Album di famiglia con nazi-genitori

di Mario Avagliano

Che cosa hanno in comune il fine intellettuale Günter Grass, premio Nobel della letteratura, e l’ispettore di polizia Derrick, alias Horst Tappert, l’attore che lo ha interpretato nelle celebre serie tv andata in onda dal 1974 al 1998? Entrambi avevano un passato nazista. E anche l’alter ego dell’ispettore, al pari di Grass, a venti anni fece parte delle SS, come ha riportato qualche giorno fa il Frankfurter Allgemeine Zeitung.

La notizia non deve aver sorpreso più di tanto i tedeschi, giunta com’è a cavallo dell’inaspettato successo della fiction Unsere Mütter, unsere Väter, ovvero Le nostre madri, i nostri padri, trasmessa sullo Zdf, il secondo canale tv tedesco, che secondo il settimanale Der Spiegel, grazie ad una martellante pubblicità, è già stata vista da più di 20 milioni di telespettatori.
Tre puntate dirette dal giovane regista Philipp Kadelbach, per un totale di 270 minuti, che hanno scosso il pubblico e provocato i commenti di critici cinematografici e di storici, provando a raccontare il passato scomodo e la complicità ai crimini del nazismo da parte dei tanti mamma e papà dei tedeschi di oggi. Sulla scia della serie tv, il popolare giornale berlinese Bz ha pubblicato tre pagine di confessioni di cento cittadini della capitale sotto il titolo “Cosa hai fatto tu”, illustrato da un elmetto con la svastica nazista.
Nel dopoguerra il processo di Norimberga condannò a morte i capi del nazismo, attribuendo le responsabilità essenzialmente ad Adolf Hitler e ai gerarchi del partito e delle SS. E così a lungo la storiografia tedesca ha ignorato le colpe della popolazione e perfino della Wehrmacht, l'esercito.
La correzione di rotta degli storici, che nell’ultimo ventennio hanno approfondito con studi, convegni e mostre il rapporto morboso che legò i tedeschi al nazismo, ora approda anche in tv. Il successo di pubblico della serie televisiva è nell’aver saputo confezionare, con i cliché di una normale fiction, un prodotto che mischia eventi storici reali e vicende private romanzate, narrando gli eccidi di civili compiuti dalla Wehrmacht sul fronte orientale e la complicità dei normali cittadini allo sterminio degli ebrei.
La fiction segue le vicende di cinque giovani berlinesi, tre ragazzi e due ragazze, che si trovano di fronte alle barbarie dei loro connazionali nazisti. Il messaggio di fondo è che le colpe non riguardarono solo i governanti di allora. I cattivi non furono sempre dei mostri riconoscibili, ma in moltissimi casi erano cittadini comuni, come aveva già scritto Hanna Arendt nel suo libro La banalità del male. Così nel film la bella e seducente infermiera, che all’apparenza sembra simpatica e dolce, non esita a denunciare la sua dottoressa perché ebrea, causandone la deportazione ad Auschwitz.
La serie televisiva ha anche provocato una polemica internazionale. I partigiani polacchi, infatti, vi vengono infatti dipinti come antisemiti, permettendo ad esempio che un treno proceda verso i campi di concentramento, nonostante intuiscano la presenza di ebrei sui vagoni. Alcune associazioni polacche hanno rivolto un appello al ministro degli Esteri Radoslaw Sikorski, chiedendo di adottare misure decise contro la diffusione di questa "serie televisiva diffamatoria". E il settimanale Uwazam Rze, in segno di protesta, ha sbattuto in copertina un fotomontaggio irriverente della cancelliera Angela Merkel vestita col pigiama a righe dei deportati nei lager e con il filo spinato sullo sfondo, titolando: "Falsificazione della storia: come i tedeschi si sono resi vittime della seconda guerra mondiale”.
Le polemiche hanno indotto l'ambasciatore polacco in Germania, Jerzy Marganski, a scrivere una lettera alla Zdf in cui spiega che "l'immagine della Polonia e della resistenza polacca agli occupanti tedeschi, così come raccontata dalla serie, è stata percepita dai cittadini polacchi come ingiusta e offensiva" e lamentando l’omissione di qualsiasi riferimento alla rivolta di Varsavia del 1944, in cui duecentomila civili polacchi persero la vita, di cui molti prestarono aiuto agli ebrei.
In Italia, Einaudi propone proprio ora il libro dello storico tedesco Götz Aly Perché i tedeschi? Perché gli ebrei? (pp. 284, euro 32), in cui tira in ballo il passato nazista di suo padre Ernst e dei suoi nonni e zii, spiegando attraverso le proprie vicende familiari come i tedeschi hanno sostenuto fino all’ultimo Hitler ed erano partecipi della Shoah. Da parte sua il settimanale inglese The Economist, in un articolo intitolato “Bentornati al Terzo Reich”, si interroga sullo strano fenomeno della ricomparsa sulla tv tedesca di veterani della seconda guerra mondiale che, dopo il successo di Le nostre madri, i nostri padri, sono invitati sempre più spesso nei talk show per raccontare il loro disagio e come fossero stati “costretti” a uccidere ebrei.

(Il Mattino, 3 maggio 2013)

Storie – Poesia e lager: sulla strada per Leobschütz

di Mario Avagliano

Può la poesia raccontare l'orrore dei lager? Theodor W. Adorno aborriva l’estetizzazione della Shoah e sentenziò: “Dopo Auschwitz scrivere ancora dei poemi è barbaro”. Primo Levi, in una lettera del 1979 confidò a Giancarlo Borri: “a dispetto di Adorno, non solo si possono ancora fare poesie dopo Auschwitz, ma su Auschwitz stesso si possono, e forse si debbono, fare poesie...”.

E infatti in Europa nel dopoguerra ci hanno provato in molti, con versi dolenti e delicati, potenti e disperati: non solo gli italiani Primo Levi, Umberto Saba e Vittorio Sereni, ma anche tanti altri, come Rose Ausländer, Paul Celan, Jean Cayrol, Charlotte Delbo, Robert Desnos, Max Jacob, Jadwiga Leszczynska, Nelly Sachs, Jorge Semprun, Adam Zich. A questo tema è stato dedicato qualche anno fa, nel 2007, un saggio curato da Alberto Cavaglion, intitolato Dal buio del sottosuolo. Poesia e Lager, edito dall’Istituto piemontese per la storia della Resistenza.
Ora giunge in libreria una nuova intensa opera di poesie sui campi di sterminio: Sulla strada per Leobschütz (La Vita Felice, pp. 60), di Daniele Santoro, poeta di origini salernitane, docente e critico letterario a Roma.
“Santoro si è documentato per scrivere, e riporta i testi a cui si è rifatto […] Documentarsi per scrivere versi? Certo, questa è la sfida, la novità, la risposta etica all’insensatezza di tanto egocentrico e fatuo verseggiare di oggi”, scrive Giuseppe Conte nella prefazione. E infatti il pathos ci afferra fin dalla prima pagina, e con Santoro entriamo anche noi dentro al lager e alle sue regole. “Regola prima. Me lo porti al muro / ovviamente già nudo. La divisa / la sistemi da parte col berretto / (servirà per i prossimi arrivati). / Regola due. Lo tieni per l’orecchio / se per il braccio è inutile, se fa resistenza / insomma che non s’agiti, se sbaglio mira / poco mi importa, non faccio differenza”.
Con lui viviamo l’assurdità della condizione di deportato. “voi non sapete un uomo che significhi / sfinito, sfilare nudo a passo militare / il piede congelato nel suo zoccolo di legno”. Il dramma della conta. “sta per cadere, guardalo, barcolla / gli occhi gli si strabuzzano di brutto / il teschio gli si piega a manico di ombrello / crollerà, è inutile, non puoi farci niente”. Lo spettacolo del fuggitivo impiccato. “ancora resta lì, ancora non lo scendono tra noi / non sventola nemmeno più il suo orrore, è immobile / talmente è fatto ghiaccio, è un indice negli occhi / un chiodo, un ago dalla cruna spalancata, un grido”. L’incubo delle selezioni. “sanno oramai il destino che li aspetta / infatti a malincuore lasciano la fila / tremano messi in disparte guardano / noi che facciamo un passo avanti a / chiudere la riga”. E poi le marce, i roghi, i campi della morte.
La raccolta di Santoro comprende circa quaranta poesie che fotografano in bianco e nero il buio della storia dei lager, con versi luminosi ma acuminati, veementi ma maleodoranti, lasciando poco spazio alla speranza (“a liberarci dall’angoscia è giusto una misura di stupore, / una bellezza che dia senso, amico, come quella sera / che puntavamo al cielo gli occhi e ci sorprese / il pieno delle stelle immenso il firmamento”) e travolgendo con la carnalità delle immagini e il cupo senso di oppressione dell’universo concentrazionario.
“Alla fine - come scrive Conte - il lettore apprezzerà l’energia di questo libro. Una energia etica che ribalta il male mentre lo inscena, e ne mostra l’intollerabile, banale disumanità. Esco da questo libro grondante orrore con una percezione vitale più forte. Non è questo il miracolo costante, catartico della poesia?”

(L'Unione Informa, 7 maggio 2013)

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Storie – Mauthausen e la escalera della morte

di Mario Avagliano

E’ stato celebrato nei giorni scorsi il 68° anniversario della liberazione del lager di Mauthausen, con la partecipazione di una folta delegazione italiana, guidata dall’Aned. La liberazione del campo avvenne il 5 maggio 1945, quando le prime camionette americane entrarono nel cortile di Mauthausen e del sottocampo di Gusen (e il giorno dopo del sottocampo di Ebensee), suscitando la gioia dei deportati sopravvissuti.
A Mauthausen, tra l’agosto del 1938 e il maggio del 1945, vennero deportati circa 200 mila uomini, donne, anziani e bambini provenienti da più di quaranta nazioni: oppositori politici, persone perseguitate per motivi religiosi, omosessuali, ebrei, zingari, prigionieri di guerra e anche detenuti comuni. Almeno la metà di essi fu uccisa o morì a causa delle inumane condizioni di vita e di lavoro.

Gli italiani furono deportati nel lager austriaco dal settembre-ottobre del 1943 con una ventina di “trasporti” per un totale di 6.615 (come risulta da Il libro dei deportati a cura di Brunello Mantelli e Nicola Tranfaglia). I sopravvissuti furono il 45%.
Tra i primi prigionieri del campo di Mauthausen vi furono i repubblicani spagnoli, molti dei quali morirono costretti a trasportare grossi blocchi di pietra per costruire le mura del campo su per una scala della morte di 186 ripidi gradini (che poi sarebbe diventata l’incubo di tutti i deportati), e il cui sacrificio fu immortalato in una canzone di Antonio Resines e Antonio Gòmez, La escalera de Mauthausen: “Ogni gradino la fame / ogni gradino il freddo / ogni gradino ci conficca le unghie nella piaga / Ogni gradino la notte / ogni gradino la pietra / ogni gradino si abbassa il peso della schiena / Ogni gradino frustate / ogni gradino carnefice / ogni gradino colpisce e attanaglia la gola / Ogni gradino più lontano / ogni gradino fatica / ogni gradino un sogno perduto di arance / Ogni gradino pericolo / ogni gradino silenzio / ogni gradino avanza la morte e ci ghermisce”.
Il 16 maggio 1945 si tenne sul piazzale dell'appello del lager una grande manifestazione antinazista, al termine della quale gli ex deportati di tutte le nazionalità approvarono un appello noto come il "Giuramento di Mauthausen", nel quale si leggeva fra l’altro: «Nel ricordo del sangue versato da tutti i popoli, nel ricordo dei milioni di fratelli assassinati dal nazifascismo, giuriamo di non abbandonare mai questa strada. Vogliamo erigere il più bel monumento che si possa dedicare ai soldati caduti per la libertà sulle basi sicure della comunità internazionale: il mondo degli uomini liberi! Ci rivolgiamo al mondo intero, gridando: aiutateci in questa opera! Evviva la solidarietà internazionale! Evviva la libertà!». Un impegno valido ancora oggi.

(L'Unione Informa, 14 maggio 2013)

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Storie – Umberto Saba e il sogno di Hitler

di Mario Avagliano

"A quelli che credono ancora che Adolfo Hitler… abbia almeno amata la Germania, racconto qui qual è stato veramente il suo Sogno. Ridurre la Germania un mucchio di macerie; e, fra nuvole di gas asfissianti, rimproverando ai tedeschi di averlo – per colpa degli ebrei – tradito, salire EGLI al cielo, in una specie di apoteosi, circondato dal fiore delle più giovani e fedeli S.S. Questo sogno egli lo ha sognato così profondamente … che si può dire che egli abbia vinta – almeno in parte – la SUA guerra”. Così scriveva Umberto Saba in Scorciatoie e Raccontini, pubblicato nel 1946.

Non molti sanno che il grande poeta triestino fu uno dei primi intellettuali europei ad interrogarsi sul nazismo e la Shoah. Impagabile il ritratto di Hitler “eseguito nel 1933” e proposto in questa stessa opera: “Con quei baffetti sotto il naso, e quella smorfia facciale, come fiutasse sempre… un cattivo odore”.
“Accanto alla metafisica post-Auschwitz di Primo Levi - come ha osservato acutamente Ettore Janulardo, in un saggio apparso sulla rivista Studi e ricerche di storia contemporanea - si situa la prosa lirica post-Majdaneck di Umberto Saba”.
Majdaneck era un piccolo campo di concentramento tedesco, sito a Lublino, in Polonia: il primo scoperto dagli Alleati. Il 22 luglio 1944 vi giunsero le prime pattuglie russe, trovandovi qualche migliaio di sopravvissuti. Mauthausen, Dachau, Buchenwald, Auschwitz erano allora sconosciuti. Costituito nel 1941, vi transitarono circa 300 mila deportati, di cui il 40 per cento ebrei di varie nazionalità. Campo di concentramento e di sterminio, fu un sito di morte con ogni mezzo: gas, armi da fuoco, impiccagioni. Vi morirono circa 80 mila persone.
Majdaneck è per Saba il simbolo della vicenda concentrazionaria, l’inizio della conoscenza da parte dell’umanità degli orrori del nazismo (quello che è ora Auschwitz). Egli in Scorciatoie e Raccontini si confronta con l’annullamento della persona al tempo dei lager: “Dopo Napoleone ogni uomo è un po’ di più, per il solo fatto che Napoleone è esistito. Dopo Majdaneck…”
Quanto alla vicenda italiana, Saba è più indulgente del suo amico Giacomo Debenedetti, come ha rilevato di recente Alberto Cavaglion sulla rivista storiAmestre. Il poeta triestino scrive che “Gli ebrei italiani non potevano fare all’Italia (in quanto ebrei) né bene né male. Mediterranei come la maggioranza, viventi in Italia da secoli o da millenni; c’è – con qualche eccezione – meno diversità fra un italiano ebreo e un italiano non ebreo, che non, p. es., fra un bresciano e un calabrese”.
A differenza di Debenedetti, Saba sostiene che in Italia non vi era stato bisogno di difendersi dall’antisemitismo: “non c’è mai stato in Italia – tolti gli anni dell’agonia del fascismo – un bisogno di difendersi da queste cose”. Una visione generosa dei fatti. Pesa in questo, probabilmente, la sua esperienza personale di discriminato, grazie al risolutivo intervento dello stesso Benito Mussolini. Per questo motivo, il giudizio sul duce, pur restando negativo, è più conciliante: per Saba infatti Mussolini non fu antisemita o sanguinario ma “carcerario”.
Si tratta di testi scritti, come Saba stesso annota, “sotto l’impressione, estremamente piacevole, della dissoluzione di un incubo”. Ma lo stesso poeta triestino avverte: “Dieci anni ancora di fascismo, nazismo, razzismo e si regrediva tutti (vero alla lettera) al cannibalismo”.

(L'Unione Informa e portale moked.it, 21 maggio 2013)

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Storie – Eichmann o la banalità del male

di Mario Avagliano

Mezzo secolo fa veniva pubblicato La banalità del male della filosofa tedesca Hannah Arendt, un libro che ha segnato la storia della cultura del Novecento, non senza accese polemiche. In occasione del cinquantenario, arriva in libreria Eichmann o la banalità del male (Giuntina, pagg. 214), che fa il punto sul dibattito suscitato da quell’opera, con un corredo di alcuni preziosi documenti e materiali inediti: l’intervista della Arendt allo storico tedesco Joachim Fest, che venne trasmessa da una radio bavarese nel 1964, con il carteggio inedito tra i due; alcune lettere e documenti della Arendt; la stroncatura del libro da parte del famoso storico e filosofo tedesco Golo Mann (terzo figlio di Thomas Mann); il saggio della scrittrice statunitense Mary McCarthy, che invece concordava con la Arendt (Sellerio ha proposto qualche anno fa l’interessante corrispondenza tra le due amiche); una ricca bibliografia sull’argomento.

Il saggio della Arendt vide la luce a seguito del processo a Gerusalemme del 1961 al criminale di guerra Adolf Eichmann, tenente colonnello e capo della sezione ebraica della Gestapo, che era stato catturato in Argentina nel 1960 dal Mossad e raccoglieva i reportage scritti dalla filosofa per il New Yorker. Il processo si concluse con la condanna a morte di Eichmann, che fu impiccato l’anno dopo. All’epoca fece scandalo il titolo del libro della Arendt e colpì molto anche il ritratto di Eichmann che esso proponeva, come un funzionario del male, un uomo apparentemente “normale” che sognava di far carriera uccidendo il maggior numero possibile di ebrei.
La polemica scoppiò anche attorno al significato simbolico del processo. In Israele molti, a partire dal primo ministro Ben Gurion, volevano che fosse un vero e proprio processo al sistema nazista, mentre la Arendt riteneva che bisognasse giudicare solo gli atti compiuti dal funzionario nazista.
Corrado Stajano, sul “Corriere della Sera”, recensendo il libro della Giuntina, ricorda che Fest in una sua opera (Incontri da vicino e da lontano, Garzanti) spiegò che in realtà la Arendt “non aveva minimamente inteso definire banale lo sterminio, né tantomeno il male in sé. Aveva semmai voluto descrivere quel male, nella sua terribile incarnazione in uno squallido personaggio”.
Nell’intervista inedita questa interpretazione del pensiero della filosofa tedesca viene fuori con nettezza e la Arendt ci chiama a riflettere sul mancato pentimento dei nazisti e sulla caratteristica che accomunava gli assassini di ebrei, privi di qualsiasi movente, e per questo “incomparabilmente più terribili di qualsiasi altro assassino”.

(L'Unione Informa e portale moked.it, 28 maggio 2013)

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Storie – La lunga strada sconosciuta

di Mario Avagliano

Tra il 1933 e il 1945 prima la persecuzione nazifascista e poi la seconda guerra mondiale separarono brutalmente molte famiglie di ebrei, costringendo i loro membri a cercare di sopravvivere in vari angoli d’Europa. E’ il caso di Hela Schein e di Otto e Heinz Skall, nonché di Willi Kleinberg e Gusti Mandler (rispettivamente secondo marito di Hela e seconda moglie di Otto), una famiglia ebrea “frammentata” in quegli anni tra Austria, Cecoslovacchia e Italia.
La loro vicenda è stata raccontata, con garbo e sensibilità, da Roberto Lughezzani nel bel libro La lunga strada sconosciuta. Una famiglia ebrea nella morsa del nazifascismo (Marlin editore).
La tragica storia ricalca quella di milioni di ebrei: nell’attesa angosciosa della fine, Willi muore di crepacuore, mentre Hela, deportata in Polonia, sparisce nell’orrore del lager; Otto con la seconda moglie Gusti si suicida a Praga per sfuggire alla deportazione a Theresienstadt.
L’unico sopravvissuto della famiglia è il giovane Heinz, figlio di Hela e di Otto, che ha studiato in Italia e dopo il varo delle leggi razziali finisce nel campo d’internamento di Campagna, e poi a Sala Consilina, in provincia di Salerno.
A Sala Consilina Heinz intreccia una tenera storia d’amore con una giovane insegnante, Rita Cairone, che sposerà dopo la guerra. Egli resterà fino all’ultimo il custode delle memorie familiari, il depositario delle lettere straordinarie che i suoi gli avevano scritto negli ultimi anni di vita. Sono lettere che si leggono con viva commozione e, contro ogni forma di negazionismo, testimoniano la ferocia con cui il nazismo infierì su milioni di esseri umani, di null’altro colpevoli che di essere ebrei.

(L'Unione Informa, 11 giugno 2013 e portale Moked.it)

Roberto Lughezzani "La lunga strada sconosciuta"
Una famiglia ebrea nella morsa del nazifascismo
Presentazione di Elena Skall

Ft. 12,2 x 20
pp. 228€ 16,00
ISBN 978-88-6043-079-3

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Storie - Il caso Palatucci e il compito della storiografia

di Mario Avagliano

La storia non si fa né con le glorificazioni improvvisate né con i giudizi sommari. La storia richiede una lunga attività di scavo e di ricerca, non solo negli archivi, che tenga conto dei documenti e delle testimonianze disponibili e anche del contesto in cui si svolsero i fatti. Lo dimostra la vicenda del funzionario di polizia irpino Giovanni Palatucci nel periodo della persecuzione degli ebrei, tra il 1938 e il 1944, oggetto di attenzione in queste ultime settimane da parte dei principali quotidiani nazionali.
Palatucci è il classico esempio di come, senza opportuni studi ed approfondimenti, un personaggio possa essere considerato, a seconda dei punti di vista, “santo” o “criminale”. Dal riconoscimento di Giusto tra le Nazioni dello Yad Vashem e il processo di beatificazione da parte della Chiesa cattolica, alle accuse del New York Times di collaborazionismo con i nazisti.
Uno dei primi a sollevare dubbi sul salvataggio da parte di Palatucci di migliaia di ebrei fu, nel 2008, lo studioso Marco Coslovich, nel libro Giovanni Palatucci. Una giusta memoria. Ora a riaprire il dibattito è stata la presa di posizione del Centro Primo Levi di New York, a seguito di uno studio su circa 700 documenti di vari archivi internazionali, tra i quali quello della città di Fiume.

Sul caso Palatucci, inviterei a leggere le interviste di Michele Sarfatti a Panorama e all’Huffington Post e le sue dichiarazioni al Corriere della Sera.
Sarfatti, che ha partecipato alla ricerca del Centro Primo Levi ed è uno storico di grande spessore e serietà scientifica, dopo aver affermato che dai documenti esaminati non sono emerse «evidenze storiografiche del salvataggio di migliaia di ebrei da parte di Giovanni Palatucci» e che il ruolo del funzionario irpino è stato «ingigantito», ricorda però che fu deportato a Dachau per attività antitedesca e spiega che la sua vicenda merita rispetto e ricostruire il suo operato non significa spostarlo «nel campo dei cattivi».
Quanto alle accuse di collaborazionismo con i tedeschi, Sarfatti precisa testualmente: “resto perplesso su una frase della giornalista del NYT, secondo la quale Palatucci avrebbe ‘aiutato i tedeschi a identificare gli ebrei da rastrellare’. Frase che attribuisce ai ‘ricercatori’, senza specificare chi. Ma di questo non esiste prova alcuna”.
Ma il ruolo di salvatore di Palatucci è stato del tutto inventato? Un’affermazione del genere sarebbe scorretta. Nella pratica di riconoscimento dello Yad Vashem ci sono prove che Palatucci soccorse una donna ebrea, Elena Aschkenasy. E, come aggiunge Sarfatti, ci sono in suo favore testimonianze “che in linea generale ritengo fondate, ma devono essere vagliate con attenzione studiando le carte”. Ad esempio quella sul salvataggio dei due coniugi Salvator e Olga Conforty (la figlia Renata Conforty lo ha ricordato sul Corriere della Sera del 23 giugno).
Il problema è che, come osserva Sarfatti, “i riconoscimenti pubblici a Palatucci hanno preceduto la ricerca storica”. Ora lo Yad Vashem ha avviato un processo di riesame del suo caso sulla base della nuova documentazione. E, come propone il direttore del Cdec, anche in Italia si potrebbe nominare un gruppo di lavoro per fare chiarezza sulla vicenda.
Aggiungo che mi trovo d’accordo con Anna Foa sul fatto che, probabilmente, in seguito alle ricerche in corso i numeri andranno ridimensionati e alcuni eventi andranno riletti, ma va tenuto conto che la necessaria segretezza di un’attività di questo tipo non rende semplici le verifiche e comunque anche aiutare o salvare solo alcune persone è un fatto rilevante e meritevole di ricordo, di riconoscimento e di apprezzamento.

(L'Unione Informa 26 giugno 2013 e Portale Moked.it)

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Storie – Esperimenti di Web Memo-ria

di Mario Avagliano

Si potrebbe chiamare Web Memo-ria il profluvio di iniziative in rete per ricordare i genocidi e le guerre del Novecento. Un fiorire di progetti che forse nasce anche come risposta alla superficialità e a volte all’ignoranza con cui questi temi spesso vengono trattati su internet. L’ultimo di questi progetti, partito un anno fa, è "Web Memo - European Digitalization of shared memories" e i suoi risultati sono stati presentati oggi a Venezia. L’obiettivo? Raccogliere testimonianze storiche sulla Shoah e sui genocidi del nazifascismo, fare rete tra le scuole europee, trasmettere “quello che è stato” ai giovani, rafforzando così il senso di identità europea. Il principale frutto di questo lavoro è il sito internet www.webmemoproject.eu, diventato vetrina di un nuovo "Centro di Documentazione Europea" e strumento per coinvolgere dodici istituti superiori tra Veneto, Belgio e Baviera in un viaggio interattivo nella memoria.

Il progetto, finanziato dal Programma comunitario Europa per i Cittadini-Azione Memoria Europea Attiva, ha come capofila il Giardino dei Giusti del Comune di Padova e come partner la Regione del Veneto, attraverso la Direzione di Bruxelles, le Acli padovane e alcune delle maggiori comunità ebraiche europee: quelle di Venezia e Padova, insieme allo European Jewish Community Centre di Bruxelles e alla European Janusz Korczak Academy di Monaco di Baviera.
Nel sito sono presenti testimonianze di sopravvissuti alla Shoah ancora in vita, oltre a documenti, fotografie, video e documentari, disponibili anche in inglese oltre che nelle lingue originali. Un nucleo di testimonianze e di carte ora disponibile e direttamente accessibile sulla rete, come ad esempio la circolare datata settembre 1938 con cui il provveditore di Padova esonera ed espelle gli insegnanti ebrei dalle scuole.
Il progetto Web Memo ha anche permesso di formare una rete europea nelle scuole, sviluppatasi tra Venezia, Padova, Bruxelles e Monaco di Baviera. Vi hanno partecipato circa 180 studenti veneti, appartenenti all'I.T.I.S. Primo Levi e al liceo Majorana-Corner di Mirano, al liceo Stefanini di Mestre, e ai licei Tito Livio, Curiel e Amedeo di Savoia Duca d'Aosta di Padova. Circa altrettanti sono stati gli alunni coinvolti nelle scuole di Bruxelles e di Monaco. Un modo intelligente per trasmettere la Web Memo-ria alle nuove generazioni.

(L'Unione Informa e portale Moked.it, 2 luglio 2013)

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