Eichmann, il boia nazista chiese la grazia a Gerusalemme

di Mario Avagliano
 
   Fino all’ultimo momento il criminale nazista Adolf Eichmann provò a negare le sue responsabilità nella Shoah, affermando di essere stato un «semplice strumento» di Adolf Hitler. È quanto risulta dalla lettera manoscritta dello stesso Eichmann, datata 29 maggio 1962, che oggi, in occasione della Giornata della Memoria, il presidente israeliano Reuven Rivlin ha deciso per la prima volta di rendere pubblica. Una missiva di quattro pagine, indirizzata all'allora presidente d’Israele Yitzhak Ben-Zvi, di cui già si conosceva l’esistenza (ne aveva parlato tra gli altri Hannah Arendt nel suo libro La banalità del male), ma non il contenuto.
Nella lettera Eichmann sosteneva che il tribunale israeliano avesse esagerato il suo ruolo nell'organizzazione della logistica della «soluzione finale», vale a dire nello sterminio degli ebrei. «Bisogna distinguere i responsabili dalle persone che come me sono state semplici strumenti nelle loro mani», scrisse l'ex ufficiale delle SS. «Io non ero un responsabile e non mi sento quindi colpevole» (...) «pertanto non ritengo giusto il giudizio della corte e vi chiedo, signor presidente, di esercitare il vostro diritto a concedermi la grazia, così che la condanna a morte non venga eseguita».
In realtà il funzionario tedesco, classe 1906, era stato uno dei protagonisti della persecuzione degli ebrei in Europa. Già all’età di ventotto anni venne incaricato dalla Gestapo di occuparsi della questione ebraica. Segretario della conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942 che decise la «soluzione finale», curò in prima persona il meticoloso piano dei trasporti ferroviari di deportazione degli ebrei, contribuendo al perfetto funzionamento della macchina di morte nei lager di Auschwitz e della Polonia orientale (Belzec, Sobibor, Treblinka).
Nel 1945 Eichmann, al pari di altri gerarchi nazisti, riuscì a far perdere le proprie tracce, imbarcandosi nel 1950 a Genova per l’Argentina, con un passaporto falso intestato a Ricardo Klement. Il funzionario nazista lavorava in uno stabilimento della Mercedes a Buenos Aires quando venne individuato dagli agenti del Mossad, i servizi segreti israeliani. Rapito l’11 maggio 1960, fu trasportato a bordo di un aereo in Israele, dove venne processato e condannato a morte nel 1961.
La lettera – insieme a quella con cui Ben-Zvi respinse la richiesta di grazia – è stata esposta nella residenza dell’attuale presidente israeliano Reuven Rivlin, nell’ambito di una mostra inaugurata ieri e dedicata al celebre processo del 1961, che riaccese l’attenzione sulla Shoah, mandato in onda in diretta tv mondiale e svoltosi presso il Beit Haam, la Casa del Popolo di Gerusalemme.
Proprio in questi giorni è uscito in numerose sale cinematografiche italiane, come evento speciale per la Giornata della Memoria, The Eichmann Show, film di produzione britannica, diretto da Paul Andrew Williams, che ripercorre tutte le tappe produttive della diretta televisiva delle 121 udienze del processo, narrando fra l’altro, grazie a videocamere nascoste, le reazioni di Eichmann di fronte alle testimonianze dei sopravvissuti.
Eichmann venne impiccato poco prima di mezzanotte del 31 maggio 1962 in una prigione a Ramia. Come prescriveva il verdetto, il suo cadavere venne cremato e le sue ceneri disperse da una motovedetta israeliana nel Mediterraneo, al di fuori delle acque territoriali d’Israele. Il suo processo venne seguito per la rivista New Yorker da Hannah Arendt, che lo descrisse come «un esangue burocrate» che si limitava ad eseguire gli ordini e ad obbedire alle leggi. Una tesi poi messa in discussione da vari studiosi e che è stata di recente demolita da un saggio della filosofa tedesca Bettina Stangneth, intitolato Eichmann prima di Gerusalemme. La vita non verificata di un assassino di massa, che lo ha identificato come un carrierista rampante e ambizioso e un nazista fanatico e cinico, che agì con incondizionato impegno per difendere la purezza del sangue tedesco dalla «contaminazione ebraica».

(Il Messaggero e Il Mattino, 28 gennaio 2016)

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Storie – Il razzista Emilio Cecchi

di Mario Avagliano

   Il razzismo italiano del Novecento si abbeverò anche alla fonte avvelenata di fini letterati come Emilio Cecchi, l'autore di "Pesci rossi" (1920) e di "America amara" (1939), che per gran parte del secolo scorso fu uno dei maggiori critici italiani, recensendo la produzione letteraria specialmente sulla terza pagina del Corriere della Sera. Lo mette in luce, con ricchezza di documentazione, il saggio di Bruno Pischedda "L'idioma molesto. Cecchi e la letteratura novecentesca a sfondo razziale" (Aragno, pp. 313).
Cattolico reazionario, anche se di spirito crociano, Cecchi nel 1925 firmò il manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce, salvo poi piegarsi al regime fascista negli anni successivi, tanto da essere designato nell'Accademia d'Italia.
Nella ricostruzione di Pischedda, scopriamo che già agli esordi sulla Tribuna nel 1910 il critico fiorentino parla di stirpe e cita frequentemente autori stranieri razzisti, spargendo qua e là nei suoi scritti chiare espressioni o riferimenti antisemiti.
Nel 1938, l'anno delle leggi razziali, Cecchi s'imbarca per gli Stati Uniti e dal viaggio oltreoceano ricava un reportage in cui risulta evidente il terrore del meticciato e della mescolanza etnica e il forte sospetto verso la comunità ebraica, vista come un elemento parassitario e dissolvitore del mondo occidentale.
Nel 1942, poi, Cecchi prenderà la parola al convegno di Weimar voluto da Goebbels come rappresentante ufficiale dell'Italia.
Un passato scomodo che poi farà dimenticare nel dopoguerra, cancellandone in qualche modo le tracce, al pari di tanti altri illustri italiani che non furono solo complici ma contribuirono direttamente a diffondere il verbo razzista nel nostro Paese.

(L’Unione Informa e Moked.it del 12 gennaio 2016)

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Storie – Febbre all’alba del dopo lager

di Mario Avagliano

   Rivivere dopo il lager, grazie alla forza dell’amore. È la storia autobiografica raccontata da Péter Gárdos nel romanzo "Febbre all'alba" (Collana Narratori Stranieri, pag. 234, €17, traduzione di Andrea Rényi), nel quale il regista ungherese ricostruisce l'innamoramento dei suoi genitori, sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti (il padre era stato deportato nel lager di Bergen Belsen) e trasportati in sanatori in Svezia per curarsi.

E' il luglio del 1945 quando Miklos, ridotto pelle e ossa e con una brutta malattia polmonare, raggiunge un campo profughi in Svezia. I medici lo avvertono che ha pochi mesi di vita, ma lui compila una lista di 117 giovani donne, ungheresi come lui, che hanno trovato asilo in altri campi svedesi e, volendo trovare moglie, invia a ciascuna di loro una lettera.
La scintilla scoppia con la diciottenne Lili, anche lei ricoverata. Sarà quel sentimento nato dopo l’orrore del lager a riportarlo alla vita e fargli superare la malattia, nonostante il parere contrario dei medici.
Il figlio Péter, frutto di quella unione, scoprirà com’era nata la storia d’amore dei due genitori solo dopo la morte del padre, quando la madre gli svelerà quel segreto di famiglia, tenuto nascosto per tanto tempo, consegnandogli le circa cento lettere che si erano scambiati all’epoca.
"I miei genitori non mi hanno mai parlato della deportazione, né dei campi, la mia sensazione è che si vergognassero di essere sopravvissuti", ha spiegato Gardos presentando un paio di settimane fa a Milano sia il libro sia un'anteprima del film che ne ha tratto.
Una storia toccante, che ritrae il mondo dei sopravvissuti dei lager e del loro difficile reinserimento nella vita civile. Lo stesso tema affrontato da “Anita B.” di Roberto Faenza.

(L’Unione Informa e Moked.it del 15 dicembre 2015)

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Storie – Zamboni e il tentativo di salvare gli ebrei di Grecia

di Mario Avagliano

    I Palatucci e i Perlasca non furono casi isolati. Un altro funzionario italiano si attivò con le armi della burocrazia e con profondo senso di umanità per salvare gli ebrei in quegli anni tragici: il console a Salonicco Guelfo Zamboni, che nel '92 fu riconosciuto come Giusto delle nazioni dallo Yad Vashem. E non agì da solo: gli incaricati dell’ambasciata italiana a Berlino gli diedero man forte.

La vicenda di Zamboni era già in parte conosciuta. Di recente, però, come rivelato dal Corriere della Sera, la storica Sara Berger, ricercatrice del Museo della Shoah in via di costituzione a Roma, ha rintracciato nell'Archivio politico degli Affari esteri tedeschi di Berlino il carteggio tra il governo fascista e l’alleato tedesco sulla deportazione da Salonicco di 75 ebrei italiani (o presunti tali, molti di loro erano stati fatti passare come tali dallo stesso Zamboni, allo scopo di sottrarli ai nazisti), che nella tarda primavera del ’43, poco prima della caduta di Mussolini, fece scoppiare un vero e proprio caso diplomatico.
Tutto partì da una nota dell’ambasciata italiana a Berlino del 14 maggio 1943, ispirata dallo stesso Zamboni: «La Regia Ambasciata è stata incaricata di voler pregare il Ministero degli Affari Esteri del Reich affinché vengano annullati i provvedimenti erroneamente adottati e si provveda di conseguenza al ritorno alle rispettive residenze degli ebrei in questione che risultano deportati, al rintraccio degli smarriti, ed alla liberazione di quelli già internati in campi di concentramento».
Che cosa era successo? Adolf Eichmann, Obersturmbannführer delle SS che da marzo aveva organizzato la deportazione ad Auschwitz e Treblinka di 55 mila ebrei greci, per «errore» aveva arrestato a Salonicco anche alcuni ebrei italiani.
Il regime fascista, su pressione di Zamboni, chiede che siano rimandati indietro, «in quanto il governo italiano si sente obbligato a proteggerli per motivi morali, patriottici o per interessi nazionali», informa la Regia ambasciata il 15 giugno 1943.
Nella lista dei 75 ebrei rivendicati dall'Italia figura Doudoun Levi Venezia, la nonna di Shlomo Venezia, autore del libro Sonderkommando, uno degli ultimi sopravvissuti delle squadre di prigionieri costrette a lavorare tra forni e camere a gas di Birkenau per portare via i cadaveri. Dettaglio importante: lo storico Marcello Pezzetti fa notare che nella lettera del 14 maggio 1943 si legge che «è stata deportata in Polonia». Ovvero: «Il governo italiano sa di Auschwitz».
Purtroppo ormai è tardi. L'ambasciata italiana insiste e Eberhard von Thadden, del ministero degli Esteri tedesco, scrive il 19 giugno ad Eichmann, chiedendogli di «rintracciare» e «mettere a disposizione degli italiani» le persone della lista. Ma la signora Venezia, partita a marzo, è stata uccisa all'arrivo.
Zamboni comunque riuscì a salvare circa 350 ebrei dalle deportazioni, ricorrendo allo stratagemma della nazionalità italiana provvisoria.

(L’Unione Informa, 12 giugno 2012)

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Shoah. Lo Yad Vashem rivede e mitiga il suo giudizio su Pio XII

  Opinioni ebraiche profondamente diversificate, e per certi versi anche contrapposte, di fronte alla revisione del testo che l'istituto Yad Vashem di Gerusalemme espone sotto le immagini del papa Pio XII. Il giudizio storico che ne emerge riguardo alle ambiguità del comportamento di papa Pacelli negli anni bui delle persecuzioni e della Shoah risulta nella nuova formulazione meno categorico e più prudente, lasciando aperte diverse interpretazioni.
Severo il giudizio del rabbino capo di Roma rav Riccardo Di Segni. "Il pannello di Yad Vashem critico nei confronti di Pio XII - commenta a caldo il Rav della prima comunità ebraica italiana - è stato sostituito con un testo più lungo che presenta due diversi e contrapposti giudizi lasciando le conclusioni in sospeso in attesa di ulteriori chiarimenti (timida allusione all'apertura degli Archivi vaticani). "Malgrado le patetiche smentite d'ufficio della direzione dello Yad Vashem - aggiunge - è difficile allontanare il dubbio che questo non sia il risultato delle pressioni diplomatiche vaticane. Accettando queste pressioni non era più possibile una critica del papa, ma anche una sua difesa sarebbe stata problematica, e allora è stata scelta questa strana soluzione. Che comunque non farà contenti i difensori di Pio XII e che a noi lascia l'amaro in bocca. Perché in un luogo come Yad Vashem la politica dovrebbe rimanere lontana e distinta. Perché non è accettabile che un gruppo di burocrati, diplomatici e forse anche di politici considerino le richieste vaticane - in cambio di chissà che cosa - più importanti per Israele delle nostre memorie dolorose".

Altrettanto duro l'ambasciatore Sergio Minerbi, esponente di spicco della comunità degli Italkim e considerato fra i massimi esperti delle relazioni fra Israele e il Vaticano.
"Che vergogna - commenta - è bastata una protesta del Nunzio della Santa Sede, per far cambiare allo Yad Vashem il testo della didascalia sotto la fotografia di Pio XII. Non so se sia per incompetenza in materia o per voler andar d'accordo con tutti, ed ignoro fino a qual punto abbia influito l'ebreo americano Gary Krupp, di Pave the Way, fiero della sua decorazione vaticana, la “patacca” di San Gregorio Magno. Nel nuovo testo, se verrà confermato, Yad Vashem agisce come se fosse neutrale in materia e si limita ad affermare che alcuni critici “sostengono che ci fu un fallimento morale”. Ma l'istituto non ha un'opinione propria su una questione tanto sensibile? E allora a che serve questa mastodontica istituzione, cosa insegna ai suoi numerosi ricercatori? Come è possibile ammettere che Yad Vashem si limiti a constatare che la reazione “di Pio XII è questione controversa fra gli studiosi”? Va in ogni caso ricordato che Pio XII non pronunciò una sola volta in pubblico la parola ebrei durante tutta la Seconda Guerra mondiale, questo punto almeno non è oggetto di controversia. Alla deportazione degli ebrei di Roma, Pio XII non reagì né in pubblico né in segreto. I suoi incontri diplomatici in quei giorni vertevano su Roma città aperta o sui rifornimenti alimentari e nulla più. Yad Vashem potrebbe agire secondo l'esempio di un gesuita, John Morley, che termina il suo libro sulla Shoah con queste parole:”Bisogna concludere che la diplomazia vaticana fallì nei confronti degli Ebrei durante l'Olocausto non facendo quanto era possibile fare (per venire) in loro aiuto.”

Molto diversa la prospettiva della storica Anna Foa: "Il cambiamento della didascalia su Pio XII al Museo di Yad Vashem era da tempo in programma. Contrariamente a quel che si è subito detto dai media, non mi sembra che la nuova didascalia rappresenti un ammorbidimento del giudizio rispetto a quella precedente, che esprimeva una recisa condanna della posizione di Pio XII verso lo sterminio degli ebrei europei. Quello che la nuova didascalia riflette è, mi sembra, un giudizio più che morale, storico: la consapevolezza che ci si trova all’interno di un dibattito ancora aperto, in cui molta nuova documentazione ha già contribuito a modificare le valutazioni e in cui ci si aspetta che l’apertura degli archivi per gli anni della guerra porti altri contributi rilevanti. La didascalia precedente era frutto, a mio avviso, di un giudizio dogmatico, assoluto, che prescindeva dall’esistenza di un dibattito a livello storiografico e dell’esistenza di nuova documentazione a livello dell’individuazione dei fatti. La nuova apre la strada ad ulteriori modifiche, in un senso o nell’altro, a dimostrazione che la storia si basa sui documenti e sulle interpretazioni, non sui pregiudizi politici o sul senso comune. E i responsabili di Yad Vashem hanno dimostrato, con questo gesto coraggioso, di esserne pienamente consapevoli".

"L'esigenza di una revisione della scritta illustrativa apposta sotto l'immagine di Pio XII allo Yad Vashem - conclude infine il diplomatico e saggista Vittorio Dan Segre - era da tempo avvertita e il fatto che l'istituto abbia ora deciso di metterci mano dimostra che siamo vicini a nuovi accordi complessivi fra Israele e Vaticano su cui si è a lungo lavorato e che potrebbero essere presto siglati. La battaglia di chi da parte ebraica vorrebbe condannare la figura di papa Pacelli a restare perennemente rinchiusa in una dimensione di condanna morale senza appello non è alla lunga sostenibile sotto il profilo politico e forse anche sotto quello storiografico. Ma quello che più conta è comprendere che l'argomento, da qualunque parte lo si voglia guardare, oggi è in grado di suscitare solo un interesse limitato nelle opinioni pubbliche che le parti in causa dovrebbero rappresentare. Certo interessa poco all'opinione pubblica israeliana e certo ancora di meno a un mondo cattolico che comincia a temere il moltiplicarsi di massacri ai danni delle popolazioni cristiane in Africa e nel mondo islamico. C'è un contenzioso da chiudere, fra Israele e il Vaticano, e questo deve avvenire nel migliore dei modi possibili senza lasciarsi condizionare eccessivamente dalle ferite che la storia ci ha lasciato in eredità".

Ecco in sequenza la vecchia formulazione della frase esposta in ebraico e in traduzione inglese, elaborata nel 2005 e la nuova formulazione ora annunciata.

Pius XII
In 1933, when he was Secretary of the Vatican State, he was active in obtaining a Concordat with the German regime to preserve the Church's rights in Germany, even if this meant recognizing the Nazi racist regime. When he was elected Pope in 1939, he shelved a letter against racism and anti-Semitism that his predecessor had prepared. Even when reports about the murder of Jews reached the Vatican, the Pope did not protest either verbally or in writing. In December 1942, he abstained from signing the Allied declaration condemning the extermination of the Jews. When Jews were deported from Rome to Auschwitz, the Pope did not intervene. The Pope maintained his neutral position throughout the war, with the exception of appeals to the rulers of Hungary and Slovakia towards its end. His silence and the absence of guidelines obliged Churchmen throughout Europe to decide on their own how to react.

The Vatican
The Vatican, under Pius XI, Achille Ratti, and represented by the Secretary of State Eugenio Pacelli, signed a concordat with Nazi Germany in July 1933, in order to preserve the rights of the Catholic Church in Germany.

The reaction of Pius XII, Eugenio Pacelli, to the murder of the Jews during the Holocaust is a matter of controversy among scholars. From the onset of World War II, the Vatican maintained a policy of neutrality. The Pontiff abstained from signing the Allies' declaration of December 17, 1942 condemning the extermination of the Jews. Yet, in his Christmas radio address of December 24, 1942 he referred to “the hundreds of thousands of persons who, without any fault on their part, sometimes only because of their nationality or ethnic origin (stirpe), have been consigned to death or to a slow decline.” Jews were not explicitly mentioned.
When Jews were deported from Rome to Auschwitz, the Pontiff did not publicly protest. The Holy See appealed separately to the rulers of Slovakia and Hungary on behalf of the Jews. The Pope’s critics claim that his decision to abstain from condemning the murder of the Jews by Nazi Germany constitutes a moral failure: the lack of clear guidance left room for many to collaborate with Nazi Germany, reassured by the thought that this did not contradict the Church’s moral teachings. It also left the initiative to rescue Jews to individual clerics and laymen. His defenders maintain that this neutrality prevented harsher measures against the Vatican and the Church's institutions throughout Europe, thus enabling a considerable number of secret rescue activities to take place at different levels of the Church. Moreover, they point to cases in which the Pontiff offered encouragement to activities in which Jews were rescued. Until all relevant material is available to scholars, this topic will remain open to further inquiry.

(L'Unione Informa, 2 luglio 2012)

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Storie – Il contributo degli Italkìm alla costruzione di Israele

di Mario Avagliano

    Lo Stato di Israele è stato costruito anche dagli ebrei italiani (gli Italkìm), tra cui il partigiano e sionista Enzo Sereni. E’ il tema della due giorni di studi che si è tenuta la settimana scorsa al Mishkenot Shaananim di Gerusalemme: «L'Italia in Israele: il contributo degli ebrei italiani alla nascita e allo sviluppo dello Stato d'Israele», organizzata dall'ambasciata italiana e da Hevrat Yehudè Italia.

Il convegno ha rappresentato il seguito naturale di quello tenutosi l’anno scorso per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia, in occasione della visita ufficiale del Presidente Giorgio Napolitano in Israele, che aveva puntato lo sguardo sull’affinità ideale tra il sionismo e il Risorgimento italiano.
La comunità degli ebrei italiani in Israele, pur essendo numericamente esigua, ha svolto un ruolo importante. Lo testimonia il volume pubblicato dalla Fondazione Corriere della Sera, intitolato Italia-Israele: gli ultimi 150 anni, presentato nella due giorni, che ha raccontato l'epopea dei primi cento ebrei italiani, per lo più intellettuali, emigrati in Palestina con il sogno del nuovo Stato.
La figura chiave è quella del romano Enzo Sereni, classe 1905, sionista e socialista, che fece aliyah in Palestina (allora sotto il mandato britannico) nel 1927 e fu tra i fondatori del mitico kibbutz di Givat Brenner, dove nacquero la secondogenita Hagar e il terzo figlio Daniel. Nel giugno 1944 Sereni, dopo un periodo di addestramento in Puglia, fu paracadutato nell’Italia del Nord per collaborare con la Resistenza. Catturato, fu rinchiuso a Bolzano e poi trasferito a Dachau, dove in novembre fu ucciso dai tedeschi. Sereni è stato celebrato in Israele con l’emissione di francobolli e l’intitolazione di un kibbutz.
Ma gli «italkìm» si distinsero anche nella ricerca scientifica, tecnologica, agricola, nel mondo universitario e in quello artistico e musicale.
Un’altra storia emozionante è quella del triestino Martino Godelli, pioniere del sionismo socialista italiano, sopravvissuto ad Auschwitz e immigrato in seguito nel kibbutz Netzer Sereni, di cui è stata proiettata una lunga intervista realizzata dal corrispondente Rai Claudio Pagliara.
La vicenda più incredibile è però quella del gruppo di circa settanta abitanti del paesino della provincia di Foggia, San Nicandro Garganico, guidato dal bracciante Donato Manduzio, che nel 1930 abbracciò l’ebraismo, resistette alle leggi razziali e, dopo la liberazione, tra il 1948 e il 1950 decise d'emigrare in Israele, alla quale è stato dedicato il film San Nicandro, Sefat. Il viaggio di Eti, del regista Vincenzo Condorelli. I loro discendenti vivono tuttora con le loro famiglie in Israele.

(L’Unione Informa, 3 luglio 2012)

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Storie – Sami Modiano e la deportazione da Rodi

di Mario Avagliano

Nella storia della deportazione italiana c’è anche il capitolo di Rodi, l’isola delle rose, passata all’Italia nel 1912, dove all’epoca vivevano insieme, pacificamente, ebrei, musulmani e cristiani. Anche in questo paradiso le leggi razziali fasciste del 1938 cambiarono la vita della comunità ebraica, stanziata nell’isola dal XVI secolo, ad esempio con la brutale espulsione dei ragazzi ebrei dalle scuole.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, Rodi passò sotto il controllo tedesco. Il 18 luglio 1944 i nazisti, con il pretesto di un controllo dei documenti, arrestarono i capifamiglia della comunità e il giorno dopo, come ha raccontato Sami Modiano nel bell’articolo realizzato da Umberto Gentiloni su La Stampa, «chiesero a tutti i familiari di fare un fagotto con i beni di prima necessità: cibo, vestiti e oggetti di valore. Cercavano soprattutto oro. In silenzio andammo anche noi verso la caserma, mio padre Giacobbe era già lì. Restammo chiusi per alcuni giorni».
All’alba del 23 luglio 1944 ebbe inizio il lungo viaggio verso Auschwitz. Al porto circa duemila persone vennero stipate su alcune chiatte adibite al trasporto di animali. Una prima sosta all’isola di Kos per imbarcare altri nuclei familiari arrestati, poi rotta verso il Pireo. Ad Atene il trasferimento su un treno e la partenza per la Polonia, dove giunsero quasi un mese dopo, il 16 agosto. «All’improvviso la nostra adolescenza era finita del tutto», ha detto Modiano. «Già nel 1938 ero stato espulso dalla scuola italiana in seguito all’applicazione delle leggi razziali di Mussolini. Avevo un maestro bravissimo, lo ricordo ancora con nostalgia. Il viaggio fu davvero una marcia di avvicinamento verso l’inferno. Il caldo, gli odori, i bisogni e i primi cadaveri gettati in mare».
Il 23 luglio scorso, proprio a Rodi, sessantasette anni dopo quella tragica alba, Modiano ha incontrato uno degli altri pochi sopravvissuti (31 uomini e 120 donne) alla deportazione, Moshe Cohen, venuto come lui nell’isola a celebrare l’anniversario. Non si vedevano dal 1945, data del loro ultimo incontro a Roma. Modiano, dopo alcuni anni trascorsi nel Congo belga, vive oggi tra Rodi e Ostia; Cohen aveva lasciato l’Italia per combattere volontario contro gli inglesi in Medio Oriente, e dopo un periodo in Israele si è trasferito in California. Si sono riconosciuti dal braccio tatuato a Birkenau. Un lungo abbraccio e tanta commozione.
La stele di granito nella piazza Martiron Evreon (dei martiri ebrei), scrive Gentiloni su La Stampa, recita in sei lingue «Alla memoria eterna dei 1604 ebrei di Rodi e Kos sterminati nei campi di concentramento nazisti. 23 luglio 1944». L’antica sinagoga è lì vicino, ma oggi la comunità ebraica dell’isola, distrutta dai nazisti, non raggiunge le trenta unità. Modiano ha deposto un sasso in memoria della sua famiglia e di tutti gli altri: «Sono tornato vivo da quell’orrore per tutti loro, per poter raccontare a chi è venuto dopo o non credeva, per non disperdere la loro voce e la loro memoria».

(L'Unione Informa, 26 luglio 2012)

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Storie – La menorah di Fiuggi

di Mario Avagliano

   Fiuggi riscopre la sua anima ebraica. Il recente ritrovamento, lo scorso 25 luglio 2012, in via del Macello, a ridosso del Ghetto ebraico di Anticoli (l’antico nome della cittadina laziale, famosa per le sue terme), di una pietra incisa raffigurante una menorah, dovuto ai ricercatori della “Biblioteca della Shoah – Il Novecento e le sue Storie”, istituita a Fiuggi dallo storico Pino Pelloni, ha confermato dal punto di vista storico la presenza in loco di una fiorente comunità ebraica. L’incisione è di fattura catalana, il che fa ipotizzare la sua datazione alla fine del XV secolo.

L’antico Ghetto di Anticoli, denominato più propriamente la Casa degli Ebrei dallo storico Angelo Sacchetti Sassetti, autore di un saggio intitolato Storia di Alatri, si estende nel secolo XII in maniera circoscritta tra via della Portella e via del Macello, occupando nei secoli XV  e XVI anche gli insediamenti compresi tra via della Piazza e via Giordano.
Oggi di quel quartiere sono visibili la Menorah di via del Macello; il Mercato, posto dinanzi la chiesa di San Pietro costruita nel 1617; il Portico e la Corte ebraica in via della Portella; un Forno in via del Macello dove sono stati rinvenuti attrezzi in ferro per la lavorazione del vetro. Nel sottoportico della parte bassa di via della Portella  è stata ipotizzata la presenza di una Sinagoga (con il ritrovamento di due vasche rituali) e  di una sala adibita a scrittura e probabilmente a banco di prestito.
I primi documenti storici che parlano di un insediamento ebraico in Anticoli risalgono al 1183 e tracce della presenza degli ebrei in città si ritrovano anche nei secoli successivi. Poi nel 1555 Paolo IV, al secolo Giovanni Pietro Carafa, emanò la bolla Cum nimis absurdum che creava il Ghetto di Roma e prevedeva una serie di restrizioni per gli ebrei, costringendo anche molti di quelli residenti ad Anticoli a fuggire verso sud, nel Regno di Napoli.
Attraverso carte conservate nell’archivio privato di don Celeste Ludovici, lo storico Pelloni e i suoi collaboratori hanno ricostruito l’aiuto dato alla fine del XVI secolo dagli ebrei di Anticoli alla popolazione e alla Chiesa Anticolana durante i periodi di carestia. La solidarietà della comunità ebraica verso gli anticolani  si manifestò anche durante i terremoti del 12 marzo 1617 e del 24 luglio 1654.
Di contro, a seguito delle leggi razziali fasciste del 1938 e soprattutto dopo la razzia nel Ghetto di Roma del 16 ottobre del 1943, numerose famiglie di ebrei romani  trovarono rifugio ed ospitalità presso famiglie anticolane e dei vicini paesi di Acuto e Trivigliano.
Il rapporto tra Fiuggi e l’ebraismo negli ultimi anni si sta consolidando, grazie all’estro e alla competenza di Pino Pelloni e alla sua attivissima Biblioteca della Shoah, che promuove convegni, incontri e ricerche storiche, spesso aventi ad oggetto la cultura ebraica.
Il 2 settembre anche Fiuggi ha partecipato, insieme a 64 città italiane, alla XIII Giornata Europea della Cultura Ebraica. Molte persone hanno visitato la menorah di via del Macello ed un pubblico attento e curioso ha seguito l'incontro svoltosi nel pomeriggio presso il giardino del Bar Due P, dedicato all'Umorismo Ebraico.
Sempre su iniziativa della Biblioteca della Shoah, ogni venerdì pomeriggio, fino ad ottobre, sono organizzate visite guidate al Ghetto di Anticoli, con l’accensione dei lumi di Shabbat e la degustazione di vino rosso e dolci ebraici. Un modo per riavvicinarsi all’ebraismo.

(L’Unione Informa, 11 settembre 2012)

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