dalla seconda guerra mondiale. Ebbe in eredità dal padre una vecchia casa positanese, arroccata in uno dei luoghi più suggestivi di Positano, la famosa "Scalinatella", riadattandola e facendone un albergo, che fu inaugurato nel 1946 con il nome di Hotel Miramare. All’inizio l’albergo aveva quindici camere. Lui affittò tutte le case attorno all’hotel e così portò a cinquantadue il numero di stanze. 
Nel successo del Miramare e più in generale del turismo a Positano c’è anche il segno degli americani.
Nell’immediato dopoguerra il generale Desmond Smith, capo di Stato Maggiore delle forze alleate del Mediterraneo, requisì l’albergo, alloggiandovi gli ufficiali americani, inglesi e canadesi che s’innamorarono di Positano e vi tornarono da turisti. Ecco perché giustamente si dice che il generale Smith è stato uno degli artefici del successo del turismo in costiera amalfitana. Lui stesso veniva almeno due volte all’anno a Positano. Grazie a questa fama internazionale, negli anni Cinquanta e Sessanta il Miramare ospitò varie star del mondo artistico e culturale mondiale, come Lex Baxter, Lana Turner, Totò, Anna Maria Pierangeli, Vittorio Gassman. 
L’altro grande personaggio della famiglia Cinque è suo zio Salvatore.
Se zio Carlino era la mente creativa della famiglia, zio Salvatore era il braccio operativo. Senza di lui, l’impresa non avrebbe avuto successo. Anche da lui ho imparato tantissimo, in particolare come si governa un’azienda complessa come la nostra.
Quando ha aperto i battenti l’Hotel San Pietro?
La storia del San Pietro è la storia della realizzazione del sogno di un uomo, zio Carlino, che trasformò la villa privata che aveva costruito nel 1962, sulla punta di una scogliera, in uno degli alberghi più belli d’Italia. Oggi l’Hotel, che fu inaugurato nel 1970, viene definito giustamente una meraviglia architettonica, eppure non deve niente ad architetti o a designer, ma è frutto della fantasia, dell’intuizione e dello straordinario gusto estetico di mio zio, che volle farne un piccolo Eden, una perla incastonata tra le rocce della scogliera.  
Perché si chiama San Pietro?
Perché sorge ai piedi della cappella di San Pietro, protettore di questa zona di Positano, che fu edificata nel XIX secolo dal commerciante positanese Filippo Talamo.
Lei quando è diventato il direttore del San Pietro?
Nel 1996, dopo la scomparsa di zio Salvatore. Mio fratello Carlo aveva trent’anni e io ventisette. Abbiamo deciso di andare avanti e finora la scommessa è stata vinta.
E’ difficile dirigere un’impresa turistica in Costiera Amalfitana e nel salernitano?
Moltissimo, ma non credo che sia un discorso solo di Salerno o di Mezzogiorno. La verità è che in Italia tutti gli imprenditori del settore turismo non sono capiti. Eppure il turismo è l’attività con più alta vocazione occupazionale che esista. Ciò nonostante lo Stato, invece di fissare regole chiare e di semplificarci la vita, mette lacci e lacciuoli alla nostra attività, richiedendo licenze e autorizzazioni per ogni singola cosa. 
Tipo?
La lista è lunga. E’ possibile che io non possa vendere un pacchetto di sigarette al cliente senza apposita licenza? E perché se un amico di un cliente vuole fermarsi a cena, non può farlo? E’ immaginabile che debba pagare le tasse sui televisori e sui frigobar di ogni camera e che il Piano Urbanistico Territoriale preveda che a Positano non si possono costruire piscine, mentre a Ravello sì? Ecco perché tanti imprenditori italiani avviano attività alberghiere in Spagna, dove non esistono tutti questi problemi. Ed ecco perché le catene alberghiere internazionali, come Four Seasons, non investono in Italia quello che investono in altre parti del mondo.
Come mai in Costiera Amalfitana il turismo dura soltanto quattro-cinque mesi all’anno? 
Non basta l’incanto del paesaggio per attrarre i turisti, occorrono anche i servizi, e qui non esiste nulla. Mancano le strutture sanitarie. Non ci sono spazi dove organizzare mostre o esposizioni né tanto meno centri convegni. A Ravello fanno la guerra a chi tenta di realizzare un auditorium. Le infrastrutture sono insufficienti. Sono assenti perfino quelli che sono i primi segnali di civiltà turistica, dai bagni pubblici ai depositi bagagli, dalle pensiline delle fermate degli autobus ai centri di accoglienza e di informazione. Per non parlare di come vengono gestiti gli ingressi turistici.
Cioè?
Siamo di fronte all’anarchia totale. La Costiera è per sua natura un ecosistema fragile, dagli equilibri delicati, che può sopportare un numero limitato di turisti. E invece d’estate assistiamo all’invasione degli autobus dei tour operator, che portano sulla nostra costa turisti che passano senza lasciare nulla al sistema economico locale e senza neppure un bel ricordo della vacanza italiana.
Che cosa bisognerebbe fare?
Avere il coraggio di regolamentare gli ingressi, come fanno in tante altre zone d’Italia, da Portofino all’isola della Maddalena. I turisti cercano pace, tranquillità, servizi, non la folla, la disorganizzazione e il caos.  
Gli albergatori non hanno colpe?
Sì, senza dubbio, siamo troppo divisi tra di noi e non riusciamo a fare sistema. Occorrono meno piagnistei e più volontà comune di migliorare le cose e di proporre soluzioni valide a chi ci governa. 
La dimensione familiare di un’impresa è un vantaggio o uno svantaggio?
Se si va d’accordo, come avviene tra me, mio fratello Carlo e nostra madre, la risposta è sì. A condizione che la struttura familiare non si traduca nella cristallizzazione delle posizioni e nel timore di mettersi in gioco.   
Che cosa distingue l’Hotel San Pietro dagli altri alberghi della Costiera Amalfitana e quali sono le caratteristiche della vostra offerta alberghiera?
Innanzitutto l’unicità del posto. Il San Pietro domina la baia di Positano da un promontorio a strapiombo sul mare, offrendo un panorama mozzafiato da Praiano all’arcipelago de Li Galli fino ai Faraglioni di Capri. E’ poi è l’unico albergo della Costiera con spiaggia riservata e accesso diretto, è dotato di un centro fitness e ha un ristorante insignito con stella Michelin. Insomma, è un albergo di emozioni e di sostanza.
Chi sono gli ospiti più famosi che hanno scelto il San Pietro negli ultimi trent’anni?
Per noi tutti gli ospiti sono importanti. Se proprio devo fare qualche nome, citerei Robert De Niro, Julia Roberts, Gorbaciov, Franco Zeffirelli, George Clooney, Monica Vitti, Francois Mitterand.
Com’è nel privato Vito Cinque?
L’opposto del manager che dirige l’albergo. Sul lavoro sono perfezionista, esigo il meglio da me stesso e dai miei collaboratori. Nel privato, invece, sono una persona semplice, che si veste in jeans e maglietta e si diverte a fare sport e, quando capita, a cucinare per se stesso e per gli amici. Una persona che ama Positano e ama il mare.
A proposito di mare, sarà pulito quest’anno?
Ricordo che una volta l’ingegner Loro Piana, grande manager dell’omonima industria tessile, mi disse testualmente: “Se gli arabi hanno il petrolio, a Positano avete il mare”. Detto questo, il vero problema del mare della costiera resta il disinquinamento del fiume Sarno, ma devo aggiungere che negli ultimi anni la qualità dell’acqua è migliorata molto. I depuratori di Positano funzionano bene e per quanto ci riguarda, noi facciamo il possibile. Il nostro albergo ha anche ottenuto la certificazione europea ambientale. 
 
 (La Città di Salerno, 23 aprile 2006)
 
 
Carta d’identità
 
Luogo e data di nascita: Vico Equense (Napoli), 6 gennaio 1968. E’ cresciuto e vive a Positano.
Titolo di studio: diplomato al Liceo Classico S. Anna di Sorrento. Specializzazione all’Ecole  hôtelière de Lausanne (School of Hospitality Management) Lausanne (Switzerland)
Hobby: lo sport, in particolare il tennis e la maratona (ha partecipato alla maratona di New York).
L’ultimo libro letto: Harry Potter e il calice di fuoco, di Joanne K. Rowling.
Il film preferito: Le grand bleu, del regista francese J. L. Besson
Incarico: General Manager dell’Hotel San Pietro di Positano.
 

Intervista a Vittorio Paravia

di Mario Avagliano
 
“L’imprenditoria salernitana non ha grande cultura industriale e la classe politica investe troppo poco in formazione”. Ad affermarlo è Vittorio Paravia, 63 anni, un passato di manager di successo dell’industria pubblica e privata, ora vicepresidente nazionale dell’Asfor e presidente della Fondazione Antonio Genovesi e della Sdoa, una delle scuole di alta formazione aziendale più importanti d’Italia, che dal 1991 ad oggi, attraverso i suoi master, ha già impiegato oltre 2.000 occupati in primarie società regionali e nazionali. Paravia sostiene che il sogno di Salerno città industriale “si è arenato”, e che lo sviluppo potrà ripartire solo se “politici, imprenditori e sindacati avranno la capacità di fare sistema”.  
  
Lei è nato a Gragnano.
Sì, anche se mi sono trasferito a Salerno con la famiglia quando avevo appena sei anni di età. Sono cresciuto nell’azienda di famiglia, che fu fondata da mio padre Vincenzo nel 1953 ed è diventata la società leader in Italia nel settore degli ascensori. D’estate papà mi faceva indossare la tuta e mi obbligava a fare la gavetta. Ho lavorato nel settore meccanico, in quello elettrotecnico e anche nel montaggio degli ascensori. Ho montato gli ascensori dell’Hotel San Pietro di Positano, dell’Ospedale di Cerignola e dell’Hotel Metropol di Malta.
Che tipo era suo padre?
Era di origini abruzzesi e quindi era un tipo un po’ chiuso, che difficilmente manifestava i suoi sentimenti. Era anche assai severo nei principi morali. Le sue caratteristiche più nobili erano l’onestà, l’umiltà e la riservatezza. Non gli interessava apparire, ma bensì fare. Ha creato l’ascensorismo nel Mezzogiorno d’Italia e alla sua scuola si sono formate decine e decine di giovani che poi sono diventati imprenditori o manager di questo settore. Gli ascensori della Paravia sono presenti in tutta Italia, dalle metropolitane di Roma e di Milano alla funicolare di Napoli, dalla Stazione Termini di Roma al Teatro alla Scala di Milano. 
Lei si è impiegato nell’azienda di famiglia a 18 anni.
Sono entrato ufficialmente in azienda dopo aver conseguito il diploma di perito elettrotecnico presso l’Istituto Alessandro Volta di Napoli. Ebbi l’incarico di aprire nuovi uffici di assistenza e di manutenzione nel Mezzogiorno e a 24 anni ero già diventato direttore dell’azienda di manutenzione. Poi, nel 1974, quando creammo la Paravia Elevators’ Service, fui nominato amministratore delegato e direttore generale.
Lavorava e studiava…
Non mi accontentavo di diventare un buon direttore tecnico, volevo imparare a leggere un bilancio, ad amministrare una società. E così, quando nel 1969 il sindaco Alfonso Menna portò a Salerno una sede distaccata della famosa Scuola di Amministrazione Aziendale di Torino, promossa dall’Università torinese e dalla Fiat, mi iscrissi al corso di marketing ed amministrazione aziendale e nel 1972 presi il diploma.
Intanto fondava a Salerno l’associazione dei Giovani Imprenditori di Confindustria.
Era il 1971. Io già da qualche anno frequentavo il gruppo nazionale dei giovani industriali, che era nato a cavallo del Sessantotto, contestando la vecchia Confindustria e chiedendo più chiarezza e trasparenza nel mondo industriale. Ebbi quindi l’idea di promuovere l’associazione anche a Salerno e riuscii a mettere assieme una ventina di giovani imprenditori e manager, tra i quali Mario Magaldi, Aldo De Vita e Renato Cavaliere. Fui il primo presidente dei giovani imprenditori salernitani. Successivamente, dal 1974 in poi, fui nominato per ben tre volte di seguito vicepresidente nazionale dell’associazione e responsabile per il Mezzogiorno.
Nel 1977 lei lasciò la gestione dell’azienda di famiglia e passò alla guida della società Navalsud. Come mai? 
Volevo mettermi alla prova su nuovi fronti. E così, quando la Gepi mi mandò a chiamare e mi propose di risanare e rilanciare l’azienda napoletana Cantiere Navale ex Pellegrino, che aveva cambiato la denominazione in Navalsud, accettai la sfida. Ricordo ancora che andai a consigliarmi con il Sindaco Menna. Lui mi disse: “Nella vita, quando passa un treno, salici sopra. Se ti va bene, continui a viaggiare. In caso contrario, alla stazione successiva scendi…”. E io così feci.
E le andò bene?
Direi proprio di sì, Menna aveva ragione. Fui nominato presidente e dopo tre mesi anche amministratore delegato. La filosofia della Gepi era curare l’azienda ammalata e poi metterla di nuovo sul mercato. Nel giro di qualche anno la Navalsud diventò un’azienda qualificata a livello nazionale, che produceva aliscafi di alta qualità, tanto è vero che fu ceduta ai Cantieri Navali Rodriguez di Messina.
Lei ha citato più volte Alfonso Menna, storico sindaco di Salerno. Che giudizio ha di lui?
C’era grande stima tra noi e lui mi voleva bene e riconosceva le mie modeste qualità. Era un uomo lungimirante, che capiva l’importanza della formazione della classe dirigente e perciò volle creare a Salerno una scuola di amministrazione aziendale. L’altro grande merito fu quello di capire che lo sviluppo di Salerno non poteva essere limitato all’agricoltura e al turismo, ma che ci voleva l’industria, e che per fare turismo occorrevano le infrastrutture. Il suo errore fondamentale è stato la costruzione del porto di Salerno nella zona attuale. Io sono per la delocalizzazione del porto nella piana del Sele, sempre che non ci vogliano 50 anni per attuarla, come è accaduto per l’aeroporto di Pontecagnano! 
Negli anni Ottanta, all’attività di manager, lei ha associato l’impegno per lo sviluppo del Mezzogiorno.
Dopo il terremoto del 1980, sotto l’egida dell’allora presidente del Consiglio Spadolini, la Confindustria, l’Intersind e l’Asap diedero vita all’Agensud, l’Agenzia di Sviluppo Socioeconomico delle Regioni Campania e Basilicata. Inizialmente Vittorio Merloni e Guido Carli, ex governatore della Banca d’Italia e presidente della Confindustria europea, mi vollero come presidente del comitato dei referenti. L’amministratore delegato di Agensud era il mio amico Luigi Abete, ora presidente di BNL, che conoscevo dai tempi dell’associazione dei Giovani Imprenditori. Abete privilegiò la politica di finanziamento dei nuovi insediamenti industriali e così, nel 1984, di fronte alle proteste degli imprenditori locali, che non si vedevano corrispondere provvidenze per i danni che avevano subito a causa del terremoto, fui nominato amministratore unico. Credo di aver dato un contributo al risanamento di molte realtà industriali delle province terremotate, e cioè Salerno, Avellino e Potenza.
Lei faceva parte anche della commissione dei contributi della legge 219 sul terremoto.
Fu il Ministro Zamberletti, commissario straordinario del Governo, a designarmi nella commissione consultiva, in qualità di esperto. E’ stata un’esperienza significativa per me. Ne ho viste di cotte e di crude. Politici, imprenditori, sindacalisti, tutti hanno “mangiucchiato” in quella situazione! Io denunciai pubblicamente quel perverso intreccio di affari e subii pesanti minacce personali. Fui costretto a trasferire la mia famiglia da Salerno a Roma. Fui anche convocato dalla commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta da Oscar Luigi Scalfaro. In quella sede non feci nomi ma diedi molti indizi, dai quali sono poi derivate indagini giudiziarie che si sono concluse con condanne.
Nel 1986 fondò la Fondazione Antonio Genovesi. Come nacque l’idea?
Era un progetto che partiva da lontano, da quando all’inizio degli anni Settanta ero consigliere di amministrazione dell’Isfa, l’Istituto Superiore di Formazione Aziendale, voluto da Alfonso Menna e nato dalle ceneri della sede distaccata della Scuola di Amministrazione Aziendale di Torino. Il direttore era il professor Vincenzo Buonocore e tra i soci fondatori, oltre al Comune, alla Provincia e alla Camera di Commercio, c’era anche il Banco di Napoli. Purtroppo l’Isfa nel 1978-79 chiuse i battenti, a causa dei contrasti politici tra Gaspare Russo e Clarizia. Io feci mettere a verbale che era una jattura per Salerno e che se nella vita avessi mai avuto l’opportunità di aprire una scuola di alta formazione, l’avrei fatto. Nel 1984, mentre ero all’Agensud, mi ricordai di quell’impegno e decisi di metterlo in atto. 
In che modo?
Mi recai a Milano alla Bocconi e contattai il professor Claudio Demattè, allora presidente dell’Asfor, e gli chiese di studiare la fattibilità di questo progetto. Accettò e diede un importante contributo a delineare la struttura della scuola. Fu lui a coniare anche il nome SDOA, Scuola di Direzione ed Organizzazione Aziendale. La Fondazione, invece, la intitolai ad Antonio Genovesi, un grande economista salernitano del Settecento. 
La prima sede della scuola fu l’Hotel Paradiso a Vietri sul Mare.
Siamo stati lì fino al 1995, quando il presidente della Provincia Alfonso Andria ci ha messo a disposizione l’attuale sede, che si trova in una posizione stupenda, nella baia di Vietri, con 2.500 metri quadrati di superficie.
Il primo Master risale al 1991.
Nel ’91 l’Asfor dettò i criteri per poter istituire un master. Su 20 scuole italiane che chiesero il riconoscimento, lo ottennero solo 8, tra cui la SDOA. Ci tengo a precisare che il riconoscimento di Master non è un diritto acquisito per sempre; bisogna certificare ogni anno che almeno l’80 per cento degli allievi ha ottenuto un posto di lavoro entro 6 mesi dallo svolgimento del corso.
La SDOA che percentuale vanta?
I 17 master che abbiano finora tenuto, hanno fatto registrare una media del 95 per cento di assunti. In questi anni, grazie alla scuola di alta formazione della SDOA, hanno trovato lavoro ben 2.000 giovani. Siamo una vera fabbrica di lavoro!   
Una “fabbrica” riconosciuta a livello internazionale…
E’ vero. Per esempio abbiamo stretto un accordo con la Zaid University di Dubay, negli Emirati Arabi. Quindici ragazzi arabi sono venuti a Vietri per un corso interculturale. Pensi che proprio l’altro giorno uno dei più importanti quotidiani arabi, Al Bayan, ha dedicato due pagine intere alla SDOA e alle opportunità di formazione e di lavoro offerte dalla nostra scuola. E tutto questo nonostante il momento politico internazionale di scontro tra cattolici e islamici, che vede protagonista anche il nostro Paese.
Dall’osservatorio della SDOA, come vede la situazione dell’industria salernitana?
Il grande sogno di Menna di trasformare Salerno in una città industriale si è in parte arenato. In alcuni settori industriali c’è una regressione, in altri prevale la staticità. Questo dipende dalle difficoltà economiche mondiali e nazionali, ma soprattutto dalla scarsa presenza di imprenditoria che abbia quei requisiti di alta cultura industriale necessari per competere nella società attuale.
Non salva niente e nessuno?
Per carità, qualche imprenditore di valore c’è, come Antonio Ferraioli, amministratore delegato della Doria, la prima società del Sud quotata in Borsa. Ma sono eccezioni.
Come se lo spiega? 
Si pagano errori storici, derivanti dal modo in cui è stata fatta l’Unità d’Italia. Non sono un nostalgico dei Borboni, ma va detto che prima della spedizione dei Mille il Mezzogiorno aveva una bella industria. Penso alle Manifatture Cotoniere Meridionali, alle Fonderie di Fratte, ai Cantieri Navali di Castellamare di Stabia, alla seterie di Caserta… Non c’è dubbio che dopo l’Unità d’Italia, le politiche dei governi nazionali hanno penalizzato il Sud. Faccio un solo esempio: il costo del denaro. Nel Mezzogiorno è costato in media 4 punti in più che al Nord. 
Nel Mezzogiorno esistono tuttavia anche realtà economiche fiorenti.
Sono isole nel mare. Anche perché noi meridionali ci siamo fatti del male da soli. Nel Sud manca il gusto del rischio, anche l’imprenditore di successo tende a conservare il patrimonio, non a diversificare gli investimenti. E poi la classe imprenditoriale del Mezzogiorno investe troppo poco in formazione, perché non ha ancora compreso che oggi il vero capitale di un’azienda sono le risorse umane.
Questo accade anche a Salerno?
A Salerno ancora di più che in altre realtà. Con un’aggravante: la frammentazione della società. A Salerno non c’è coesione né tanto meno collaborazione tra i vari componenti di un sistema. Prevale l’individualismo, la gelosia, l’invidia. A parole si predica l’unità, nei fatti ognuno lotta contro l’altro. Questo vale per la classe politica, ma vale anche per la classe imprenditoriale. Manca una strategia. Manca la capacità di umiltà e di fare squadra. Manca la lungimiranza di riconoscere i meriti degli altri. Ecco perché la politica della concertazione è fallita, tranne l’eccezione del patto territoriale dell’agro nocerino-sarnese, che ha dato buoni frutti.
Parla per esperienza vissuta?
Beh, prenda il caso della SDOA. In venti anni, da tutti gli enti che sono soci della scuola, non abbiamo mai ricevuto una lira. La Regione non ha neppure aderito alla Fondazione. Si parla tanto di rilancio del turismo a Salerno, e poi noi organizziamo il terzo master internazionale del turismo, e nessuno ci offre borse di studio. E intanto invece vengono foraggiati “formatori” improvvisati che producono “corsifici” che non servono a niente, e che magari hanno solo il merito di essere protetti politicamente. 
Come si descrive Vittorio Paravia? Pregi e difetti…
Il mio pregio è essere un lavoratore indefesso. Se si tratta di fare mezzanotte per il bene della Fondazione, lo faccio volentieri, e vado sempre al lavoro con entusiasmo e con il sorriso sulle labbra. E’ una virtù che ho nel DNA, visto che me l’ha trasmessa mio padre. Poi credo molto nei valori della lealtà, dell’onestà, della coerenza e dell’amicizia. Il difetto? Sono capatosta, anche se questa caratteristica è anche un pregio. Senza determinazione e senza perseveranza, non si arriva da nessuna parte. L’altro difetto è che a volte pecco di integralismo: dico quello che penso e non riesco ad essere diplomatico. Non sempre è un bene nella nostra società…
 
 (La Città di Salerno, 26 febbraio 2006)
 
 
Carta d’identità
 
Vittorio Paravia è nato a Gragnano (Napoli) il 7 febbraio 1943.
Sposato con Maria Pia Corrado, insegnante di lingue e letteratura straniera ora in pensione.
Ha tre figli: Benedetta, Alessandro e Alberto.
Titolo di studio: baccalaureato in Marketing presso la Scuola di Amministrazione Aziendale Università di Torino, laureato in Sociologia presso l’Università di Salerno
Hobby: La Sdoa. “Non è una battuta - spiega - dedico alla Scuola dodici ore al giorno”.
Film preferito: “L’ultimo bacio” di Muccino e “Match Point” di Woody Allen
Incarichi: Vice Presidente dell’ASFOR e Presidente della "Fondazione Antonio Genovesi Salerno", realtà da lui fondata nell’86. E’ azionista del gruppo Paravia.

Intervista ad Alessandro Nisivoccia, uomo di teatro

di Mario Avagliano
 
 
Il teatro a Salerno ha un nome e cognome: Alessandro Nisivoccia. Alla scuola del Teatro San Genesio, gestito da Nisivoccia e dalla moglie Regina Senatore, si sono formati tutti i personaggi di spettacolo salernitani di fama nazionale, da Teresa De Sio a Benedetta Buccellato, da Nuccio Siano a Martino D’Amico, da Jari Gugliucci a Beatrice Fazi. Cinquantasei anni di carriera, oltre 150 lavori teatrali portati in scena, per un totale di quasi 4.000 repliche, il settanduenne Nisivoccia continua a fare teatro e ad insegnare ai giovani con la passione e la determinazione di sempre. Anche se confessa di essere un po’ deluso dalla Salerno di oggi: “E’ una città incredibilmente provinciale, dove la gente è distratta dalla movida, dalle partite di calcio e dalle discoteche, e presta poca attenzione alla cultura…”. 
 
Lei non è salernitano di nascita.
No, sono nato a Udine. Mio padre era ufficiale di Cavalleria. La mia infanzia l’ho trascorsa a Grosseto, mangiando pane e cinema. Mi recavo nelle sale cinematografiche anche due volte al giorno e quando tornavo a casa, “recitavo” il film ai miei fratelli, mimando le scene e i gesti degli attori. Finché nel 1950 non ci siamo trasferiti prima a Cava de’ Tirreni e poi a Salerno.
Come ricorda il primo impatto con Cava e Salerno?
Io allora avevo 17 anni e la cosa che mi colpì di più fu il dialetto. Ricordo che quando la gente parlava, all’inizio non capivo nulla, anche se ero affascinato da quella strana lingua musicale. Le difficoltà di ambientamento costituirono per me una spinta formidabile a studiare il napoletano e ad impararlo.
Lei iniziò a recitare proprio a Cava.
Sì, un amico del ginnasio mi chiese se volevo recitare per una compagnia di sceneggiate e io accettai. Ho ancora conservata la locandina dello spettacolo: s’intitolava “Destino”. E’ stato il mio debutto. Forse anche per questo Cava mi è rimasta nel cuore. Lì ho cominciato a fare teatro. Lì ho avuto la mia prima storia d’amore. E poi ho sempre trovato Cava una cittadina civile, una sorta di piccola Svizzera. Alcuni dei miei migliori amici sono cavesi, dall’avvocato Vittorio Del Vecchio a Gigi Della Monica, ex presidente del Club Universitario.
Due anni dopo si trasferì con la sua famiglia a Salerno.
A Salerno frequentai i tre anni del liceo classico al “Tasso”. Intanto coltivavo la mia passione per il teatro, recitando prima nel Gruppo teatrale “Maria Melato” di Tina Trapassi, poi nel Gruppo Postelegrafonico con Franco Angrisano, e infine con Mario Maysse nel Gruppo Città di Salerno, dove rimasi fino alla metà degli anni Sessanta.
Fu nella compagnia teatrale della Trapassi che conobbe Regina Senatore…
Era il 1952. Lei aveva 13 anni e mi colpì subito per l’innata simpatia e anche perché era una ballerina eccezionale. Mi “fregò” con il ballo… Ricordo ancora il momento della dichiarazione. Eravamo a Cava, nel Giardino degli Aranci, sul corso, e il quintetto Vargo cantava ‘Na voce ‘na chitarra e ‘o poco ‘e luna. Le dissi: “Se mi stringi la mano, sarà la nostra canzone”. Mi sentii una stretta di mano vigorosa… Ed eccoci qua. Regina allora era agli inizi della sua carriera teatrale e incontrava qualche difficoltà, anche perché aveva solo la licenza elementare. Io sono stato un po’ il suo “pigmalione”, come lei mi chiamava. Le ho insegnato i rudimenti della tecnica di recitazione e ad utilizzare bene la voce, non l’anima, perché quella ce l’aveva già!
E’ vero che lei, invece che uomo di teatro, stava per diventare un medico?
Quando m’iscrissi all’università, mio padre voleva che optassi per la facoltà di Medicina. Scelsi invece la facoltà di Lingue. Dopo la laurea, ho insegnato inglese nelle scuole per diciotto anni.
Ha avuto qualche maestro di teatro?
Ci sono due persone che sento di dover ringraziare: l’ingegner Renato De Crescenzo e l’attore Augusto Di Giovanni. Io e Regina conoscemmo De Crescenzo in occasione del nostro primo lavoro da protagonisti, “Addio giovinezza”, per la regia del generale Pallotta. Vide lo spettacolo, ci volle conoscere e ci invitò a casa sua, dove la sera ci spiegava l’impostazione della Medea e le tecniche della tragedia. Quanto a Di Giovanni, era un attore bravissimo, aveva recitato con Totò e con importanti registi teatrali. Lo conobbi al Teatro Verdi, e ci prese a benvolere. Fu con noi prodigo di preziosi suggerimenti. In seguito partecipò spesso alle nostre leve teatrali, in qualità di selezionatore.
Nel 1964 lei e Regina fondaste insieme il Teatro Popolare Salernitano.
Volevamo avere una compagnia teatrale nostra. La prima sede fu in via Pio XI e si chiamava “Il Sipario”, un nome scelto dall’amico giornalista Nino Petrone. Poi nel ’71 traslocammo nel centro storico, nella sede attuale, sempre con il nome “Il Sipario”. Nel ’78 ci fu una scissione nel gruppo e cambiai la denominazione del teatro in “San Genesio”, il santo protettore degli attori. Sono ormai quasi trent’anni che ci protegge…
Lei ha recitato con due grandi protagonisti del teatro italiano e mondiale: Eduardo De Filippo e Vittorio Gassman. Come li ricorda?
De Filippo e Gassman erano l’uno l’opposto dell’altro. L’incontro con Eduardo risale al 1969. Recitai con lui in Sabato, domenica e lunedì, al Teatro Eliseo di Roma, nella parte del dottore. Regina invece interpretava la zia Memè, la coprotagonista dello spettacolo assieme a Pupella Maggio. Eduardo viveva su un altro pianeta rispetto a noi. Era un uomo chiuso. Mai fatto quattro chiacchiere con lui, mai parlato - che so - di cinema, di sport, di fatti di cronaca…
Invece Gassman?
Era molto diverso da Eduardo. In lui c’era una forte dicotomia tra l’attore e l’uomo. Durante le prove e sulla scena ti trattava in modo assai professionale, non si permetteva mai scherzi e battute. Un professionista come lui non l’ho mai più incontrato. Una volta usciti dal teatro, invece, diventava un altro, era umano, affettuoso, simpatico. Durante la tournée spesso giocava a calcio con mio figlio Roberto, che era stato anche lui scritturato nella compagnia, e si prendevano scherzosamente a male parole.
Come conobbe Gassman?
E’ una storia lunga, che nasce da uno scambio epistolare. Cominciai a scrivergli nel 1962, dopo aver visto il film Il Sorpasso di Dino Risi. La prima volta mi rispose la madre, poi ogni tanto prese a rispondermi anche lui. A distanza di vent’anni, Gassman venne a Napoli a fare dei provini per la sua Bottega e per l’Otello. Quando sentì il mio nome, Nisivoccia Alessandro, si ricordò subito della nostra corrispondenza. Poi, quando io e Regina andammo in scena per il provino, ci disse: “Voi potete venire alla Bottega, ma ad insegnare, non ad imparare”. Ricordo ancora che quando Regina interpretò un pezzo di Filumena Maturano, gli venne una lacrima agli occhi.
E cominciò così uno dei periodi più belli della sua carriera teatrale.
Nel 1981 fui scritturato per l’Otello e l’anno dopo per Macbeth, insieme a Regina e a mio figlio Roberto: una famiglia di attori. Si occuparono di noi anche i giornali nazionali, dal settimanale Gente al quotidiano Il Giorno. Girammo tutta l’Italia insieme a Gassman. Furono due anni straordinari e io decisi definitivamente di dedicare tutta la mia vita al teatro, lasciando l’insegnamento.
In tanti anni di carriera teatrale, quali sono gli allestimenti di cui va più fiero?
Il berretto a sonagli di Pirandello e L’Otello, che poi interpretai anche da solo, nel 1991.
Uno dei principali vanti del Teatro Popolare Salernitano è la leva teatrale. Tutti o quasi tutti i salernitani che ora fanno spettacolo a livello nazionale hanno frequentato la vostra scuola.
E’ vero, e ne siamo orgogliosi. A noi piace insegnare ai giovani. Devo però confessare che è nato tutto per caso, dalla necessità ogni anno di rinnovare il cast, di trovare nuovi attori per gli allestimenti teatrali. Poi però ci abbiamo preso gusto…
Quali sono gli attori di maggiore talento che hanno frequentato la vostra scuola?
Sono tanti, ma credo che il più talentuoso sia Nuccio Siano, che ora è regista e attore apprezzato dalla critica e dal pubblico di tutt’Italia. Altri due grandi talenti sono i due cavesi Peppe Bisogno e Martino D’Amico. Anche Teresa De Sio era un’attrice straordinaria. Anzi, io penso che se è vero che è un’ottima cantante, avrebbe avuto ancora più successo come attrice. Ricordo che ne La lupa di Verga al Festival di Pesaro fece faville. Alfonso Andria la mise nel cast di Napoli ca se ne và e fu eccezionale. La notò da noi una regista polacca e la portò a Roma a recitare Brecht. Poi però incontrò Eugenio Bennato e si dedicò alla musica.   
Com’è Alessandro Nisivoccia nella vita di tutti i giorni?
E’ un uomo mite, non scontroso né vendicativo, che ama leggere e lavorare.
Che sta preparando in questo periodo?
Ora è in programmazione un lavoro di mia figlia Anna, Le invasioni abbonate, un grande successo. Poi voglio portare in scena per la quarta volta l’Oreste di Alfieri. Ho alcuni bravi giovani attori. Andremo in tournée a partire da maggio, nei teatri all’aperto in Sicilia, in Puglia, in Campania.  
Come vede la Salerno di oggi?
La vedo triste. E’ una città incredibilmente provinciale, tanto che invito i miei figli ad andarsene. Certo, rispetto al passato è più grande, più bella, più ariosa, ma la gente non pensa alla cultura, è distratta da altre cose, dalla movida, dalle partite di calcio, dalle discoteche. E’ il regno delle vanità e delle superficialità. Pensi che all’ultima leva teatrale si sono presentati 210 giovani. Dopo dieci giorni, erano appena 50…
 
(La Città di Salerno, 22 gennaio 2006)
 
 
Carta d’identità 
 
Alessandro Nisivoccia è nato a Udine il 16 giugno 1933.
Si è diplomato al Liceo classico “Tasso” ed è laureato in Lingue.
Sposato con Regina Senatore, ha due figli, entrambi attori, Anna e Roberto.
Hobby: lettura e cinema
Libro preferito: Paradosso sull’attore di Diderot
Film preferito: Il Sorpasso, C’eravamo tanto amati e Tolgo il disturbo (tutti e tre con Vittorio Gassman)
 
La carriera
Debutta a Cava de’ Tirreni nel marzo del 1950 in una Compagnia di sceneggiate con Roberto Buhne.
Fino al 1964 fa parte prima del Gruppo Maria Melato di Tina Trapassi, poi del Gruppo Postelegrafonico con Franco Angrisano, poi con Mario Maysse nel Gruppo Città di Salerno realizzando e interpretando molti lavori tra cui “La Nemica” di Niccodemi, “Il Berretto a Sonagli” di Pirandello e “I coccodrilli” di Guido Rocca.
Partecipa per la prima volta al Festival Nazionale di Pesaro nel 1958.
Recita a Recanati “A Silvia” in occasione delle Celebrazioni Leopardiane.
Dal 1964 ha il suo Gruppo, Il Teatro Popolare Salernitano, che ha realizzato oltre duemilasettecento repliche.
Ha partecipato con la sua Compagnia al Festival Nazionale di Pesaro per oltre venti anni; al Festival di Macerata, al Gala Comico di Mantova, alle Rassegne di Bolzano, Laives, Verona, Agrigento (celebrazioni Pirandelliane), Catona, Cava dei Tirreni, Grosseto e Alberga; all’estero in Germania, Francia e Svizzera.
Nel 1971 apre il Teatro Il Sipario (dal 1978 San Genesio) nel Centro Storico di Salerno.
Nel 1969 recita con Eduardo De Filippo, nel 1980 con Mariano Rigillo, nel 1982 e 1983 con Vittorio Gassman in “Otello” e “Macbeth”.
Oggi recita al Teatro San Genesio, dove ha pure una scuola di Teatro. 
 

Intervista ad Angelo Di Gennaro, attore e cabarettista

di Mario Avagliano
 
 
E’ stato per molte estati il re della comicità made in Salerno al Premio Charlot, raccogliendo il caldo abbraccio del pubblico salernitano, che ne ha apprezzato la voce “rauca di fumo e di sonno” e le esplosioni di sarcasmo alla Beppe Grillo in salsa napoletana. Ora, a quarantanove anni di età, Angelo Di Gennaro, attore, cabarettista, autore, nato a Fuorigrotta ma legato a Salerno da “un rapporto d’amore” (“la considero la mia seconda Patria”), è in un momento clou della sua carriera. In autunno  andrà in onda sulla Rai una fiction televisiva da lui scritta e sceneggiata, che lo vedrà protagonista nei panni di un preside di origini salernitane di un istituto superiore del rione Scampia. Una storia “sulla Napoli vera” e sui meridionali sani, puliti, onesti, che fa giustizia di tanti stereotipi negativi sulla nostra terra. E il prossimo 24 marzo Di Gennaro sarà al Centro Sociale di Salerno con lo spettacolo “C’è una giustizia divina”, che parla delle contraddizioni del quotidiano, con riflessioni semi-serie sulla politica e sui bluff della vita.
 
Lei viene da una famiglia numerosa?
Sì, sono l’ultimo di undici figli e vengo da una famiglia umile ma ricca di buoni sentimenti. Mio padre Vincenzo era impiegato all’Italsider di Bagnoli e, a causa di un incidente di lavoro, andò assai presto in pensione. Mia madre Maria era l’anima della famiglia, una persona straordinariamente ironica e moderna. Sono cresciuto a Fuorigrotta, in via Consalvo. Allora quel pezzo di Napoli era un’oasi verde fuori dalla città. La strada dove vivevo era un baciarsi l’un con l’altro di alberi secolari che saliva verso la collina del Vomero. Di fronte a casa mia c’era una scuderia di cavalli. Mi svegliavo sentendo dalla finestra l’odore del bosco e della terra bagnata dalla rugiada. 
Ricordi bucolici…
Io mi considero un cittadino che vive con i ricordi del contadino.  Ancora oggi quegli alberi secolari, che poi sono stati abbattuti per costruire orribili palazzoni di cemento armato, sono l’immagine più ricorrente dei miei sogni.
Quando è iniziato il suo percorso artistico?
Non saprei dire il momento esatto, credo di aver avuto sempre questa ambizione, fin da ragazzino. Qualcuno dal cielo mi ha dato il dono della recitazione e la mia famiglia ha facilitato questo percorso.
E’ vero che lei è stato anche musicista? 
A quindici anni suonavo la batteria in un gruppo rock che si chiamava “Lo scarto”, perché - date le ristrettezze economiche - non avevamo strumenti nuovi, ma tutta roba di seconda o terza mano. Amo molto la musica: la vita senza musica sarebbe tristissima. Anche oggi i miei pensieri, i miei progetti, i miei sogni, li sviluppo ascoltando canzoni.
Lei ha anche un passato radiofonico.
Negli anni Ottanta, ho fatto per anni lo speaker radiofonico a Radio City Sound e a Radio Palepoli. Nel frattempo coltivavo la mia passione per il cabaret e per il teatro.
Immagino che ricorderà il giorno del suo debutto.
Eccome! Fu nel 1981, al Teatro Tenda di Napoli, con una commedia-farsa intitolata “L’avvocato delle cause perse”, prodotta da Radio Palepoli. Io ero il protagonista. Ricordo ancora l’emozione di quel debutto, davanti a un pubblico di cinquemila persone. Non credevo che una radio potesse chiamare a raccolta tanta gente... 
In venticinque anni di cabaret e di teatro, qual è la messinscena alla quale è più legato?
E’ uno spettacolo del 1988 che s’intitolava “Se fossi veramente bravo”, che praticamente era tre spettacoli in uno, con tre scenografie diverse e tre ruoli differenti. Fu per me una prova ardua di interpretazione. 
Lei è stato anche conduttore di una trasmissione-cult, TeleGaribaldi. Come ricorda quella esperienza?
Per me non è stata un’esperienza esaltante. La storia di TeleGaribaldi ha un antefatto. Io dovevo essere il primo conduttore della trasmissione, ma poiché non amo la televisione, commisi l’errore di dire no. Al mio posto fu scelto Biagio Izzo. Dopo il successo della prima edizione, il produttore tornò alla carica e mi chiese di condurre il secondo ciclo di TeleGaribaldi. Allora feci il secondo errore, quello di accettare di fare una trasmissione-clone, nonostante non avessero recepito i cambiamenti che io avevo proposto.
Parliamo del suo rapporto con il cinema. Lei ha lavorato in cinque film e un cortometraggio.
Ricordo con piacere il cortometraggio di Edoardo Bennato, “Joe Sarnataro”, un piccolo gioiello cinematografico, nel quale interpretavo un politico lestofante, imbroglione e puttaniere. Andò in onda sulla Rai, anche se fummo sfortunati. Giocava la nazionale di calcio, andò ai supplementari e così slittò la programmazione… Anche il film Aitanic con Nino D’Angelo è stata una bella esperienza. Vestivo i panni di un impresario pappone e mi sono divertito molto.
E i due film del cavese Pasquale Falcone?
Pasquale è un ragazzo di talento, intelligente e tenace, ma ha commesso l’errore di accettare a scatola chiusa le richieste della produzione. Quando ti impongono gli attori e ti cambiano la sceneggiatura, anche un’idea buona rischia di essere sprecata.
Quando è iniziato il suo rapporto con Salerno?
Negli anni Ottanta, in particolare con le mie partecipazioni come ospite al Premio Charlot organizzato da Claudio Tortora. Le pillole di comicità che ho proposto per diverse estati nell’ambito di questo premio hanno creato un’affezione con il pubblico. E’ nato un rapporto molto forte, direi viscerale, tra me e Salerno, tra me e i salernitani. Da allora Salerno mi è entrata nel cuore, è diventata un po’ la mia seconda Patria, tanto che molti mi conoscono come salernitano invece che come napoletano. E io ne vado fiero. Tra l’altro la mia crescita artistica è coincisa con un periodo di forte sviluppo della città.
Parla quasi da “innamorato”…
Io trovo che Salerno sia speciale, unica in Italia. Per esempio, non credo che vi sia una città italiana che possa vantare tanti giovani come Salerno. Ogni volta che passo di sera per la zona del Teatro Verdi, rimango meravigliato dalla vivacità di Salerno, capace di essere una città turistica, calda, mediterranea, ma non caotica. Salerno mi piace tutta, adoro tuffarmi nei vicoletti di via dei Mercanti, ma mi affascina perfino la zona di Mariconda, che è stata recuperata e messa a nuovo, grazie al lavoro encomiabile della giunta De Luca.
Anche il Premio Charlot è cresciuto nel tempo?
Claudio Tortora ha avuto il merito di creare una vetrina per gli interpreti della straordinaria scuola di comicità del Mezzogiorno. Il Premio in questi anni è senza dubbio cresciuto, forse anche troppo. Trovo che ormai ci sia spazio solo per i grandi nomi, emarginando i nuovi talenti, e credo che questo sia un limite. 
Parteciperà alla prossima edizione?
Se mi inviteranno, volentieri. Devo dire che l’anno scorso mi è dispiaciuto che si siano dimenticati del libro che ho scritto, “Accendi la mente e fai volare il cuore”…
Già, parliamone.
E’ un libro di poesie e di pensieri, nel quale si parla di Fuorigrotta, della mia infanzia povera ma felice. Ci sono dentro le mie emozioni, le mie paure, le mie illusioni, i miei amori, i miei addii.
C’è anche una poesia dedicata a Massimo Troisi, intitolata “Ricomincio da te”.
Troisi è il napoletano per eccellenza, e nei suoi film ha rappresentato il napoletano vero, onesto, pulito, perbene. E’ l’attore che mi è piaciuto di più di tutti negli ultimi venti anni, per la sua capacità di ricerca, di non correre dietro alle apparenze, di mettersi sempre in discussione.
Troisi però non è il suo modello di comicità.
No, la mia comicità è diversa. Il mio idolo è Beppe Grillo, lo confesso. Amo la comicità di denuncia, che fa riflettere.
Un critico cinematografico ha auspicato che Angelo Di Gennaro sia diretto da un regista come Fellini, capace di riconvertire la sua maschera e la sua risata in attore drammatico. Condivide?
Molti non hanno colto l’anima dell’artista Di Gennaro, ma solo la “scorza”.
E chi è Angelo Di Gennaro?
Un artista capace di far ridere ma anche di far emozionare. Insomma, un artista non solo smorfie, lazzi e battute…
Un artista che ha progetti importanti per il futuro.
E’ vero. Sto preparando un nuovo spettacolo teatrale, ironico e toccante, intitolato “Ho chiesto il permesso di Dio”, che si avvarrà anche di un coro gospel. Lo porterò in giro in tutta Italia, comprese Salerno e Napoli. E poi ho in lavorazione una fiction televisiva che andrà in onda sulla Rai il prossimo autunno, di cui sono autore e attore protagonista…
Di che parlerà?
E’ la storia di un preside di origini salernitane di una scuola superiore del rione Scampia. Toccherò temi molto forti, con l’intenzione dichiarata di rappresentare la Napoli vera. Napoli non è solo delinquenza, Napoli è fatta di persone pulite e di persone sane. Il vero napoletano ha un animo nobile, la feccia viene da fuori. E’ il mio modo per dare un contributo alla rinascita del Mezzogiorno. Anche perché io ho un dovere nei confronti di Dio, che mi ha regalato una famiglia sana e mi ha donato il dono dell’arte. 
Quale dovere?
Utilizzare il dono dell’arte in un meccanismo di bene e non solo di arrivismo e di egoismo. Ecco perché ho accettato la proposta della Regione Campania di essere il testimonial di uno spot sociale per i ragazzi di Scampia…
 
 (La Città di Salerno, 19 marzo 2006)
 
 
Carta d’identità
 
Angelo Di Gennaro è nato a Napoli l’11 gennaio 1957
Sposato con Mariagrazia Marchei, due figli (Fabrizio di 20 anni e Daniele di 17 anni)
Hobby: giocare a carte (in particolare a “tre a chiamare”)
Film preferito: la commedia all’italiana in bianco e nero, da Alberto Sordi a Tognazzi
Libro sul comodino: libri di psicologia e di filosofia 
Filmografia: Aitanic (2000); Amore con la S maiuscola (2002); Ladri di barzellette (2004); Lista civica di provocazione, San Gennaro votaci tu! (2005)

 

Intervista ad Antonio Ferraioli, industriale

di Mario Avagliano
 
Il gruppo La Doria è uno dei principali player europei del settore del pomodoro, dei legumi e dei succhi di frutta. I numeri parlano da soli: mezzo secolo di vita, un fatturato consolidato di 380 milioni di euro, cinque stabilimenti dislocati in parte in Campania e in parte in Emilia Romagna, una società di trading controllata nel Regno Unito, partnership con colossi del settore alimentare come Heinz e Gerber Foods, circa 1200 dipendenti fissi o stagionali. Presente nelle più importanti catene della grande distribuzione e del discount sia in Italia che all'estero, La Doria è il primo produttore italiano di legumi in scatola ed il secondo produttore di derivati del pomodoro e succhi di frutta. A guidare il gruppo dalla sede centrale di Angri, in via Nazionale, è l’amministratore delegato Antonio Ferraioli, 51 anni, sposato, angrese di nascita, anche se residente a Cava de’ Tirreni. 
 
Com’era la Angri della sua infanzia e come ricorda quel periodo? 
Molto diversa da oggi, aveva forse un aspetto più  “rurale” ma francamente la trovo cambiata in peggio: il disordine urbanistico ed il traffico sono i tratti distintivi in negativo della Angri attuale.
Com'è nata la Doria? Qual è la sua storia come industria? 
La Doria è nata nel 1954 ad opera di mio padre Diodato Ferraioli. All’epoca l’Agro-Nocerino-Sarnese era un’area con un’agricoltura molto fiorente  e le industrie di trasformazione nascevano  per trasformare la materia prima agricola in prodotti (in quel periodo soprattutto pomodori pelati) con un mercato crescente sia in Italia che all’estero. Oggi La Doria è una realtà con un fatturato consolidato di 380 milioni di euro e 5 stabilimenti produttivi in Italia.
Lei personalmente quando e come mosse i primi passi nel mondo dell'industria?
Ho iniziato a lavorare in azienda molto giovane, subito dopo il diploma di scuola media superiore.
Come ha fatto la famiglia Ferraioli a trasformare La Doria in uno dei principali gruppi italiani leader nella produzione e commercializzazione di derivati del pomodoro, di legumi in scatola, di succhi di frutta?  
Il nostro è un settore in cui, a mio avviso, la dimensione è un elemento fondamentale per la competitività. I nostri prodotti vengono distribuiti dalle catene della Grande Distribuzione Organizzata. Tali operatori sono di dimensioni molto rilevanti e richiedono un servizio ed una qualità sempre all’altezza oltre ad esercitare una continua pressione al contenimento dei costi d’acquisto. Solo dimensioni rilevanti possono assicurare le economie di scala e gli investimenti necessari per essere competitivi sul mercato. Inoltre, i nostri sono prodotti a basso valore aggiunto e con un mercato ormai maturo . Pertanto, in tale contesto la dimensione aziendale è sempre più un fattore critico di successo. Partendo da questo presupposto abbiamo sempre cercato di investire al fine di avere non solo volumi maggiori ma anche una diversificazione produttiva. Di recente la quotazione in Borsa, risalente a novembre 1995, ha fornito all’epoca i mezzi per supportare in maniera adeguata, dal punto di vista finanziario, tale crescita.
Il fatturato della Doria viene realizzato per il 34,2% sul mercato domestico e per il 65,8% all'estero. Come siete riusciti a creare questa rete internazionale di commercializzazione del prodotto?  
Il nostro è un comparto fortemente orientato all’export e sin dall’inizio la nostra azienda è stata orientata alla vendita sui mercati esteri. Oggi esportiamo in numerosi Paesi e controlliamo una società di trading nel Regno Unito.
Quanto conta la dimensione familiare in un'impresa come la vostra? 
Ritengo il capitalismo familiare uno dei fattori che ha maggiormente contribuito alla crescita economica del nostro  Paese. Ritengo, però, che tale capitalismo debba essere oggi più aperto rispetto al passato. Vi è bisogno di più trasparenza, maggiore comunicazione, apertura anche a capitali esterni (Borsa, Venture Capital, Merchant Banking), tutti fattori indispensabili per garantire la crescita e la sopravvivenza aziendale. Vi è bisogno di capire  sino in fondo che l’azienda deve essere qualcosa di realmente autonoma dalla figura dell’imprenditore e deve essere  in grado di sopravvivere allo stesso. Vi è  bisogno di organizzazione e di managerialità
Quanto è difficile fare impresa nel Mezzogiorno e particolarmente a Salerno e in Provincia? 
I problemi sono quelli sul tappeto ormai da anni: carenze di infrastrutture, assenze di aree industriali degne di questo nome, iter burocratici lenti, scarsa attenzione delle istituzioni, anche a livello locale, alle problematiche dell’impresa. 
Come giudica l'attuale stato dell'economia italiana?
A livello nazionale stiamo pagando le ridotte dimensioni delle ns. imprese, l’assenza di “campioni nazionali” leader a livello mondiale nei propri settori, la scarsa presenza nei comparti più avanzati e maggiormente innovativi. Non vi è stato, inoltre, a livello politico negli ultimi anni un’attenzione alla crescita delle imprese, non vi sono stati provvedimenti quali la riduzione della tassazione sulle imprese e la riduzione del costo del lavoro, il completamento delle privatizzazioni, la promozione di una reale concorrenza nel settore delle “utilities”.  Tale inerzia ha provocato una drastica caduta degli indici di competitività del nostro Paese ed una crescita economica dell’Italia nettamente inferiore a quella degli altri paesi europei.
E in che condizioni si trova il sistema economico salernitano?
L’economia salernitana vive attualmente un momento critico. Vi è stata la chiusura di alcune imprese che garantivano una notevole occupazione sul territorio, altre sono in crisi, lo stesso settore conserviero attraversa una difficile congiuntura.
Ci sono altri imprenditori salernitani che hanno la possibilità e la capacità di esportare il loro marchio a livello nazionale e internazionale?
Nel salernitano ci sono imprenditori validissimi ed anche marchi molto noti; per rimanere nel settore alimentare, basti citare la Pasta Amato che da decenni è presente sul mercato nazionale ed estero.
Quali sono i prossimi obiettivi economici della Doria? 
La Doria deve continuare nel suo processo di crescita. Attualmente siamo impegnati in un consolidamento e razionalizzazione della struttura produttiva e societaria volta alla riduzione dei costi e ad una maggiore efficienza ed efficacia gestionale. Si tratta di una fase propedeutica ad una ulteriore  successiva espansione.
State lavorando a nuovi prodotti? 
Lavoriamo continuamente all’innovazione di processo e di prodotto  che è essenziale per mantenere ed accrescere la nostra competitività.
La Doria costituisce l'esempio di un'impresa salernitana e di imprenditori salernitani che hanno costruito il loro successo nella propria terra. Qual è il vostro segreto?
Non ci sono segreti. E’ necessario avere una chiara ed approfondita conoscenza del settore in cui si opera e soprattutto fare scelte imprenditoriali che hanno una visione orientata al lungo periodo.
Quando si dice Doria, si pensa innanzitutto al pomodoro. Com'è il pomodoro targato Doria?
Il pomodoro targato La Doria è molto spesso targato con le etichette della grande distribuzione italiana ed estera.  Siamo leader, infatti, nel segmento delle private label, che sono i marchi commerciali della GDO (Grande Distribuzione Organizzata). 
Quant'è vicina la Cina ad Angri? Anche le nostre industrie alimentari devono temere l'arrivo dei cinesi? 
Certamente. La Cina è già oggi il principale esportatore a livello mondiale di concentrato di pomodoro. Al momento è poco presente nei prodotti più tipicamente italiani (pelati e polpa) ma, considerando la velocità della loro evoluzione tecnico-produttiva, a breve potrebbero diventare nostri concorrenti anche per questi prodotti, soprattutto per i mercati esteri. 
Qual è il rapporto del gruppo Doria con Angri e con la provincia di Salerno? 
Ci riteniamo storicamente ed indissolubilmente legati al salernitano. La Sede del nostro Gruppo è rimasta ad Angri, anche se oggi, su 5 stabilimenti produttivi, uno è a Fisciano e 2 sono fuori Regione, a Faenza, in provincia di Ravenna, ed abbiamo una controllata all’estero. Ritengo, però, che vi debba essere una maggiore attenzione alle aziende conserviere operanti in Campania. La materia prima (pomodoro) viene acquistata, in gran parte, dalla Puglia con un’alta incidenza dei costi di trasporto. Molte aziende, in assenza o con il vanificarsi di altri vantaggi, potrebbero considerare una delocalizzazione verso quella Regione.
Che giudizio ha di Angri e di Salerno? Sono cresciute o sono peggiorate rispetto al periodo della sua infanzia? 
Le nostre città sono cambiate rispetto al  passato, devo dire spesso non in meglio. Quello che colpisce quando si fa un paragone con altre realtà territoriali del Centro/Nord Italia è il disordine urbanistico, il traffico caotico, l’assenza di aree pedonali, di verde attrezzato, di servizi. Tutto ciò porta ad un grado di vivibilità molto basso. Basti dire che ad Angri, dov’è localizzato il nostro primo e più grande stabilimento, hanno costruito, intorno a tale sito industriale, un quartiere residenziale. Dove prima vi erano solo terreni di natura agricola ora vi è una miriade di abitazioni. Un’area a vocazione industriale (oltre al ns. stabilimento, nella zona ve ne sono altri e vi è anche una sede della Stazione Sperimentale) è stata trasformata in qualcosa di indefinibile. E’ facile immaginare qual è oggi il grado di vivibilità di questa area sia per i cittadini che per le industrie. Ciò non deriva da colpe specifiche dell’attuale Amministrazione Comunale ma da una serie di scelte, a mio avviso, sbagliate effettuate negli ultimi 30 anni.
Per quanto concerne Salerno, devo dire che negli ultimi 10 anni è migliorata moltissimo. Oggi è certamente una città più bella e vivibile anche se tante cose restano ancora da fare. Si vede, però, che vi è stata da parte dell’Amministrazione locale una coerente progettualità, forse solo in parte realizzata.
Quando non lavora, che cosa le piace fare? Quali sono i suoi hobby? 
La lettura, il cinema, fare jogging.
Lei è un grande capitano d'industria. Quali componenti caratteriali deve avere un manager di successo?
Penso che un imprenditore che è chiamato ad investire ed a rischiare debba avere innanzitutto  fiducia in sé stesso e negli altri ( i collaboratori che si è scelto), debba essere capace di delegare e di motivare i propri collaboratori, è indispensabile poi una certa dose di ottimismo (cercare di vedere il bicchiere anche mezzo pieno e non solo la metà vuota). E’ necessario credere negli obiettivi che ci si pone ed impegnarsi al limite delle proprie forze per raggiungerli.
 
 
(La Città di Salerno, 30 ottobre 2005)
 
 
Carta d'identità 
 
Antonio Ferraioli, Amministratore Delegato La Doria SpA
Luogo e data di nascita: Angri, 15 aprile 1954
Sposato: Si
Figli:  3
Titolo di studio: Diploma Istituto Tecnico Commerciale
Hobby: Lettura, Cinema, Jogging
Libro preferito: La lingua salvata di E. Canetti
Film preferito: Philadelphia di J. Van Damme
Cariche sociali:
Dal 1972 opera nell’Azienda di famiglia - La Doria S.p.A- e dal 1984 è Amministratore Delegato della stessa azienda.
Presidente Consiglio di Amministrazione: LDH (La Doria) Ltd con sede in UK - Pomagro S.r.L. con sede a Fisciano (Sa)
Amministratore Delegato: Confruit S.p.A. con sede in Faenza (Ra) - Sanafrutta S.p.A. con sede in Faenza (Ra)
 

Intervista ad Antonio Petti, disegnatore

di Mario Avagliano
 
Il “suo” Pinocchio napoletano, ribelle e anticonformista, più vicino a Masaniello che al modello di Collodi, è stato il soggetto di mostre di successo a Roma, a Napoli e in molte città italiane, è stato rappresentato a teatro e orna anche il parco Lungoirno di Salerno, con un monumento di bronzo e di mosaici colorati. E Antonio Petti, classe 1936, disegnatore, scenografo, uno dei maggiori artisti salernitani, si sente un po’ un Pinocchio e un po’ Pulcinella. Intervistato da la Città, ripercorre la sua carriera ed esprime un duro giudizio sulla Salerno di oggi: “E’ una città senz’anima, anche dal punto di vista culturale ed artistico”.
 
Lei è cresciuto a Napoli?
Sono nato nel centro storico di Napoli, nel quartiere Vasto, ma i miei genitori erano di Nocera Inferiore. Mio padre Natale era impiegato al Tribunale di Napoli e mia madre Anna Marte era casalinga.
Quando ha iniziato a disegnare?
Ero un bambino irrequieto, e così a 9 anni d’età fui mandato a Spoleto, in Umbria, presso il convitto dell’Enpas. Lì ebbi la fortuna di incontrare un istitutore, Luigi Ciacco, che s’interessava d’arte, di cultura e di cinema, e che mi trasmise le sue passioni, facendomi conoscere e frequentare alcuni artisti umbri. Fu in quel periodo che cominciai a disegnare. Ero affascinato dalla magia del foglio bianco da riempire d’inchiostro. E’ un’emozione che provo ancora oggi.
Lei da giovane è stato molto impegnato in politica.
E’ vero. Tornato a Napoli all’età di 16 anni, frequentai per qualche tempo il Liceo classico “Garibaldi”. Tuttavia avevo un forte desiderio di libertà e di partecipare ai fatti della vita. La realtà mi prendeva. Così lasciai la scuola e m’iscrissi al Pci, alla sezione Vicaria, e m’impegnai anima e corpo alla lotta politica.
Perché il Pci?
Mio fratello Gerardo era comunista e poi tutto mi portava lì, le mie radici popolari, la mia sensibilità solidale, le mie letture, da Dostojesky a Hemingway, da Steinbeck a Gorky. Ho un ricordo bellissimo di quegli anni. Conobbi personaggi di grande valore, come Renato Caccioppoli, matematico insigne, eretico e lucido compagno di strada del Pci, protagonista della vita culturale di Napoli, che poi ha ispirato il film “Morte di un matematico napoletano” di Mario Martone, o come gli scrittori Luigi Incoronato, Aldo De Jaco e Enzo Striano, l’autore del bestseller “Il resto di niente”.
E l’arte? 
Proseguii gli studi artistici da autodidatta. Presi la maturità al Liceo Artistico di Napoli da privatista e frequentai saltuariamente l’Accademia di Belle Arti e la facoltà di Architettura, senza peraltro laurearmi. Nel frattempo sviluppavo la mia ricerca grafica e cominciai ad insegnare nelle scuole.
E’ attraverso l’insegnamento che è arrivato a Salerno.
Nel ’65 ebbi l’incarico all’Istituto parificato “Colautti”, poi insegnai a Teggiano e a Sala Consilina, e infine conobbi mia moglie Rina e mi trasferii definitivamente a Salerno. 
Come le sembrò Salerno?
L’impatto fu tragico. C’era la totale assenza di vita culturale. Io venivo dalla realtà napoletana, vivace, ricca di fermenti, e quindi all’inizio faticai ad integrarmi.
Quale fu la sua prima mostra importante?
Fu una mostra a Napoli, nel 1968, alla Galleria San Carlo. Ricordo che fu presentata da Carlo Barbieri, critico della Rai, e che fu recensita anche da Filiberto Menna sulle colonne del Mattino. Io allora lavoravo attorno alle strutture astratte. I miei disegni erano influenzati da una visione razionale dell’arte e della vita.
Negli anni Settanta anche a Salerno ci fu un periodo di grande vivacità artistica e culturale.
C’erano grossi personaggi come Filiberto Menna, Achille Bonito Oliva, Edoardo Sanguineti e soprattutto Luigi Giordano, che guidò a lungo l’Arci, organizzò importanti rassegne di poesia, di letteratura e di teatro e portò a Salerno alcuni grossi gruppi teatrali di fama internazionale, come il Living Theather di Julian Beck e Judith Melina. Devo tuttavia aggiungere che non riuscimmo a coinvolgere la città. La Salerno vera era separata dai movimenti degli intellettuali e andava oltre, tanto è vero che votava a destra.
Lei ha dedicato molti suoi lavori a Masaniello e a Pinocchio. Cosa hanno in comune questi due personaggi?
Masaniello è il ribelle. La sua ribellione primitiva, irrazionale, libertaria, somiglia in qualche modo a quella di Pinocchio, che è il simbolo della ribellione dell’innocenza, dell’infanzia, alle regole degli adulti.
Il suo Pinocchio, però, non è esattamente quello di Collodi.
Il mio Pinocchio è napoletano, e quindi è irridente come Pulcinella. E’ la metafora del mio modo di vedere la vita.
Pinocchio e Masaniello sono personaggi autobiografici?
Mi sento un po’ come loro, anche se con una differenza importante. Il mio sfogo, la mia ribellione, si esprimono sul foglio di carta, attraverso l’arte.
Che cos’è l’arte per lei?
L’arte è un gioco, non è la realtà. In passato, come molti altri, pensavo che l’arte potesse essere risolutiva, potesse contribuire a cambiare le cose. Ora non lo credo più. Purtroppo.
Questa consapevolezza ha cambiato anche il suo modo di disegnare?
Eccome. Prima il mio tratto era più duro, più deciso. Ora disegno figure un po’ fantastiche, separate dalla realtà. Credo che sia frutto di una visione più matura del mondo e della vita, più distaccata.
Qual è la mostra alla quale è più legato dal punto di vista affettivo?
La mostra “Disegni per Masaniello”, che si tenne nel 1979 a Roma e poi presso la galleria Il Portico di Cava de’ Tirreni, diretta da Sabato Calvanese e Tommaso Avagliano, e fu presentata da Domenico Rea ed Enzo Striano. Tutte persone che mi sono rimaste care nel tempo.
Che tipo era Domenico Rea?
Una persona all’apparenza amena ma in realtà assai seria e professionale. Impiegava giorni per scrivere una pagina. Era uno che andava in fondo alle cose e conosceva bene gli uomini.
Qual è la raccolta di disegni della quale va più fiero?
I disegni de “Il Vangelo di Luca”, che pubblicai nel 1976. E’ una raccolta di disegni civili. Era un tempo in cui si sperava molto e si lottava. C’era una coscienza ideale e morale nel nostro Paese e una forte spinta al cambiamento. 
Come definirebbe la sua arte?
Un’arte autonoma, indipendente dalle mode. Sono sempre andato controcorrente.
La sua tecnica preferita è il disegno.
Sì, io amo il pennino e l’inchiostro di china. Per me riempire la carta bianca è sempre un momento magico e affascinante. E’ un po’ come fare l’amore: si prova sofferenza, trasporto e anche il sentimento del tradimento, quando quello che volevi non ti riesce. 
Nel corso della sua carriera, lei ha lavorato molto anche per il teatro, come scenografo. Come mai?
Non è stata una cosa voluta, probabilmente il mio mondo artistico si sposa bene con il teatro. Quando cominciai a lavorare intorno alle figure e alle maschere, i teatranti vennero a cercarmi e a propormi progetti comuni. Tra i progetti più belli ai quali ho lavorato come scenografo e costumista, c’è lo spettacolo "La Ballata di Pinocchio" di Luigi Compagnone, prodotto dal Teatro Studio di Salerno, in scena al Mercadante di Napoli, che ha visto la partecipazione del mimo Michele Monetta ed ha vinto il I Premio al "Festival Nazionale Teatro Ragazzi" a Padova, 19° edizione.
Come giudica la Salerno di oggi?
Mi sembra una città un po’ scollata, senza identità; non disperata, ma assente rispetto alla realtà. Insomma, una città senz’anima, anche dal punto di vista artistico e culturale. A parte l’eccezione lodevole delle grandi mostre di Picasso e di Mirò, per il resto regna il niente.
Pietro Lista sostiene che a Salerno si avverte la mancanza di Filiberto Menna. Condivide?
Guardi, senza nulla togliere a Filiberto Menna, del quale ho avuto sempre grande stima, io sento la mancanza di Luigi Giordano, che ha rappresentato una coscienza vigile della città, è cresciuto nella città e della città e ha dato tantissimo a Salerno.
Tra gli artisti salernitani, chi stima di più?
Apprezzo il rigore artistico e l’onestà dello scultore e pittore Antonio Della Garzia. 
E tra i giovani?
Ritengo che uno dei talenti emergenti più interessanti sia Marco Vecchio, figlio di Sergio Vecchio.
A che cosa sta lavorando in questo momento?
Sto preparando una raccolta di 80-90 disegni che presenterò a settembre a Cava de’ Tirreni, nel complesso di S. Maria del Rifugio. Sono disegni fantastici, un po’ aerei. Sarà l’occasione per il mio ritorno a Cava, una città che amo molto, è stata compagna di viaggio della mia vita e che mi ha dato tanto affetto e amicizia.  
 
(La Città di Salerno, 7 maggio 2006)
 
 
Carta d’identità
 
Antonio Petti è nato a Napoli il 18 giugno 1936 e vive a Salerno dal 1965.
E’ sposato con Rina Del Duca, cilentana di Vallo della Lucania, ha due figli (Maria Giulia e Francesco) e due nipoti.
Hobby: la lettura.
Libri preferiti: i romanzi di Louis-Ferdinand Céline.
Film del cuore: “La strada”, di Federico Fellini.
 
Carriera: Disegnatore e scenografo, si è dedicato alla ricerca grafica fin da giovanissimo. Ha esposto i suoi lavori in mostre personali e collettive, in Italia ed all'estero. Della sua grafica si sono occupati, con recensioni e presentazioni, scrittori e critici di chiara fama, come Edoardo Sanguineti, Filiberto Menna, Paolo Ricci, Enrico Crispolti, Enzo Striano, Luigi Compagnone, Domenico Rea, Dario Micacchi, Francesco Vincitorio, Aldo Trione.
Ha realizzato il "Monumento a Pinocchio", in bronzo e pietre colorate, collocato nel Parco Lungoirno di Salerno.
Per il teatro ha creato scenografie e costumi. Lo spettacolo "La Ballata di Pinocchio" di Luigi Compagnone, prodotto dal Teatro Studio di Salerno, ha vinto, anche grazie alle sue scene ed ai suoi costumi, il I Premio al "Festival Nazionale Teatro Ragazzi" a Padova, 19° edizione.
È autore del romanzo "Città della luna" (1998), edito da Piero Manni in Lecce, da cui è stato tratto uno spettacolo teatrale di grande intensità.
È autore dei seguenti libri di disegni: Il Vangelo di Luca, prefazione di Dario Micacchi, Ed. «Palladio», 1976; Disegni per il Novellino, prefazione di Enrico Crispolti, Ed. «Laveglia», 1976; Disegni per Masaniello, prefazione di Domenico Rea ed Enzo Striano, Ed. «Il Lavoro Tirreno», 1979; Pinocchio, cartella di sei acqueforti con presentazione di Luigi Compagnone, Ed. «Il Laboratorio», 1982; Nero di China, prefazione di Vitaliano Corbi, Ed. «Loffredo», 1998.
Ha curato le illustrazioni de "Lo cunto de li cunti" di Giambattista Basile, commissionatagli dal Parco Letterario di Bracigliano (Salerno).
I disegni si trovano ora nel Museo della Fiaba di Giffoni Sei Casali (Salerno). 
Per l'editore Loffredo di Napoli ha scritto vari testi di Educazione Artistica adottati in tutt'Italia.
Ha inoltre collaborato, come disegnatore ed illustratore, a vari quotidiani e riviste. Tra essi si segnalano: «Il Mattino», «Il Mattino Illustrato», «Paese Sera», «La Voce della Campania», «Il Corriere di Napoli», «Quaderni Emiliani», «Oggi».
 
 
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