Intervista a Giuseppe De Nardo, fumettaro

di Mario Avagliano

Alla Bonelli, la casa editrice di fumetti numero uno in Italia, c’è un salernitano che non è armato di pennino e di china, ma che scrive storie, anzi - per essere più precisi - sceneggiature. Alcune delle tante avventure da incubo di Dylan Dog e delle indagini sui serial-killer della criminologa Julia sono firmate da Giuseppe De Nardo, nato “incidentalmente a Napoli”, come dice lui, ma cresciuto e formatosi a Salerno. De Nardo sarà uno dei protagonisti del numero-cult che i disegnatori salernitani hanno in corso di preparazione per il ventennale della fanzine “Trumoon”, la mitica rivista che lanciò Bruno Brindisi, Raffaele Della Monica, Luigi Siniscalchi, Giuliano Piccininno e tanti altri. Da Pellezzano, dove ora vive, De Nardo parla della Salerno di ieri e di oggi e dei nuovi talenti della scuola del fumetto salernitano.

Si sente più napoletano o salernitano?
Salernitano, non c’è dubbio. Ho vissuto a Salerno dall’età di cinque anni, nel quartiere di Torrione, e ho fatto tutte le scuole lì. I miei amici sono salernitani e io amo profondamente la mia città.
Com’era la Salerno degli anni Sessanta e Settanta?
Era confusa, disordinata. Una città che cresceva urbanisticamente e socialmente senza riferimenti precisi. Certo, forse era più genuina della Salerno di oggi, e ripensando al passato mi prende sempre un po’ di magone. Mi vengono in mente “la casa del caffè”, le macchine parcheggiate a pettine ai lati del Corso Vittorio Emanuele, il doppio senso di transito delle arterie principali, i palazzi che crescevano come funghi. Credo che la città negli ultimi anni abbia fatto passi avanti da gigante e abbia trovato una sua identità forte intorno al centro storico e al porto.
Immagini di scrivere una sceneggiatura per un fumetto. Come rappresenterebbe la Salerno di allora?
Mi capita di pensare a storie ambientate negli anni Sessanta e Settanta e di immaginarle a Salerno che, come molte città d’Italia, viveva quel clima particolare fatto di speranze, di fermenti, di creatività e, certo, anche di conflitti generazionali e di violenza. Chissà che prima o poi non ne esca fuori una sceneggiatura. Si è scritto e si è girato poco su quel periodo. Soltanto adesso qualcuno comincia ad esplorarlo.
Quand’è scoppiata dentro di lei la febbre del fumetto?
Da ragazzo. Non mi bastava leggere, non mi bastava vedere. Sentivo dentro la voglia di dire qualcosa, di esprimermi, di raccontare, e di farlo possibilmente per immagini. L’incontro con il fumetto è stato naturale. Certo, conta l’attitudine al disegno. Ma va anche tenuto conto che il fumetto è una forma di comunicazione estremamente economica. Avrei avuto molte più difficoltà a fare un film. C’era il problema di racimolare i pochi spiccioli per i “giornaletti”. Figuriamoci rimediare una cinepresa.
Quando è diventata una cosa seria?
Nel 1977, dopo il Liceo (classico De Santis) e mentre iniziavano i lunghi anni universitari. Insieme a Giuliano Piccininno, a Raffaele Della Monica, a Vincenzo Lauria, a Maurizio Picerno e ad altri amici è nato il gruppo che poi avrebbe dato vita a Trumoon. A questo nucleo originario, nei primi anni Ottanta si sono aggiunti Bruno Brindisi, Luigi Coppola, Luigi Siniscalchi e tutti gli altri.
E’ stato importante fare gruppo per arrivare al successo professionale?
Se non si fosse costituito il nostro gruppo, non so cosa avrebbero fatto molti di noi. Forse Bruno sarebbe diventato un operatore televisivo. Qualcun altro avrebbe fatto il rappresentante di commercio... Credo che la capacità di crescere insieme e l’amicizia siano stati determinanti per la nostra carriera professionale.
Un’amicizia che continua tuttora, visto che avete in preparazione un numero speciale celebrativo di Trumoon.
E’ vero, è rimasta una grande amicizia, anche se ci si sente e ci si vede un po’ di meno. Quanto a Trumoon, fu una vetrina che ci permise di fare il salto di qualità, di passare dal dilettantismo al professionismo e di prendere contatti con gli editori. Non nascondo che coltivavamo anche la velleità di metterci in proprio, di autoprodurci, e questo non ci riuscì. Il numero speciale è un omaggio a quella stagione, e anche – perché no? - a quella che è stata definita la scuola salernitana del fumetto.
All’epoca di Trumoon era già passato dal disegno alla scrittura?
No, facevo l’uno e l’altro. Disegnavo e scrivevo storie, per me e per gli amici. Però già cominciava a maturare in me la scelta di approfondire non tanto la tecnica del disegno ma i dialoghi e il ritmo della sceneggiatura.
Qual è stata la sua prima esperienza da professionista?
Sono entrato nel giro perché avevo scritto alcune storie per Bruno Brindisi, proposte in seguito, quando lui era già un affermato professionista, alla casa editrice Universo, che editava l’Intrepido. Per l’Intrepido realizzai anche un personaggio tutto mio, Billiteri. Dopo alcune decine di storie brevi comparse sulla rivista, l’editore mi propose di realizzare una serie autonoma di albi, durata 12 mesi. Si trattava di un personaggio al di fuori degli schemi e dei generi abitualmente frequentati dal fumetto italiano.
Chi era Billiteri?
Un giovane studente universitario fuoricorso, esattamente come lo ero stato all’epoca, che viveva situazioni di sopravvivenza quotidiana intorno alla triade soldi-donne-amici, in una città immaginaria. Non una metropoli. Una città di provincia come tante, con qualcosa di Salerno, magari. Le storie erano a metà tra il realistico e il grottesco. Le infarcivo di elementi autobiografici o basati, comunque, sulla realtà che conoscevo. Forse era questo che le rendeva genuine e apprezzate dal pubblico degli addetti ai lavori.
Il personaggio di Billiteri la fece conoscere nel ghota del mondo del fumetto italiano.
Sì, nel 1995 mi chiamò Marcheselli. A lui e a Sclavi, Billiteri piaceva. Mi chiese se avevo voglia di scrivere una sceneggiatura per Dylan Dog.
La voglia le venne?
Beh, lavorare alla Bonelli per un fumettaro è il massimo. Appena conclusa la mia esperienza con l’Intrepido, ho iniziato a scrivere Dylan Dog. Poi anche Berardi mi ha voluto nella sua squadra, quando ha cominciato a lavorare a Julia.
Come fu l’approccio con la Bonelli?
Difficile, e non solo perché si trattava di lavorare per progetti che avevano già una definizione precisa. Era la prima volta che mi confrontavo con la lunghezza dell’albo bonelliano e che dovevo partire da un soggetto. Fino a quel momento avevo sempre lavorato d’istinto, di getto, senza pianificare ciò che avrei scritto in sceneggiatura. Lasciavo che i personaggi mi prendessero la mano, che la storia si raccontasse da sola, pagina dopo pagina. Alla Bonelli ho dovuto adottare un metodo di lavoro diverso.
Ci descriva una sua giornata tipo.
Prediligo lavorare al mattino, quando l’altra mia attività, l’insegnamento, me lo consente. Una volta che il soggetto è definito, butto giù una bozza dei dialoghi. Li scrivo e li riscrivo fino a quando non mi sembrano giusti. Sono i dialoghi che danno un ritmo alla storia. Prima dei dialoghi, però, c’è un lavoro di preparazione e di documentazione che, a volte, mi porta via delle settimane. Bisogna leggere libri, riviste, navigare su Internet, vedere film.
E’ paziente di carattere?
Dicono di sì. Per il mio amico Piccininno sono pigro e irritante.
A proposito, visto che lei è un manipolatore di parole, proviamo a definire i suoi amici fumettari salernitani. Partiamo proprio da Piccininno.
Sprucido e antipatico. Gli voglio bene.
E Bruno Brindisi.
Una contraddizione: estro e stacanovismo.
Roberto De Angelis?
Noir ed eleganza. Lo batto regolarmente a tre sette con il pizzico.
Luigi Siniscalchi?
Un enfant prodige. Ex enfant prodige. Ormai ne ha più di trenta sul groppone.
Raffaele Della Monica?
Un talento verace. E’ capace di lavorare anche con un pennello da barba. E’ stato il primo di noi ad approdare al professionismo. L’apripista del gruppo. Mi piacerebbe batterlo a bigliardo.
Luigi Coppola?
L’unico che riesca a disegnare con una sigaretta tra le labbra, una tazza sempre colma di caffè tra le dita, senza mai togliere la mano sinistra dalla tastiera del computer.
Ho dimenticato qualcuno?
Daniele Bigliardo. E’ napoletano, ma fa parte della scuola salernitana dagli inizi. Abbiamo fatto insieme Billiteri e continuiamo a fare insieme Dylan Dog.
Ci sono nuovi talenti emergenti della scuola salernitana?
Eccome. Ne citerei almeno tre. Luca Raimondo, un ragazzo tenace, testardo, che ha fatto tesoro dei nostri consigli, non si è mai perso d’animo e ora lavora alla Bonelli. Poi due donne: Antonella Vicari, che lavora pure lei alla Bonelli, e Elisabetta Barletta, la compagna di Bruno Brindisi.
Come mai ha scelto di restare qui, invece di trasferirsi a Roma o a Milano?
Scherziamo? Salerno è una delle città più belle del mondo. Da qui non mi muovo.
A che progetti lavora in questo momento?
Sto lavorando a due sceneggiature. Una di Julia, quasi terminata, che sarà pubblicata entro l’anno, e una di Dylan Dog, appena agli inizi.
Che differenza c’è tra questi due personaggi?
Tantissime differenze. Appartengono a due mondi completamente diversi. Con Dylan Dog ho più spazio per metterci del mio, inventare dialoghi e situazioni brillanti. Julia è un personaggio più vincolante. Non ne scrivo i soggetti e, in fase di sceneggiatura, cerco di avvicinarmi quanto più possibile allo stile di Berardi.
Chi sono i suoi maestri?
Considero Tiziano Sclavi e Giancarlo Berardi due straordinari maestri. Da loro c’è sempre qualcosa di nuovo da apprendere. Per la verità, ho conosciuto Tiziano solo attraverso le sue storie, mai di persona. La distanza tra Milano e Salerno è incolmabile sia per lui che per me. Da tempo progetto un pellegrinaggio fino alla redazione, ma finisco sempre col rimandare a poi. Tiziano è un grande scrittore, non solo di fumetti. “Non è successo niente” è un romanzo tra i più veri e coraggiosi scritti in Italia negli ultimi vent’anni. Alla scuola di Berardi ho colmato molte mie lacune. La mia indole mi porta a cercare situazioni di tipo grottesco. Scrivendo Julia ho imparato a muovermi sul terreno di un rigoroso realismo.
Le viene mai la crisi da foglio bianco?
Sempre, ogni volta che comincio una storia. Non trovo subito la chiave giusta per raccontarla. Niente è scontato. Niente è automatico. Ogni volta devo rimettermi in discussione. La sofferenza è sempre la stessa. Per fortuna ho un altro lavoro. Un lavoro normale, che mi porta a contatto con la gente. Il fatto di insegnare e di avere un rapporto quotidiano con miei alunni e i colleghi mi aiuta ad evitare quello che è il più grande problema di chi scrive: la solitudine. Ci sei tu, lo schermo del computer, il foglio bianco. Quando non so come andare avanti, chiudo la porta, abbasso la persiana, e lì, al buio e nel silenzio, in una sorta di deprivazione sensoriale, a volte per ore, aspetto di sentire voci, di vedere immagini.
Ha sogni nel cassetto?
Ho cominciato a sognare da bambino e non ho ancora smesso. Oddio, mi manca Billiteri. Mi piacerebbe riprendere a raccontare le sue storie. Ne ho certe per la testa. Ma Dylan, Julia, mio figlio e mia moglie, i miei ragazzi a scuola riempiono già abbastanza la mia vita.

(La Città di Salerno, 30 maggio 2004)

Scheda biografica

Giuseppe De Nardo è nato il 3 marzo del 1958 a Napoli. Ha vissuto a Salerno, dove ha seguito gli studi classici al Liceo De Santis, laureandosi poi in Architettura. Le prime esperienze in campo fumettistico fanno capo alla fanzine "Trumoon", vera palestra per quasi tutti i fumettisti della scuola salernitano-partenopea. Nel 1992, la pubblicazione della sua prima storia breve per la rivista "Intrepido". La collaborazione alla testata di punta dell’editrice Universo proseguirà fino al 1995, con la serie "Billiteri" (disegnata inizialmente da Bruno Brindisi, poi continuata da Luca Vannini e altri) e con il mensile "Billiband" (disegni di Vannini e Daniele Bigliardo). Nel 1995, De Nardo inizia a collaborare con la Sergio Bonelli Editore, scrivendo per Dylan Dog ("La città perduta", n. 137, e "Sperduti nel nulla", Almanacco della Paura 1999). Ha debuttato nel nuovo noir di casa Bonelli, Julia, con il n. 7 della serie, "La lunga notte di Sheila", su soggetto di Giancarlo Berardi.

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