Giovannino Russo: La scazzetta e i nipotini di Lombroso

di Mario Avagliano
 
 
Nel Corrierone di Missiroli, di Ostellino, di Ottone, di Spadolini, di Di Bella e, nei giorni nostri, di Mieli e di De Bortoli, dal 1955, ovvero da quarantasette anni, ininterrottamente, è di casa il salernitano Giovannino Russo, che è stato uno dei padri del meridionalismo moderno, e insieme a La Malfa e a Francesco Compagna, uno degli ispiratori, a livello culturale, della politica di intervento straordinario nel Mezzogiorno. "Ora parlare di Sud è passato di moda", borbotta amareggiato nella sua casa romana. Russo ha conosciuto ed è stato amico dello storico sindaco di Salerno Alfonso Menna, del quale - nel nostro colloquio - tesse le lodi ma mette in rilievo anche le ombre ("ha favorito uno sviluppo urbanistico disordinato"), e dal suo osservatorio privilegiato ha sempre seguito da vicino e con partecipazione emotiva i mutamenti e le vicissitudini della sua città nativa, nonostante la lontananza.
 
Lei ha vissuto a Salerno fino a 5 anni.
Come ho raccontato in "Flaianite", sono nato in via Roma, nel palazzo di fronte a quello che è l’attuale Municipio. Mio padre era il Direttore della Cassa di Risparmio di Salerno ed era originario di Sala Consilina. Mia madre era della famiglia Scolpini di Padula.
Ha ricordi della sua infanzia a Salerno?
Ho tanti ricordi. Ad esempio, di quando mio padre mi portava ai giardini pubblici che erano di fronte casa. La domenica c’era una banda che suonava musica d’opera. Ho ancora negli occhi la Festa di S. Matteo, con le sue luminarie colorate. E poi per me, che in seguito ho vissuto in montagna, il mare di Salerno, che contemplavo dalla grande balconata su cui giocavo, è stato sempre motivo di nostalgia.
Come mai la sua famiglia si trasferì a Potenza?
Nel ’29 la Cassa di Risparmio fu assorbita dal Banco di Napoli, e mio padre ricominciò la sua carriera in quella che allora veniva definita la città delle tre "P": promozione, prima nomina e punizione. L’incontro con la Lucania ha plasmato il mio carattere.
Perché?
Noi salernitani siamo fantasiosi ma anche un po’ improvvisatori; lì invece vige un certo rigore montanaro, una certa critica alla chiacchiera. La vivacità salernitana, insieme al rigore lucano, mi hanno aiutato nella vita.
Tornava mai a Salerno?
Certo che sì. La sorella di mia madre, zia Giovanna, abitava a Salerno e d’estate ero suo ospite e andavo al mare in uno stabilimento vicino al Porto. L’acqua era bellissima, ci si specchiava dentro, solo che non ho mai imparato a nuotare, perché tale era la paura di mia zia che mi accadesse qualcosa, che mi permetteva di bagnarmi solo vicino a riva. E’ stata una cosa rovinosa. Ho imparato a nuotare da adulto, a trent’anni…
Concluso il liceo a Potenza, si è trasferito a Roma.
No, prima ho frequentato due anni di università a Bari, dove ebbi come professori anche Moro e De Martino. All’epoca mi ero dato anche alla politica. Nel ’43 avevo fondato, insieme ad altri giovani, il Partito d’Azione in Lucania, partecipando alla battaglia elettorale del ’46 per l’elezione della Costituente e per la Repubblica. Solo successivamente sono venuto a Roma, dove ho concluso gli studi in giurisprudenza, laureandomi, e ho cominciato la pratica da avvocato.
Da praticante avvocato a giornalista e scrittore: un bel salto!
Debbo molto a Carlo Levi, che avevo conosciuto in Lucania durante le elezioni del ‘46. Avevo anche scritto un articolo sul suo libro "Cristo si è fermato a Eboli", pubblicato dal Nuovo Risorgimento di Bari, diretto da Vittorio Fiore, che aveva suscitato molte polemiche e qualche risentimento da parte della borghesia locale che non gradiva la visione "contadina" della società lucana.
Che c’entra Carlo Levi?
Beh, Levi mi presentò al direttore dell’Italia Socialista, una testata erede dell’Italia Libera del Partito d’Azione. Vi ho lavorato prima come cronista e poi come redattore della terza pagina. Ricordo che scrissi tra l’altro la prima critica italiana a Fontamara, di Ignazio Silone. Quando il giornale chiuse, fu sempre Levi a segnalarmi a Pannunzio, direttore del Mondo.
Ho letto che per timidezza lei consegnò il suo primo articolo per il Mondo alla portineria del giornale…
E’ vero. Levi però aveva già parlato di me a Pannunzio. Si trattava di un articolo che raccontava il viaggio-inchiesta tra i contadini della Lucania dell’americano Theodor White, che scriveva per il New York Times ed era autore del famoso pamphlet "Come si fa un presidente". Il mio pezzo fu pubblicato dopo appena dieci giorni dalla consegna.
E così entrò nel principale salotto letterario italiano del tempo…
Lì conobbi Moravia, Flaiano, Ercole Patti, Vitaliano Brancati, Vittorini, Sandro De Feo. Fu una grande scuola per me. Pannunzio mi inviò a Parigi, a Londra. E poi mi dedicai a una serie di reportage sul Sud che nel ’55 raccolsi nel libro "Baroni e contadini", che vinse il Premio Viareggio. Quelle inchieste rappresentarono una novità per il Mondo, che era un grande giornale ma non prestava molta attenzione alle problematiche sociali. Con me, con il mio amico Francesco Compagna, e con La Malfa, nacque un’ala meridionalista del giornale che ha avuto un ruolo importante. Anche se, al dibattito sul meridionalismo, ho partecipato più dalle colonne del Corriere della Sera.
Già, perché nel ’55 lei fu assunto al Corriere.
Fui chiamato al Corriere da un salernitano, Raffaele Mauri, che era il vero uomo-macchina della redazione romana, anche se sulla carta il capo era Silvio Negro. Mauri mi convocò e mi chiese a bruciapelo: "Vuol fare il giornalista?". Io ero convinto di fare già il giornalista! Poi ebbi un colloquio un po’ allucinante con il direttore Missiroli che, sentendo che venivo dalle pagine culturali, si preoccupò di spiegarmi come si scriveva un articolo di cronaca. Infine fui assunto. Da allora sono rimasto praticamente sempre al Corriere, dal ’55 ad oggi. Credo di essere uno dei pochi così "fedeli".
Sul Corriere fu lei a riaprire il dibattito sulla questione meridionale.
Scrissi vari articoli di fondo sul problema del Mezzogiorno e sul pesante divario con il Nord, polemizzando o discutendo con personaggi meridionali e non. Ricordo ad esempio una polemica con De Vita. Questi scritti li ho riuniti in "Sud specchio d’Italia", edito da Liguori nel ’93.
In questi anni manteneva ancora il legame con Salerno?
Il mio primo articolo su Salerno pubblicato sul Mondo è del ’51. In "Baroni e contadini" c’è un vivace ritratto di Salerno, dove si racconta fra l’altro la storia dell’inventore salernitano Natella, che gabbò Mussolini riuscendo a fargli credere che era possibile trarre l’energia elettrica dall’aria. Sul Corriere, poi, ho scritto molti articoli su Salerno, occupandomi in particolare del fenomeno Alfonso Menna.
Alfonso Menna è stato sindaco di Salerno dal 1956 al 1970. Che giudizio si è fatto di lui?
Era mio amico, e aveva rapporti antichi con la mia famiglia, visto che – quando era segretario comunale – conosceva bene mio padre. Pensi che, anche a distanza di anni, al mio compleanno ricevevo sempre un suo telegramma di auguri. Credo che abbia dato molto a Salerno. Ho apprezzato la sua attività e il suo lavoro, anche se resto critico sul modo disordinato in cui si è sviluppata urbanisticamente la città. Il libero sviluppo che Menna ha garantito a Salerno è stato uno dei suoi meriti ma anche un suo limite. In certe zone della costiera salernitana non è stato rispettato il paesaggio.
Afeltra ha scritto che Menna era "un uomo semplice fatto per le cose difficili".
Non ho mai pensato che fosse un uomo semplice. Piuttosto era un uomo molto intelligente ed efficiente, che era animato da una specie di orgoglio salernitano, e riuscì a creare un equilibrio fra le forze politiche, comunicando all’esterno un’immagine di Salerno come città che aveva capacità di sviluppo. Insomma, fece uscire Salerno dal folklore meridionalista, anche grazie ai rapporti personali che aveva con esponenti nazionali della politica, dell’economia e anche del giornalismo. Menna era molto legato a Raffaele Mauri. Fu Mauri a presentarmi Menna. Ma tessé rapporti anche con Piero Ottone e altri giornalisti di rango. Dopo Menna, Salerno è decaduta.
Secondo lei perché?
Menna diede a Salerno un’identità verso la bellezza, per esempio con la geniale intuizione del lungomare. Questo culto estetico negli anni successivi si è perso. Un segnale è stata anche la battaglia sfortunata per insediare l’università nel centro storico invece che a Fisciano, alla quale ho partecipato insieme ad Elena Croce. Devo dire, però, che nell’ultimo quinquennio ho potuto osservare una rinascita della città, grazie al sindaco De Luca. Anche se è una rinascita a due facce.
Ovvero?
La nuova classe dirigente ha affrontato il problema annoso del centro storico, che è stato recuperato e rivitalizzato. Salerno però resta una città di contraddizioni spaventose, un po’ come Napoli. Accanto a questo risanamento così efficace, c’è il caos del traffico e l’affollarsi di una periferia a cui non si pensa abbastanza. D’altra parte in me c’è il rimpianto della Salerno della mia infanzia, una città ancora ottocentesca ben organizzata, con il senso dell’urbanistica e dell’urbanesimo.
Che cosa è mancato a Salerno nella storia più recente?
Nel dopoguerra la classe dirigente di Salerno ha mostrato tutti i difetti di quella meridionale: la vacuità, il notabilato senza interesse collettivo, il notevole clientelismo. A parte le eccezioni di Menna e De Luca, non ha espresso grandi capacità amministrative. Inoltre, sono mancati leader nazionali. Lo stesso Fiorentino Sullo era un "immigrato" che fu costretto a trasferirsi politicamente a Salerno a causa dell’ostracismo della Dc di Avellino.
A proposito di classi dirigenti e di Sud, che fine ha fatto il meridionalismo?
Oggi se si parla di meridionalismo, si rischia di passare per vecchi bacucchi. Esiste ancora un divario enorme tra Nord e Sud dell’Italia, però il meridionalismo è passato di moda, a destra e purtroppo anche a sinistra. Il governo è nordico e il potere di contrattazione del Meridione è assai diminuito. La responsabilità è in gran parte dei politici meridionali, sia della Casa delle libertà che dell’Ulivo, che riempiono la gente di paroloni e non concludono niente di concreto. Dopo la stagione dell’intervento straordinario, non esiste alcuna presenza né culturale né politica del meridionalismo.
Si parla invece di devolution.
Solo a sentire il termine, mi si accappona la pelle. Sono stato il primo ad attaccare la Lega, quando i vari Bocca, Feltri e Biagi non avevano ancora capito la componente populista e demagogica del fenomeno. Pubblicai anche un libro: "I nipotini di Lombroso". Dare maggiore autonomia ai poteri locali è un’esigenza giusta, e ritengo sia colpa del centrosinistra non aver affrontato, se non timidamente, il problema di un reale decentramento. Il progetto di federalismo propugnato da Bossi è però una vera iattura e mina le basi dell’unità nazionale. Non dimentichiamoci che il federalismo è un’unione di Stati che si confederano!
Un’ultima curiosità prima di congedarci. Quando viene a Salerno, dove va a passeggio?
Sono molto amico di Nicola Fruscione e di recente ho partecipato a un paio di dibattiti al Circolo Canottieri. Ho anche ricevuto una medaglia di riconoscimento della città di Salerno. Quando però sono libero da impegni, mi piace perdermi nei vicoli di via dei Mercanti e andare ad assaggiare la scazzetta, il dolce con la glassa e le fragoline di bosco della pasticceria Pantaleone, alla ricerca del tempo perduto. Non ho dubbi: la mia "madelaine" di Proust, a Salerno, è da Pantaleone…
 
 (La Città di Salerno, 12 gennaio 2003)
 
 
Scheda biografica
 
Giovanni Russo è nato a Salerno il 15 marzo del 1925. Dall'età di cinque anni, fino al termine del liceo classico, è vissuto a Potenza. Nel ’43 è stato uno dei fondatori del Partito d’Azione in Lucania. Laureato in giurisprudenza, ha cominciato la carriera giornalistica nel ’48, al quotidiano "L'Italia Socialista" di Roma, quindi ha collaborato a "Il Mondo" diretto da Mario Pannunzio, quando Ennio Flaiano era redattore capo, fino ad entrare nella redazione del "Corriere della Sera" di Missiroli, del quale è stato per lunghi anni inviato speciale. Autore di molti reportage sul Sud, ha pubblicato diversi libri che ritornano con partecipazione su vari aspetti della società meridionale e della politica e cultura italiana, tra cui: Baroni e contadini (1955, Premio Viareggio); L'Italia dei poveri (1958); L'atomo e la Bibbia (1963); Chi ha più santi in Paradiso (1964); Università anno zero (1966); Il fantasma tecnologico (1968); I Bambini dell'obbligo (1971); I figli del sud (1974, Premio Basilicata), Terremoto (1981); Il paese di Carlo Levi (1985, Premio Basilicata); Flaianite (1990); I nipotini di Lombroso (1992); Sud Specchio d'Italia (1993, Premio Mezzogiorno); Perché la sinistra ha eletto Berlusconi (1994); I re di carta (1996); Il futuro è a Catania (1997); È tornato Garibaldi (2000, Premio Carlo Pisacane); Lettera a Carlo Levi e Le olive verdi (2001); Oh, Flaiano! (2001). Per il giornalismo ha vinto tra l'altro il Premio Marzotto 1965 e il Premio Pannunzio 1991.
 

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