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Intervista a Diego De Silva, scrittore

di Mario Avagliano
 
Giuseppe Pontiggia ha scritto di lui che è "uno scrittore che, come i classici,  ci restituisce l'incomprensibilità delle cose". Diego De Silva, classe 1964, è uno dei giovani autori più apprezzati della narrativa italiana. I suoi romanzi sono pubblicati da Einaudi e tradotti in molte lingue. De Silva è nato a Napoli ma vive fra Salerno (dove ha compiuto gli studi) e Roma. Di Salerno dice: “È una città che ha il terrore del nuovo, dove la cultura, salvo piccole isole di resistenza, è una latitante”. 
 
Il punto di partenza è la Salerno della sua adolescenza. Proviamo a descriverla.
Di Salerno in età adolescenziale ricordo il grigio, la noia, il vuoto delle giornate. Era una città che spirava un senso dell’abbandono (non so quanto lo fosse realmente, ma quel senso ce l’aveva eccome); malgovernata, assuefatta al suo dormire e risvegliarsi. Della mia infanzia, invece, ricordo la conflittualità sociale, la microcriminalità, ma anche il senso della diversità e della necessità d’imparare a relazionarsi al mondo fuori. In quegli anni, la differenza fra chi aveva e chi non aveva era evidentissima, e il contrasto conseguente in qualche modo ti formava.
Era una città “grigia” anche dal punto di vista culturale?
Soprattutto, da quel punto di vista. Ha avuto, sì, una discreta stagione politica, una buona stagione musicale (mi riferisco in particolare al fenomeno punk e new wave, che dall’Inghilterra tracciò una sorprendente, inconsapevole geometria con Salerno nella prima metà degli Ottanta), ma non è stata autenticamente modificata da questi fermenti. La cultura (purtroppo lo si capisce tardi) è una proposta di atteggiamento, una qualità dell’agire; sopratutto, è amare poche cose e detestarne tante. Usare il cervello per scegliere. Salerno era una città conformista, piccinamente autoreferenziale, piccinamente autosufficiente. E tutto sommato s’è mantenuta piuttosto simile, a tutt’oggi. Certo, è più colorata, più trafficata, frequentata. È stata anche ben governata, per un po’. Ma non m’illudo che diventi altro. 
Lei ha vissuto anche gli anni del Movimento del ’77.
Ho partecipato a quel movimento, vengo da lì. E’ stata una grande stagione politica, ma a Salerno non è riuscita a produrre un ricambio generazionale, né nella classe dirigente né nelle professioni. Lo dico con rammarico. L’immobilismo sociale di Salerno è insopportabile.
Quando e come nasce il De Silva scrittore?
Scrivere è un gesto che mi è sempre venuto naturale, fin da piccolo, come esigenza di riordinare, riflettere, combinare. Ho sempre creduto che se non diamo parola alle cose che viviamo, è come se non le vivessimo. Tuttavia ho cominciato a pensare in modo strutturale alla scrittura solo intorno alla metà degli anni Novanta, e debbo a Giuseppe Pontiggia se questo per me è diventato un lavoro.
Che c’entra Pontiggia?
Gli mandai dei miei brevissimi racconti (avevo avuto il suo indirizzo da un vecchio amico, Giulio Mozzi, uno scrittore padovano eccellente). Lui mi telefonò una mattina: “Io non so che lavoro fai – mi disse – ma devi scrivere”. Tre anni dopo firmavo il mio primo contratto con Einaudi. 
Che cos’era cambiato?
Peppo Pontiggia, senza muovere un dito, semplicemente parlandomi, cercandomi, ascoltandomi, mi aveva mostrato che avevo molte cose da dire. Molte di più di quelle che  io stesso pensassi. Era una persona rarissima, una mente importante, che non dimenticherò mai. 
Il suo primo romanzo, “La donna di scorta”, è del 1999. Ed è stato subito un successo di critica e di pubblico. Il critico Filippo La Porta ha scritto: “De Silva ha svolto il compito più difficile: riuscire a raccontare il tragico nascosto nella normalità quotidiana”.
L’idea di questo romanzo nasce dal rovesciamento del tipico rapporto di adulterio. Mi sono chiesto come ci si sente se per una volta a soffrire non è lei, ma lui. E ho scelto una scrittura asciutta, senza quelle che Vittorini definiva “le recensioni dei sentimenti”. Sono convinto che in letteratura quanto più si è scarni, tanto più emergono le microvibrazioni dell’anima.
Dopo quel romanzo, ne ha pubblicati altri tre: “Certi bambini” (2001), “Voglio guardare” (2003) e “Da un’altra carne” (2004), oltre a un racconto nell'antologia “Disertori” (2000) e un altro racconto nella raccolta “Crimini” (2005). Qual è l’opera che sente più sua?
Per la verità voglio ancora bene a tutti i miei romanzi. Non cambierei una virgola a nessuno di loro. Tuttavia il libro che ho sentito più prepotente dentro di me, quello che in un certo senso mi ha scavalcato, scrivendosi un po’ per i fatti suoi, è stato “Certi bambini”. Ho sentito come l’urgenza di scriverlo, sia per il tema che affronta, sia per il tipo di linguaggio che ho scelto, così corporeo, così vicino alle cose. 
Il critico  Franco Brevini, di Panorama, lo ha definito “un drammatico documento sulla violenza nella società napoletana”. E’ forse per questo che è stato tradotto in tutto il mondo?
Probabilmente. Ma anche gli altri miei libri sono evidentemente ritenuti interessanti in altri paesi: “Voglio guardare”, per esempio, che è il più difficile e volento dei miei romanzi, uscirà l’anno prossimo in Inghilterra da William Heinemann, del gruppo Random House. È stata un po’ una sorpresa. Pensavo che l’Inghilterra avrebbe preferito “Certi bambini”, prima. 
“Voglio guardare” è un libro che parla di un giovane avvocato penalista. C’è qualcosa di autobiografico?
Sì, in un certo senso è il mio addio a quella professione. È un libro che ha dentro molto tribunale, un’opinione su quel tipo di lavoro e le sue contraddizioni. C’è un momento in cui il protagonista, durante una difesa d’ufficio, ha un lampo di assoluta lucidità, e si sente parte di una gigantesca farsa. “Io sono una menzogna fra le altre”, è la sua intuizione. Intendiamoci, un certo grado di finzione è indispensabile in ogni specie di relazione; nell’amore, soprattutto. Però mi andava di dare a questo personaggio una parola assoluta sull’argomento. Intendiamoci, non viene rivelata nessuna verità. Lo scrittore non è un filosofo, ma un pensatore autenticamente anarchico. La letteratura non risponde del proprio linguaggio, al contrario della filosofia.
Il suo ultimo romanzo s’intitola “Da un’altra carne”. Provi a scrivere la quarta di copertina.
E’ la storia di una donna di sessant’anni, una madre tipicamente meridionale, dotata di una grande forza, anche nell’accezione negativa del termine. Un giorno si vede arrivare a casa un bambino di cui non sa nulla e di cui non le viene detto nulla, che la obbliga a ridiscutere tutta la sua vita.
A proposito di meridionale, quanto è presente il Sud nei suoi romanzi e nel suo linguaggio?
Molto, anche perché mi faccio forte della corporeità della nostra lingua, del suo mandare continuamente allusioni al corpo. E quindi mi viene istintivo screziare il linguaggio, scorticarlo, anche quando l’ambientazione delle storie non è la strada. Tendo sempre a portare il linguaggio in una cifra di verità, specie nel dialogo. Nella letteratura italiana il dialogo spesso è finto, accademico, non veritiero. A me invece piace arricchirlo di espressioni vere, gergali, anche dialettali.
Lei è uno scrittore razionale o istintivo? Come partorisce l’idea del romanzo?
Ho sempre un occhio sospettoso sulla realtà e infatti i miei romanzi di solito nascono da un dettaglio, dall’osservazione di una microvicenda che capita nei dintorni. Credo che la realtà sia viva e dica delle cose che vale la pena di raccontare. Aggiungo che non faccio mai scalette. Non so mai che succederà, anzi mi piace che la stesura del libro abbia un percorso imprevisto. Detto questo, sono anche convinto che quando i personaggi sono forti, vivono indipendentemente da te e che la cifra di qualità di un testo dipende dalla tua estraneità rispetto ad esso, dalla tua capacità di esserne fuori mentre lo scrivi.
Molti critici hanno scritto che il suo stile di scrittura è “fotografico”, per immagini. Condivide?
Ho un tipo di scrittura visiva, ma questa è una caratteristica della letteratura contemporanea. Ma quando scrivo, non penso mai a una trasposizione cinematografica.
Tuttavia dovrà ammettere che le sue storie hanno un forte appeal per il cinema… “Certi bambini” è diventato una splendida pellicola dei fratelli Frazzi e si parla di trarre un film anche da “Voglio guardare”.
E’ più di un progetto. Abbiamo scritto già una prima versione della sceneggiatura e probabilmente il film sarà coprodotto con la Francia. 
Non è la sola sceneggiatura che lei ha firmato.
Oltre a “Certi bambini”, ho lavorato alle sceneggiature di “Sulla mia pelle”, di Valerio Jalongo (un film che ha recentemente vinto il Napoli Film Festival), “I giorni dell’abbandono” di Roberto Faenza e l’episodio italiano del film collettivo “All the invisible children”, sul disagio infantile nel mondo. Più di recente ho scritto la sceneggiatura del prossimo film del regista napoletano Stefano Incerti, David di Donatello per “Il verificatore”: una storia napoletanissima sulla Chinatown partenopea, che narra la relazione tra una ragazza cinese e una specie di reietto, un ragioniere del carcere di Poggioreale. 
So che sta lavorando anche con il regista Francesco Patierno, il regista di “Pater familias”.
A febbraio Francesco girerà per la Rai un film tratto dal mio racconto “Il covo di Teresa”, pubblicato di recente nella raccolta “Crimini” (Einaudi): la storia di un terrorista politico che sequestra la sua vicina di casa per sfuggire alla cattura. Patierno è uno dei registi emergenti che m’interessano di più, perché è coraggioso e lavora senza mediazioni. Con lui ho appena girato anche un radiodramma, intitolato “Senza accendere la luce”, che andrà in onda molto presto. Inoltre nel 2006 uscirà anche un altro film internazionale al quale ho collaborato, “All invisible children”, con registi del calibro di Kusturica e di Spike Lee, finanziato dall’Unicef, che parla del disagio dei minori del mondo e i cui incassi andranno in beneficenza. Il regista dell’episodio italiano è Stefano Veneruso, nipote di Massimo Troisi, e l’attrice protagonista è Maria Grazia Cucinotta, che è anche coproduttore del film. La sceneggiatura è mia. E’ stato girato tutto a Napoli, tra Piazza del Plebiscito e i Quartieri Spagnoli. Il direttore della fotografia è Vittorio Storaro, un autentico privilegio.
Napoli è una presenza frequente nei suoi libri. Ma lei ha scelto di vivere a Salerno.
Considero Napoli il luogo più “diverso” del mondo, ma non riuscirei mai a viverci. Specie nella Napoli degli ultimi anni, che sta vivendo una fase di profonde e devastanti trasformazioni sociali. Salerno è una città assai più vivibile, in particolare per chi ha dei figli. Qui frequento – anche se molto volentieri – poche persone: Gianfranco Marziano, Paolo Apolito, Geppino Gentile e qualcun altro.
Perché?
Sono pochi, a Salerno, quelli che hanno qualcosa da dire. 
Anche culturalmente?
Culturalmente ancor di più. Vi sono solo piccole isole di resistenza, come la galleria d’arte di Lelio Schiavone, Linea d’ombra, o lo stesso Giffoni Film Festival, che è dichiaratamente spalancato sull’adolescenza. Ma questo è un problema che riguarda anche Napoli, vorrei dire soprattutto Napoli. E’ possibile mai che in una città del genere non vi sia una casa editrice di grande importanza nazionale e internazionale? Viene da dire con Eduardo: “Fujetavenne…”.
 
(La Città di Salerno, 27 novembre 2005) 
 
Carta d’identità
 
Luogo e data di Nascita: Napoli, 5 febbraio 1964
Vive tra Salerno e Roma.
Sposato: Si
Figli:  1 (Chiara)
Titolo di studio: Laura in Giurisprudenza
Hobby: musica
Libro preferito: Domani nella battaglia pensa a me (Javier Marìas)
Film preferito: Turista per caso (Lawrence Kasdan)
 
Carriera: Ha pubblicato da Einaudi i romanzi La donna di scorta (2001), Certi bambini (2001, premio selezione Campiello, premio Brancati, premio Fiesole, premio Bergamo, finalista premio Viareggio), Voglio guardare (2003, premio Pisa), Da un'altra carne (2004, premio Città di Melfi), Suoi racconti sono apparsi nelle antologie Disertori (Einaudi 2000) e Crimini (Einaudi 2005). È consulente editoriale, scrive anche per il cinema, tiene corsi di scrittura creativa in scuole pubbliche e private e collabora a "Il Mattino" e al mensile “Giudizio universale”. Da Certi bambini è stato tratto il film omonimo diretto dai fratelli Frazzi, vincitore di svariati premi nazionali e internazionali, fra cui l’Oscar europeo e due David di Donatello. I suoi libri sono tradotti in Inghilterra, Francia, Spagna, Germania, Olanda, Portogallo e Grecia.

 

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